"Se gli uomini non nutrono un ideale in un mondo migliore perdono qualcosa.
L'umanità non potrebbe funzionare senza le grandi speranze, le passioni assolute."
Eric J. Hobsbawm

martedì 13 marzo 2012

Competitività, ovvero l'incapacità di immaginare un futuro diverso

L'ultimo numero di Harvard Business Review è focalizzato sulla "malattia di inizio millennio": la competitività.
A onor del vero il titolo dell'edizione originale è molto più fecondo, Reinventing America, laddove quello dell'edizione italiana "scade" subito sul dunque, Obiettivo Competitività. Ma la sostanza poi delle due edizioni, anche considerando le rubriche locali di quella italiana, non cambia.
Ma cosa è la competitività?
Porter, in un articolo del numero, prova a darne una definizione, ma è "ricorsiva", fa riferimento a se stessa: un luogo (Nell'articolo sono gli Stati Uniti) "è competitivo nella misura in cui le aziende che vi operano sono capaci di competere con successo nell'economia globale e allo stesso tempo sostengono l'elevato e crescente standard di vita per il cittadino medio".
Dunque competere significa continuare ostinatamente a fare le stesse cose di sempre, in un quadro immobile di riferimento, cercandole di fare, visto che quelle stesse cose sono visibili a tutti, meglio degli altri. Innovazioni, regole, investimenti, risorse devono essere indirizzate a questo unico scopo, come danno ampie indicazioni gli esperti chiamati dal direttore della edizione italiana nell'editoriale.
Cosa si potrebbe fare altrimenti di diverso?

Banalmente quello che i nostri padri e nonni, da questa e l'altra sponda dell'oceano, fecero già prima della fine della seconda guerra mondiale. In quella delicata fase storica del nostro Paese, ma anche in altri paesi europei e negli USA (gli americani iniziarono a fare piani a tal proposito fin dal 1942), gruppi di persone cominciarono a immaginare una nuova società. Tra gli altri, a titolo di esempio, va citato il codice di Camaldoli elaborato da esponenti delle forze cattoliche (imprenditori, manager di stato, politici, e alcune di quelle persone che guidarono l’Italia nella seconda metà del 900) come “profonda riflessione sul sistema capitalistico e sulla società nel suo complesso da riformarsi in profondità” (Giuliana Arena). O quanto avvenne all’università Cattolica di Milano ove padre Gemelli chiamava tutti i docenti “di fronte al compito della ricostruzione sociale” alla “determinazione di alcuni principi politici, economici e sociali”.

In un momento in cui l’Italia doveva fronteggiare l’emergenza di una ricostruzione “fisica” (case, fabbriche, trasporti, ecc) questi (e altri) gruppi di persone si  ponevano l’obiettivo di costruire una nuova società, ponendo le basi per le successive scelte politiche e interrogandosi sui temi che sono stati oggetto di dibattito per tutta la seconda metà del 900. 
Ma queste capacità progettuali erano presenti nel nostro paese anche prima e dopo, come ci ricordava Sergio Romano in un suo articolo del Corsera dell' 11 Luglio 2010.


"Quando Mussolini decise il ritorno della lira all’oro e fissò il cambio con la sterlina a una quota insostenibile, un grande industriale elettrico, Ettore Conti, andò al Senato per spiegare a un capo del governo accigliato ma attento che quella politica avrebbe provocato una catastrofica deflazione. Quando la crisi del 1929 arrivò in Europa, all’inizio degli anni Trenta, Alberto Beneduce e Raffaele Mattioli spiegarono a Mussolini che cosa bisognava fare per salvare le banche e le imprese. Quando fu chiamato all’Agip per liquidarla, Enrico Mattei ne fece uno strumento della politica nazionale. Quando scendeva a Roma per difendere gli interessi della Fiat, Vittorio Valletta aveva, per parafrasare De Gaulle, «una certa idea dell’Italia». Quando propose la riforma di Confindustria, Leopoldo Pirelli non pensava agli interessi di una corporazione, ma al miglior modo per rendere più efficace il ruolo degli industriali nella vita del Paese. Oscar Sinigaglia, Cesare Merzagora, Enrico Cuccia, Adriano Olivetti, Guido Carli, Gianni e Umberto Agnelli (cito a caso, con molte omissioni) pensavano naturalmente alla loro azienda o alla loro istituzione, ma avevano convinzioni forti sul Paese in cui avrebbero voluto lavorare, e non mancavano di esprimerle".

Ecco, in tutto quello che è scritto su HBR in italiano o in inglese, in tutto ciò che si legge o si sente sui media nazionali ed esteri, non si trova nulla di questa capacità e voglia di immaginare una nuova società e progettarla. Nessuno, dai grandi manager agli imprenditori, dai politici agli intellettuali, ha una "certa idea dell'Italia" (o degli USA) che vuole realizzare, tutti vogliono mettere a posto e riprendere a far funzionare quello che c'è, esattamente come era prima.

Tappare qualche buco, stringere qualche vite, cambiare qualche pezzo garantisce un futuro mediocre e un progressivo declino. Riprogettare per intero la società  schiude nuove prospettive, suscita nuovi entusiasmi, risveglia energie sopite.

Siamo di fronte ad una classe dirigente mondiale "ammalata" di competitività, poco coraggiosa, o semplicemente incapace perchè ignorante, nel senso che ignora, delle modalità per partorire una progettualità diffusa e partecipata (e senza esperti di sorta!) unica strada per disegnare un futuro migliore?
Luciano Martinoli
l.martinoli@ces-crescendo.com

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