"Se gli uomini non nutrono un ideale in un mondo migliore perdono qualcosa.
L'umanità non potrebbe funzionare senza le grandi speranze, le passioni assolute."
Eric J. Hobsbawm

venerdì 23 agosto 2013

Competitività e produttività sono controproducenti. Lettera aperta a Guido Gentili

di
Francesco Zanotti


Egregio dottor Gentili,
le chiedo dolcemente, ma fermamente di confrontarsi, pubblicamente sul nostro blog, con una tesi opposta l quella da Lei esposta sul Sole24Ore di oggi (23 agosto 2013). Mi sono permesso di usare l’avverbio “fermamente” perché non si tratta di una tesi che nasce da qualche farneticazione notturna o auto rappresentativa. Nasce dall'insieme delle conoscenze di strategia d’impresa oggi disponibili e dal contributo di conoscenze sistemiche (ad esempio, la teoria quantistica dei campi). Oltre che da mille altre conoscenze.
La sua tesi è “ ... quella dell’economia italiana è una crisi di competitività e produttività sistemica”.
La mia tesi, invece, è che siamo di fronte, a livello economico, a una crisi di senso strategico delle nostre imprese.  Essa, poi, è un ologramma di una crisi di senso complessivo della società industriale.
Se è vera la mia tesi, allora, la ricerca di competitività e produttività sono strategie contro producenti. Così come è controproducente a livello politico-istituzionale ogni strategia di riforme. Rappresentano, infatti, l’estremo tentativo di far sopravvivere sempre lo stesso senso. Sono strategie di conservazione, quando servono strategie di rivoluzione.

Vado a illustrare la mia tesi.
Comincio con cercare di dare una interpretazione alle parole “competitività” e “produttività”. Secondo le più tradizionali conoscenze di strategia d’impresa (si vedano i lavori conosciutissimi di M. Porter) diventare più competitivi significa fare meglio dei concorrenti. Sostanzialmente in termini di prestazioni del prodotto o di costo. Essere più produttivi significa fare più prodotti con le stesse risorse. Per poterli far pagar meno.
Per molte imprese italiane è difficilissimo proporre prodotti con prestazioni significativamente diverse da quelle dei concorrenti. Rimane loro il competere sul prezzo.
Ora, innanzitutto, una competizione di prezzo non la si può vincere (mi scusi l’anacoluto, ma qualche volta è efficace, Manzoni insegna), ma finisce sempre con la morte di tutti i concorrenti. Oppure con una sopravvivenza artificiale garantita dai debiti o dai sussidi.
Ma, poi, se competere significa fare meglio dei concorrenti (sulla qualità o sul prezzo), allora significa anche conservare. Sperare di riuscire a vendere gli stessi prodotti (si potrebbe proficuamente, allargare il discorso ai servizi), anche se con qualche restyling tecnologico e di immagine, significa “conservare”. Darsi l’obiettivo di preservare l’economia attuale.
E che male ci sarebbe? Come ho detto, il problema è che l’economia attuale sta perdendo di senso. E, proprio, per questo, essa è, inevitabilmente, destinata a ridimensionarsi, se non di peggio.
Ma cosa significa crisi di senso?
Diamo una occhiata alle imprese di successo (la misura del successo è la capacità di produrre cassa). Che tipo di prodotti vendono? Consideriamo l’esempio dell’industry dell’auto. E’ stata una impresa di successo la FIAT ai tempi della 500. Lo è oggi la Ferrari. Facevano (la FIAT), fanno (la Ferrari) solo prodotti migliori di quelli dei concorrenti? No! Vendevano non solo prestazioni, ma antropologie. Di significato complessivo (la FIAT), relativamente a nicchie sociali (la Ferrari), ma sempre sostanzialmente nuove antropologie.
Oggi troppe imprese continuano a riproporre l’antropologia della società industriale che non è più ricercata nelle società avanzate, sta dimostrando tutte le sue lacune negli altri modelli sociali (veda l’articolo sullo stesso Sole24Ore di oggi di Michael Spencer), non è più compatibile (l’assorbimento di risorse e di energia delle modalità produttive e distributive) con la Natura.
Allora la soluzione non può davvero stare in competitività o, peggio, produttività (che senso ha, se parliamo di produttività di impresa che si fanno con le stesse risorse più prodotti che poi non si vendono?).
E dove sta la soluzione? In una nuova intensità progettuale che riesca ad immaginare nuovi prodotti e nuove modalità di produzione che rappresentano nuove antropologie. Solo per fare qualche esempio, nelle società avanzate l’autorealizzazione personale avviene sempre meno attraverso l’acquisto dei prodotti tipici di una società industriale. E’ vero che sono pochi i prodotti antropologicamente nuovi, ma se si pensa ai prodotti tecnologici, ai prodotti proposti dal commercio equo e solidale o ai prodotti a Km 0, si trovano esempi significativi. Per quanto riguarda i sistemi di produzione e distribuzione, se si pensa alle potenzialità delle stampanti 3D unite alle possibilità di produzione locale di energia, non si fa difficoltà ad immaginare cosa questo voglia dire per le attuali strutture produttive centralizzate, per le infrastrutture, per le modalità di trasporto.

Ora, una nuova capacità progettuale non la si genera con esortazioni retoriche, ma fornendo alle classi manageriali ed imprenditoriali nuove risorse cognitive. Sono contrario alle rottamazioni. Non basta cambiare classe dirigente, né sostituire una classe dirigente matura con una giovane. La differenza sta nella ricchezza delle risorse cognitive di cui dispongono.

Il problema (e la sfida) è, allora, quella di fornire nuove risorse cognitive alle attuali classi dirigenti e per formare le classi dirigenti prossime venture.
Quali risorse cognitive? Ad esempio, le conoscenze e delle metodologie di strategia d’impresa più avanzate (che non sono le conoscenze e le metodologie che analizzano e progettano competizione) che sono completamente sconosciute.
Vuole un esempio? Le mando un articolo apparso su M&F che parla del Rating che abbiamo assegnato ai Business Plan della società degli indici FTSE Mib e STAR di Borsa Italiana. Vedrà che non si tratta di Piani di rivoluzione, ma di budget di continuità. Come se queste imprese fossero istituzioni. Ma il problema non sta nella incapacità o nella non volontà di chi le dirige. Ma nel fatto che si trascura il ruolo delle risorse cognitive. Si usano modelli di business plan (cioè linguaggi progettuali) poveri. E il risultato non può che essere povero. Parlavo all'inizio di “mille altre conoscenze”. Ad esempio ritengo rilevante la presa di coscienza della “rivoluzione” proposta dalla svolta linguistica che si è avuta nella filosofia e che corrobora la nostra convinzione di puntare sulle risorse cognitive, che del concetto di linguaggio ci sembrano una proficua generalizzazione.
In attesa di una Sua risposta che pubblicherei su questo stesso Blog,
Suo
Francesco Zanotti



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