"Se gli uomini non nutrono un ideale in un mondo migliore perdono qualcosa.
L'umanità non potrebbe funzionare senza le grandi speranze, le passioni assolute."
Eric J. Hobsbawm

venerdì 23 novembre 2012

What analysts want

di
Luciano Martinoli
e
Francesco Zanotti


No, non è il sequel del famoso film del 2000, What women wants con Mel Gibson, ma la possibile ridefinizione del titolo di un articolo apparso sul numero di Novembre di Harvard Business Review: What makes Analysts say "Buy"?
Si tratta di una ricerca, condotta su circa 1000 analisti finanziari in Asia, Europa, America Latina e USA, sui fattori che influenzano il loro giudizio positivo sulle aziende considerando dodici parametri. Al di là del sorprendente scarso interesse, che contrasta con diffusi luoghi comuni, per i conti delle aziende e la competitività dei settori (espressione che indica una grande approssimazione: livello di competizione del settore, competitività dell’impresa hanno preciso significato, “Competitività del settore” non ha senso), questa indagine induce considerazioni ben più profonde.
Sorprende lo scarso interesse da parte di tutti, (la colonna "very high" è vuota) per l'abilità di “eseguire” la strategia (Ability to Execute Strategy). Addirittura inspiegabile l'interesse degli europei per la strategia chiara e ben comunicata (Clear, Well-Communicated Strategy) quando poi decade sulla capacità di realizzarla. Tra i fattori elencati non ve ne è manco uno relativo alla intrinseca “qualità” della strategia (e, conseguentemente, del futuro che descrive), come se bastasse chiarezza e buona comunicazione per rendere eccellente qualsiasi strategia, anche banale.
Sembrano tutti appiattiti verso la cieca fiducia per "cavalieri sul cavallo bianco", prometeici salvatori del mondo che c'è (Quality of Top Management), o auspicabili magiche crescite settoriali (Projected Industry Growth), decise dal fato o da misteriosi e imperscrutabili eventi astrali.

Cosa significa tutto ciò? Che le strategie aziendali comunicate agli analisti sono atti burocratici privi di senso che non verranno mai eseguiti? Oppure che gli analisti ben sanno che, per le modalità con le quali sono progettate e nonostante il sincero impegno del vertice, esse avranno sempre esecuzione tardiva, parziale, fuori tempo massimo?

Non lo pensiamo. La nostra interpretazione è diversa ed attiene al linguaggio.
Ogni dialogo sociale, e quello tra analisti e aziende lo è, è un processo di costruzione della realtà. La qualità di questa realtà dipende dalla passione dei dialoganti e dalla potenza del linguaggio che usano.
Ora diamo per scontato che analisti ed imprese abbiano una rilevante passione per il futuro. Questo significa che se il loro dialogo non sembra ricchissimo, allora la colpa non può che essere del linguaggio che usano. Infatti.
Le Società quotate, non disponendo di conoscenze per comprendere le dinamiche di sviluppo delle imprese nel mercato e nella società (ovvero le conoscenze di strategia d’impresa. Si veda l’articolo de “Il Mondo” del 6 luglio scorso per un’analisi della situazione italiana), si considerano istituzioni arci note che si sa cosa fanno e questo qualcosa non cambierà nel futuro. Il loro modo di guardare al futuro non può che essere in termini di numeri: sono l’unica cosa che può cambiare e bisogna dire che cambieranno in meglio. Pensando che solo i numeri contano, e solo quelli sapendo maneggiare, proiettano questa loro visione sugli analisti (non possono che pensare in termini di numeri) e sostanzialmente solo numeri presentano. Salvo qualche abbellimento qualitativo.
Gli analisti, visto che le aziende propongono solo numeri, quelli leggono… ed è la cosa che meno interessa a tutti dai quattro angoli del mondo con un sorprendente risultato plebiscitario! (secondo la ricerca è l’unico fattore sul quale sono tutti d’accordo! Vedere grafico). Ora i numeri non bastano, anzi sollecitano una domanda semplice, ma decisiva: perché quei numeri? 
Questa domanda andrebbe posta usando il linguaggio della strategia d’impresa: qual è la futura identità (in termini di unità di business) dell’impresa che si vuole costruire? Qual è il posizionamento strategico di queste unità di business e la sua evoluzione prevista? E' coerente tutto questo con i numeri previsti? Come si intendono implementare i cambiamenti previsti?
Ma, poiché questo linguaggio della strategia d’impresa non è, mediamente, noto, allora le domande che vengono poste riguardano l’approfondimento dei numeri.
Le imprese non possono che rispondere anche esse in termini di numeri.
E così si crea un circolo vizioso che è sostanzialmente conservativo. E’ un dialogo che consolida l’ipotesi che le Società quotate siano davvero istituzioni che devono solo cercare di funzionare meglio.
Poiché, però, questo circolo vizioso è causato da un linguaggio povero, allora è facilissimo superarlo. 
Basta che Società quotate ed analisti utilizzino il linguaggio della strategia d’impresa. Con un linguaggio più potente attiveranno dialoghi più fecondi, entusiasmanti. Capaci di trasformare istituzioni in imprese che sapranno generare di nuovo valore economico, sociale, politico, istituzionale e culturale.

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