"Se gli uomini non nutrono un ideale in un mondo migliore perdono qualcosa.
L'umanità non potrebbe funzionare senza le grandi speranze, le passioni assolute."
Eric J. Hobsbawm

lunedì 18 luglio 2011

Intervista Leonardo Bassilichi, Dir. Gen. Bassilichi



Questa volta il nostro peregrinare senza fine, a caccia di spunti e opinioni sull'imprenditorialità e sul rapporto Banca-Impresa, ci porta in Toscana e più precisamente a Firenze in Bassilichi , tra i leader nazionali del settore del BPO bancario e non solo. Con 256 milioni di fatturato nel 2010 e più di mille dipendenti, il gruppo gode di questa posizione grazie ad una fedele ma continua re-interpretazione della missione iniziale del 1957, e intelligenti e coraggiose operazioni di riposizionamento nel corso degli anni.

Abbiamo incontrato Leonardo Bassilichi, direttore generale del gruppo.


Martinoli:  Iniziamo da una prospettiva di carattere generale. A suo giudizio quale sarà il futuro del sistema imprenditoriale italiano? Sarà di tipo “competitivo”, cioè dipenderà dall’uso di nuove tecnologie, per servire meglio esigenze di sempre, o di tipo “imprenditoriale”, vale a dire che dipenderà dalla creazione di servizi e prodotti (anche ovviamente usando nuove tecnologie) che creeranno nuovi mercati (o parti di esso)?

Bassilichi: Uno non esclude l’altro. Gli imprenditori devono trascinare il loro comparto sia nel migliorare quello che c’è, dunque il primo scenario, sia nell’inventare nuovi serivizi e prodotti, il secondo. Il problema di questo momento è che siamo fermi nel fare entrambe le cose. Anche i fenomeni auspicati di aggregazione vengono invocati o incoraggiati senza un progetto imprenditoriale; in pratica, dovrebbero esserne mezzo e non obiettivo fine a se stesso. Certo la massa critica è indispensabile per raggiungere livelli di qualità in alcuni settori, ma non può essere l’unico obiettivo, sarebbe di corto respiro. Inoltre, ci sono delle fasi della vita di un’impresa, come dimostra la nostra storia, in cui l’imprenditore non necessariamente deve essere anche il manager. 

M: Tutte le cose dell’universo nascono, si sviluppano e muoiono.
Quale è il ciclo di vita di una idea imprenditoriale?
Può quella scienza che si chiama strategia aziendale fornire modelli per comprendere la nascita e lo sviluppo di un’ idea imprenditoriale?

B: Sono d’accordo solo in parte. Il ciclo di vita di un’azienda corrisponde al ciclo di vita dei prodotti, o dei servizi, che ha in mente ed è capace di portare sul mercato. Nel nostro caso la Bassilichi ha sempre voluto essere un fornitore di servizi nell’IT; così è nata e così si è sviluppata. Col tempo abbiamo cambiato il modo di fare servizi, posizionandoci in maniera diversa rispetto al modello iniziale. Molto spesso gli imprenditori si legano troppo al prodotto che gli ha dato il successo e non si rendono conto che ha anch’esso un ciclo di vita. E’ umano, è accaduto anche a noi in passato e ne siamo usciti proprio accorgendocene per tempo e reagendo molto velocemente. Purtroppo, quando si arriva vicini alla “morte”, che è il vero segnale di fine ciclo, a volte è troppo tardi.

M: Passiamo allora al rapporto Banca e Impresa: binomio inscindibile per lo sviluppo.
A suo giudizio in quale scenario crede ci stiamo avventurando:

Scenario A) Le aziende sempre meno capaci di creare cassa a causa della competizione sono costrette a chiedere sempre maggiori supporti al sistema bancario. E’ di ieri l’affermazione di Armani: la moda è in mano alle banche (ed alla borsa).



Scenario B) Le banche riescono a diventare catalizzatrici di sviluppo. Riescono, cioè, ad usare e fornire alle imprese modelli e metodi (che provengono dalla scienza della strategia d’impresa) per  stabilire un dialogo di sviluppo. Un giudizio di merito del credito che guarda al futuro. Un supporto per progettare il futuro dell’impresa.

B: Purtroppo lo scenario A rappresenta un dato di fatto, una realtà sotto gli occhi di tutti. Bisogna spingere per uno scenario B. Siamo evidentemente davanti ad un cambio strutturale che sta imponendo una metamorfosi ad entrambi gli attori. Le banche hanno scoperto che possono morire, e da qui un rinnovato interesse per il centro economico delle attività che sono le aziende. Purtroppo sono incapaci di “leggere” le imprese, ma ci sono piccoli segnali che una “cultura d’impresa” sta iniziando ad entrare in banca. Gli uomini di banca devono avere le capacità di portare le idee imprenditoriali al loro interno, acquisire competenze che permettano a tutta la struttura di comprendere profondamente i piani industriali e decidere di supportare le aziende giuste, scartando quelle che vanno avanti solo perché sono grandi e/o hanno già molti debiti con quell’istituto, cosa che accade oggi. La banca, insomma, deve tornare a fare banca e smettere di fare finanza. E’ necessario realizzare lo scenario B, ma temo che sarà un processo lungo. M: Ha citato la necessità di “acquisire competenze”. Molto spesso si risolve questo problema con l’esperienza che, però, nasconde un paradosso. Come si fa infatti a considerare l’esperienza del singolo manager come asset fondamentale quando dobbiamo costruire un futuro radicalmente diverso dal passato? Nessuna grande impresa è stata fondata da persone di esperienza, ma da persone di visione e di passione.



B: Sì, è vero, spesso si diventa schiavi della propria esperienza che, anche se ci ha permesso di arrivare ad una posizione di successo, poi si rivela una zavorra se vogliamo evolvere.
In Bassilichi abbiamo sperimentato una formula che ci ha dato ottimi risultati: un mix di giovani competenti con un senior esperto. Questi team, composti da massimo dodici persone, hanno mostrato una capacità di lettura della realtà totalmente diversa da quello che avrebbe potuto fare una squadra di “esperti”. Anche le ingenuità del giovani sono servite a tal scopo. I senior, poi, hanno fatto da elemento moderatore, ma non da freno  e, trascinati dall’entusiasmo dei più giovano, hanno ritrovato una sorta di seconda giovinezza lavorativa. Tutta questa energia composita ha aiutato l’azienda a migliorare e a superare ostacoli che la struttura burocratica “vecchia” non era in grado nemmeno di vedere. M: E’ una ricetta esportabile a suo giudizio? B: Non sono certo che sia fattibile nelle multinazionali, vittime delle logiche centralistiche di controllo, ma nelle imprese nazionali sicuramente si. Temo, però, che nelle banche l’ostacolo siano i sindacati la cui logica principale, o prioritaria, è quella della contrapposizione. M: Ne ha esperienza diretta? B: Sì ma, per mia fortuna, con interlocutori che hanno avuto un approccio diverso. Ogni volta che iniziavo una negoziazione, l’azienda si trovava davanti almeno 15 rappresentanti sindacali diversi. Già nella scelta della disposizione erano chiare le intenzioni: noi da un lato, loro dal lato opposto del tavolo. I miei tentativi, andati a buon fine, di scompaginare questa contrapposizione netta venivano vissuti come una violenza. Superati,però, i primi momenti di sospetto, e accertato da parte loro le vere ntenzioni, ho avuto delle controparti leali ed affidabili. E’ anche grazie a loro che sono risucito a far rinascere l’azienda.



M: Passiamo ad un argomento più “alto”: quanto la strategia d’impresa è disciplina usata al suo interno per definire lo sviluppo della sua impresa?



B: Secondo me gli strumenti di strategia d’impresa sono solo un modo per far contento chi le vuol vedere.
L’impresa è il frutto di un equilibrio precario, dove forze di vario tipo devono collaborare per mantenerlo. In base alle mie conoscenze, non esiste uno strumento che descriva l’economia, la finanza, il posizionamento, le persone e che ne dia una riassunto sintetico ed esplicativo. Infatti, molte scelte, soprattutto quelle che deve fare l’imprenditore, prescindono dai numeri. Per i manager il discorso è diverso, il conto economico è quel che serve. Tutto il resto potrebbe servire ai fondi e alle banche. Anche il budget serve sempre meno, se è a lunga scadenza. Infatti, siamo sempre più impegnati su cambiamenti continui. Il 50% delle nostre attività manageriali sono sull’ordinario, il resto sullo straordinario che, per definizione, non è stato preventivato.



M: E dai suoi clienti quanto è utilizzata la “scienza” della strategia d’impresa? Quanto, che lei sappia, le conoscenze e le metodologie di strategie d’impresa sono adoperate dalle banche per valutare i clienti e per aiutarli a progettare il loro sviluppo? 
E quanto dalla PA per definire le politiche di supporto e aiuto alle aziende del territorio?

B: Mi esprimo solo sulla PA: è un mercato difficile che abbiamo deciso di abbandonare. Pessimi pagatori, sono ingessati in logiche contorte che dimostrano una profonda incapacità di capire il mondo delle imprese. Anche il capitolo dei finanziamenti, attraverso una nostra brutta esperienza, si è rivelato molto spesso un obiettivo e non uno strumento per lo sviluppo.

M: Cambiamo area. Quanto “l’ambiente” (i cosiddetti “stakeholders”: dipendenti, clienti, fornitori, istituzioni, media, comunità locali, ecc.) sono una risorsa da mobilitare per costruire l’unicità d’offerta e quanto sono vincolo?

B: Sono risorsa all’80%, vincolo al 20%. La quota “vincolo” è dovuta soprattutto alla nostra geografia: siamo una delle pochissime realtà rilevanti della zona e spesso ciò ci condiziona nel dover dare supporto al territorio. Questa è anche la nostra volontà, ovviamente, ma qualche interlocutore ne abusa.
M: Avete una funzione per gestire gli stakeholder?

B: Se ne occupano i manager di linea e, in particolare, la funzione HR.

M: Passiamo all’organizzazione. Se l’impresa è composta di una parte formale (tecnologie, processi, organizzazione, ecc.) e una informale (le persone con le loro motivazioni e l’organizzazione spontanea ed informale che si danno), è possibile mobilitare la seconda a supporto della prima, e non viceversa come accade sempre più spesso oggi?

B: Viene prima l’organizzazione e poi gli uomini. Poi mi rendo conto che l’azienda è una cosa e l’organizzazione reale un’altra. Ammetto che è un problema. Noi ci proviamo, col buon senso, ma scopriamo spesso che una persona che doveva fare un certo mestiere, in virtù di una riorganizzazione, continui a fare quello vecchio. E non riusciamo a colmare questo gap.



M: “Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare legna, dividere i compiti e impartire ordini, ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito” Antoine de Saint-Exupery

Quante aziende vede intorno a lei organizzate nel primo modo e quante nel secondo?

E la sua? Le sue persone sono radunate per essere organizzate e basta o hanno anche una “nostalgia” e un sogno condiviso che le muove?



B: Ovviamente vorrei  che la mia azienda fosse del secondo tipo, ma sono consapevole del fatto che solo i primi livelli hanno questa visione. I momenti sono pochi per trascinare sul quotidiano tutti quanti. Siamo in 1100 persone: i capi, che condividono e vivono questo approccio, sono 100, ma i clienti vedono i 1000. Se anche questi si muovessero così, avrei vinto sul mercato!

M: Diceva Einstein che quando un problema sembra irresolubile è perché lo si guarda dalla parte sbagliata. Oggi, in ogni ambito delle conoscenze dell’uomo, fisica, matematica, biologia, scienze cognitive, filosofia e tante altre, sono in atto rivoluzioni dai risvolti imprevedibili. Quali di questa nuove conoscenze possono essere utili/importanti ?

B: Mi fa sorridere la corrispondenza tra la sua premessa presa a prestito da Einstein e le parole che noi abbiamo preso a prestito da Proust per le nostre comunicazioni ufficiali: Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi.
A dimostrazione che i grandi uomini arrivano alle stesse conclusioni sulle questioni di fondo. Mi piacerebbe, però, saperne di più di filosofia e scienze cognitive per poter avere strumenti di lettura dei sistemi umani, dei meccanismi imprenditoriali, dell’identità profonda dell’azienda.

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