tag:blogger.com,1999:blog-13648170223867997942024-03-05T18:39:50.096+01:00Imprenditorialità AumentataL'impresa come Opera d'Arte.lucianohttp://www.blogger.com/profile/00811340593016815703noreply@blogger.comBlogger802125tag:blogger.com,1999:blog-1364817022386799794.post-67374650992717038692019-08-27T08:53:00.001+02:002019-08-27T09:05:38.685+02:00Cosa vuol dire "prima gli azionisti"?<div style="text-align: center;">
di</div>
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Luciano Martinoli</div>
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luciano.martinoli@gmail.com</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj-2iQRQ8DvHWOMtKaB7ZqJGLDULxF1D1QAgwbx2WbCIKYrdtY6sOMOtNGTQ6qVVQxBNTSfStNU7xws9efTk3PUqBEpU1WC_ASy9pAKBiXs8IuJvEV8iF-TEdeZHteg3eX22PEteJGxa9k/s1600/shareholdervalue.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1408" data-original-width="1600" height="281" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj-2iQRQ8DvHWOMtKaB7ZqJGLDULxF1D1QAgwbx2WbCIKYrdtY6sOMOtNGTQ6qVVQxBNTSfStNU7xws9efTk3PUqBEpU1WC_ASy9pAKBiXs8IuJvEV8iF-TEdeZHteg3eX22PEteJGxa9k/s320/shareholdervalue.jpg" width="320" /></a></div>
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Certamente non sarà sfuggita la notizia, riportata anche dai <a href="https://www.repubblica.it/economia/finanza/2019/08/19/news/basta_con_i_profitti_a_ogni_costo_le_imprese_usa_guardano_ad_ambiente_e_lavoratori-233916569/">giornali italiani</a>, riguardante la <a href="https://opportunity.businessroundtable.org/wp-content/uploads/2019/08/Business-Roundtable-Statement-on-the-Purpose-of-a-Corporation-with-Signatures.pdf">dichiarazione congiunta</a> di quasi 200 grandi aziende americane sulla loro volontà di porre maggiore attenzione ai clienti, dipendenti, fornitori e le comunità in cui operano rispetto alla priorità assoluta, finora perseguita, degli interessi degli azionisti. E' stata salutata come l'inizio di una nuova era, ma sarà davvero la fine della "dittatura del profitto" che tanti danni ha generato nell'economia e nella società non solo americana ma mondiale?</div>
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<a name='more'></a>La prima nota stonata emerge proprio guardando la lista dei firmatari. Gli amministratori delegati, o Chief Executive Officer (CEO), delle grandi aziende sono scelti dagli azionisti, pagati in azioni, per allineare i loro interessi a questi ultimi, selezionati e proposti da head hunter remunerati dall'azienda stessa, proprietà degli azionisti. Dunque a tutti gli effetti sono dei d<i>ipendenti</i>, ovvero dipendono dagli shareholder, con il grado di autonomia che questi decidono di concedergli.<br />
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Con quale autorità, e di conseguenza con che efficacia, stabiliscono di cambiare le priorità che gli sono state date dai loro datori di lavoro? Oppure, come qualcuno sospetta, la dichiarazione è stata <i>ispirata </i>proprio dai loro capi in un iniziale tentativo di sanare una frattura sempre più percepita tra la finanza e il resto della società? <i> </i>Quale è la personale convenienza dei Ceo visto l'enorme ammontare di compensi percepiti al di fuori dello stipendio standard, già generosissimo, come una <a href="https://www.wsj.com/articles/the-new-pay-gap-what-firms-report-paying-ceos-versus-what-they-take-home-11566727200?mod=itp_wsj&mod=&mod=djemITP_h">recente indagine del Wall Street Journal</a> dimostra? (A titolo di esempio, solo il Ceo di Oracle nei passati tre anni ha percepito stock option per un valore nominale di 190 milioni di dollari che, grazie alle performance azionarie pilotate dalla strategia aziendale "prima gli azionisti", si sono trasformati in 534,6 milioni di dollari realizzabili!)</div>
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Seconda nota. Nella dichiarazione si legge che "<i>mentre ciascuna delle nostre aziende è al servizio dei propri 'corporate purpose', condividiamo un fondamentale impegno verso tutti i nostri stakeholder." </i>Quali sono questi ' <i>corporate purpose'? </i>Dove sono scritti? Dove e quando vengono comunicati e, nel caso, declinati e aggiornati? E, sopratutto, da chi sono decisi? </div>
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Dovrebbero essere il contenuto principale di <i>Business Plan </i>propriamente compilati e illustrati, ma purtroppo non è così se uno dei principali investitori e azionisti delle più grandi aziende del mondo, Blackrock, da anni si<a href="https://imprenditorialitaumentata.blogspot.com/search?q=fink"> lamenta per bocca del suo Ceo Larry Fink</a> della mancanza proprio di questo <i>purpose </i>che, correttamente, viene indicato come strada maestra per ottenere un <i>profit </i>a lungo termine<i> </i>che i Ceo perseguono con tanta determinazione.</div>
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E inoltre, anche supponendo che tale <i>corporate purpose </i>sia da qualche parte definito da misteriosi e potenti personaggi e gelosamente e segretamente custodito, perchè l'impegno "<i>verso tutti i nostri stakeholder" </i>non ne fa parte e ne è invece, per loro esplicita dichiarazione, un corollario che deve essere specificato dopo chissà quali meditazioni in un organismo esterno all'azienda (l'associazione <a href="https://www.businessroundtable.org/">https://www.businessroundtable.org/</a>) ? </div>
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Agli occhi dei veri Imprenditori, i creatori e proprietari <i>intelligenti </i>delle aziende, queste dichiarazioni appaiono "ingenue". Essi infatti sanno perfettamente che il "profitto" è qualcosa che quasi misteriosamente appare solo dopo il costante impegno verso gli altri e laddove questo non accade ci si troviamo dinanzi a "banditi", come aveva brillantemente riassunto <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Carlo_M._Cipolla">Carlo Maria Cipolla </a>nel seguente diagramma.<br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgYwcBu8_Ytf-mKlfTmAvJ_tYrhQ0q-t8iWFlclVBgbmzzDpH1QeZIGZAP8AmUce3edKt_2R5NpBKnTJ3IcIdEELN-lSxI8HvT1poFVRFLdXsK3m4-pboldQeW1QslOM7LT-K6oTKB_z1Y/s1600/quadrante+cipolla.png" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="683" data-original-width="800" height="273" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgYwcBu8_Ytf-mKlfTmAvJ_tYrhQ0q-t8iWFlclVBgbmzzDpH1QeZIGZAP8AmUce3edKt_2R5NpBKnTJ3IcIdEELN-lSxI8HvT1poFVRFLdXsK3m4-pboldQeW1QslOM7LT-K6oTKB_z1Y/s320/quadrante+cipolla.png" width="320" /></a></div>
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Al di là della metafora estrema, il documento evidenzia a mio giudizio ancor di più, qualora ce ne fosse stato bisogno, la frattura esistente tra la finanza e il resto della società e l'esclusivo e debole anello di congiunzione che ha col sistema economico. Tale situazione ha già creato danni non solo ambientali, infatti ne è la vera causa prima (aspetto che sfugge alla <i>piccola <a href="https://www.letsdoititaly.org/notizie/80-news/166-greta-la-ragazza-di-16-anni-che-ispira-il-mondo.html">Greta</a></i><a href="https://www.letsdoititaly.org/notizie/80-news/166-greta-la-ragazza-di-16-anni-che-ispira-il-mondo.html"> </a>e ai suoi seguaci), ma ancora di più nell'ambito sociale (licenziamenti, povertà, disuguaglianze, ecc.). Sarebbe auspicabile un maggior coinvolgimento degli investitori istituzionali nelle dinamiche aziendali, come Blackrock si è già attrezzata a fare non so con quali risultati, affinchè sia chiaro a tutti che chi persegue il proprio interesse a danni di altri... non è molto <i>intelligente.</i> </div>
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lucianohttp://www.blogger.com/profile/00811340593016815703noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1364817022386799794.post-40057812271757946232019-08-14T16:10:00.000+02:002019-08-14T16:18:46.476+02:00In risposta a "Is the era of management over?" (2)<div style="text-align: center;">
di</div>
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Luciano Martinoli</div>
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luciano.martinoli@gmail.com</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh_6uby5sj5ytNFeHxTr5fdkbvaEUL-kqOE1i5k_KxtaCoY0qoXK-weRd8p2ef7Jg3ZAe-TBiJTwjv3YIEgljnMfeiO_l1ep8IUAXGLfqtB3f2-i0VXuCrSEZC8gcgxyR0i7drXDCu_M5w/s1600/org+shift.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="625" data-original-width="600" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh_6uby5sj5ytNFeHxTr5fdkbvaEUL-kqOE1i5k_KxtaCoY0qoXK-weRd8p2ef7Jg3ZAe-TBiJTwjv3YIEgljnMfeiO_l1ep8IUAXGLfqtB3f2-i0VXuCrSEZC8gcgxyR0i7drXDCu_M5w/s320/org+shift.jpg" width="307" /></a></div>
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Do seguito ai commenti sull'articolo <a href="https://www.weforum.org/agenda/2017/12/is-management-era-over">Is the management Era Over?</a> che ho iniziato nel <a href="http://imprenditorialitaumentata.blogspot.com/2019/08/in-risposta-is-era-of-management-over-1.html#more">precedente post</a>. Tengo a precisare, come già fatto in precedenza, che il mio vuole essere un contributo al miglioramento, con critiche costruttive, delle attuali prassi manageriali e organizzative e non una difesa dello status quo. Purtroppo in questo, come in altri casi, si inneggia a pericolose ed ingenue semplificazioni che non tengono conto nè della realtà dei fatti nè della complessità delle situazioni quotidiane.</div>
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<b><i>From "Controlling" to "Empowering"</i></b></div>
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In un mondo del lavoro sempre più complesso, la possibilità di "controllo" da parte di chicchessia è tramontata da tempo. Procedure o direttive, laddove ancora presenti, sono sempre più "sottili", limitate ad indicazioni generiche in quanto l'esplosione della pluralità delle attività rende impossibile già la loro enumerazione figuriamoci la loro disciplina. Il controllo dunque si limita alla definizione degli obiettivi e alla verifica del loro raggiungimento ma più come "scusa" per indicare una direzione di movimento che per altro. Inoltre di fianco, o meglio dietro, alla organizzazione formale esiste, come è noto sia nell'accademia che nella pratica quotidiana, una informale, importantissima perchè sostiene la continuità aziendale. Questa infatti non solo non è <i>controllata, </i>altrimenti sarebbe formalizzata, ma consente di rafforzare (empowering) chiunque voglia dare il suo contributo in questo ambito. L'importanza di questa dimensione informale è dimostrata dal comportamento di coloro che volendo rallentare, se non addirittura bloccare, l'attività aziendale si limitano a fare esclusivamente ciò che "le procedure" prescrivono. Dunque oggi in qualsiasi azienda, tranne poche arretrate e sull'orlo del fallimento, più che auspicare uno shift dal c<i>ontrolling </i>all'<i>empowering </i>è da invocare il suo giusto mix a partire dal suo riconoscimento certamente già presente.</div>
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<b><i>From "Planning" to "Experimentation"</i></b></div>
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Certamente uno spazio di "sperimentazione" delle pratiche lavorative sarebbe auspicabile, ma al di là del fatto che tali sperimentazioni vengono già costantemente eseguite informalmente da chiunque abbia a cuore il miglioramento del proprio lavoro, e del suo tempo speso sul posto di lavoro, lo <i>shift </i>proposto soffre di una vista alquanto ingenua del processo di <i>planning. </i>In tutte le aziende la pianificazione, se pure viene eseguita, è fatta poco e male. E' un processo esclusivo dei piani alti o di funzioni di staff dedicati, con una quasi totale assenza del resto dell'organizzazione che pure dovrebbe fornire la materia prima da pianificare. Ignorare il corpo organizzativo dal processo significa mettere a rischio l'esecuzione dei piani, come puntualmente accade. Laddove invece la pianificazione è ad uso e consumo della comunità finanziaria, i proprietari (shareholder) e/o i creditori (bondholder) dell'azienda, essa è ormai un rito che ha l'unico scopo di 'far finta' di comunicare che sia tutto sotto controllo. Prova ne siano la scarsa qualità di tali piani, come <a href="https://imprenditorialitaumentata.blogspot.com/2015/07/il-rapporto-2015-dei-business-plan-come.html">ricerche passate citate da questo blog</a> hanno documentato, e che nessuno sia interessato ex post di verificare o commentare il puntuale fallimento di tali piani (o viceversa a celebrarne la sua realizzazione a riprova dell'eccezzionalità dell'evento). Dunque più che uno spostamento da "pianificazione" a "sperimentazione" è da auspicare un tempo per la pianificazione che veda coinvolta tutta l'organizzazione e, in questo ambito, prevedere spazi di sperimentazione; il tutto coerentemente all'attività produttiva dell'azienda.</div>
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<b><i>From "Privacy" to "Trasparency"</i></b></div>
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Non vi è menzione di questo concetto nell'articolo, dunque non vi è la possibilità di cosa si intendesse di preciso. In generale vi è da rilevare, laddove si intenda per privacy quella dell'azienda, per quale motivo in un momento storico dove si ergono giustamente scudi in difesa della privacy di tutte le persone fisiche, la stessa non debba essere garantita anche per quelle giuridiche, ovvero le aziende. Ovviamente queste sono tenute alla trasparenza delle informazioni rilevanti ai fini amministrativi e ancor più penali, ma l'obbligo alla totale trasparenza non vedo come possa essere giustificato. In ambito sociale è noto che la comprensione delle informazioni non è contenuta nell'informazione stessa, dunque decisa da chi emette il messaggio, ma è arbitraria interpretazione da chi riceve il messaggio. L'azienda quindi ha il pieno titolo, sotto la sua responsabilità, di appellarsi ad un diritto di privacy, verso l'esterno e l'interno dell'organizzazione, per evitare cattive interpretazioni delle informazioni, siano esse in buona o cattiva fede. Ancora una volta più che uno <i>shift </i>radicale invocherei un migliore mix tra le due tendenze e un approccio coraggioso verso la trasparenza ispirato da una maggiore onestà intellettuale verso tutti gli stakeholder, sia interno che esterni.</div>
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In conclusione ritengo che se da un lato provocazioni di questo tipo sono utili ad aprire un dibattito sui temi caldi dl management e della gestione organizzativa, dall'altro per la loro ingenuità non offrono nessun serio spunto di ulteriore approfondimento e si limitano a commenti pro e contro al pari di un gossip scandalistico. Come spesso accade anche in altri ambiti di attività umane, senza una teoria alle spalle che motivi delle proposte, si vaga di moda in moda, senza nessuna ulteriore motivazione, qualora le si volesse abbracciare, se non quella di "così fan tutti". </div>
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Si potrebbe obiettare che "le aziende di successo fanno così". Rispondo che le aziende di successo "dicono" di fare così, in realtà si comportano al loro interno peggio di quelle che hanno pratiche "desuete". Nel post precedente facevo riferimento alla cultura di Netflix, qui vi invito a leggere di <a href="https://www.forbes.com/sites/brettonputter/2019/01/16/what-you-can-learn-from-the-facebook-culture-crisis/#4f9e97d04197">Facebook</a> ed <a href="https://www.businessinsider.com/what-its-like-to-work-at-apple-2015-9?IR=T">Apple</a>.</div>
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lucianohttp://www.blogger.com/profile/00811340593016815703noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1364817022386799794.post-58889670865884706082019-08-11T11:25:00.002+02:002019-08-11T11:34:36.179+02:00In risposta a "Is the era of management over?" (1)<div style="text-align: center;">
di</div>
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Luciano Martinoli</div>
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luciano.martinoli@gmail.com</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiCG-_GBYefTJ-aAAZyLmuWfzlQKBUkYhV-C6TSIGmnv7lD8oTsUXhU56epHHkXX_0HUtAG0p5bFQuwfYDF1BEx3blQ2EEnC3ZUIXmilohOmVI5Z_1YmeA5R_oTADua2zVURRtPULGkngo/s1600/org+shift.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="625" data-original-width="600" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiCG-_GBYefTJ-aAAZyLmuWfzlQKBUkYhV-C6TSIGmnv7lD8oTsUXhU56epHHkXX_0HUtAG0p5bFQuwfYDF1BEx3blQ2EEnC3ZUIXmilohOmVI5Z_1YmeA5R_oTADua2zVURRtPULGkngo/s320/org+shift.jpg" width="307" /></a></div>
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Da tempo, e con sempre maggior frequenza, compaiono da varie fonti proposte di radicali cambiamenti nelle organizzazioni aziendali e critiche, se non veri e propri attacchi, agli attuali assetti e pratiche di gestione. Premetto che sono d'accordo con la volontà di mettere in discussione sempre e comunque lo status quo, di qualsiasi cosa si stia parlando, in quanto è l'unica modalità per consentire miglioramenti. Nel caso specifico però ritengo che le numerose critiche si limitino agli aspetti superficiali e confondino i mezzi con i fini laddove questi sembrano essere totalmente sconosciuti. Un recente documento apparso sul sito del World Economic Forum dal titolo <a href="https://www.weforum.org/agenda/2017/12/is-management-era-over">Is the management Era Over?</a> rappresenta una buona sintesi di queste critiche, soprattutto la figura qui sopra riportata. Questo mio post vuole essere il primo di una serie di risposte col modesto tentativo di dare un contributo nel fare chiarezza sull'argomento.</div>
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<a name='more'></a><b><i><br /></i></b>
<b><i>From "Profit" to "Purpose"</i></b><br />
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Il profitto è comunemente inteso come la rimanenza positiva tra i ricavi e i costi che costituirà la base per la tassazione e consentirà la remunerazione degli azionisti e/o futuri investimenti. L'idea che le aziende debbano giustificare la loro esistenza per generare profitto, e in particolare remunerare gli azionisti, è relativamente recente. La si può datare verso gli inizi degli anni 80 del secolo scorso, in un preciso contesto storico degli USA. Da un punto di vista sociologico però, perchè l'azienda è anche un sistema sociale, il perseguimento del profitto è uno "scopo" il quale ha la funzione di mobilitare un'organizzazione, indossare una sorta di paraocchi che gli consenta di guardare in una direzione e non un'altra evitando di disperdersi in mille direzioni e scongiurando un blocco da indecisione. Il "profitto come scopo" indica anche un cambiamento epocale nel bilanciamento dei poteri dei portatori di interessi: la prevalenza degli shareholder, gli azionisti, rispetto a tutti quanti gli altri (dipendenti, clienti, fornitori, ecc.). </div>
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Ben venga dunque un cambio di scopo per le aziende ma, considerando gli assetti di potere che comporta (gli azionisti sono formalmente i proprietari dell'azienda e mal tollerano qualsiasi intromissione nei loro affari), dubito che possa essere fatto all'interno dell'azienda e ancor meno con un tratto di penna. Anche se <a href="http://imprenditorialitaumentata.blogspot.com/2019/01/scopo-e-profitto-vivere-per-respirare-o.html">alcuni investitori illuminati</a> chiedono da tempo questo cambiamento, la loro rimane una <i>vox clamantis in deserto, </i>buona per qualche articolo stampa del momento e nulla più. Ancora nessun dibattito sociale è decollato sull'argomento e, se questo volesse davvero portare ad un reale cambiamento degli attuali assetti, dovrebbe coinvolgere tutti i sistemi sociali e non solo le aziende (politica, finanza, economia, università, ambiente, ecc.).</div>
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Tornando però allo stato attuale il "profit" oggi è travestito da "purpose". Infatti nessun cliente acquisterebbe un prodotto o servizio di un'azienda esclusivamente per arricchirne i proprietari. Inoltre sarebbe molto poco motivante per le persone che ci lavorano. Il <i>purpose </i>allora esiste già nelle aziende ma è funzione del <i>profit </i>ovvero <i>purpose </i>come mezzo per ottenere più <i>profit.</i> Questa relazione è talmente radicata nella testa di tutti che temo solo un collasso del sistema possa metterla in discussione (disastro ambientale su scala globale, rivolta di tutti gli stakeholder e coinvolgimento della politica, blocco degli acquisti, ecc.).</div>
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Invocarla soltanto come mero desiderio di "un mondo migliore" (migliore per chi?) senza una più precisa e articolata proposta di convergenza di interessi è un'ingenua invocazione destinata a rimanere senza conseguenze.</div>
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<br /></div>
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<b><i>From "Hierarchies" to "Networks"</i></b></div>
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Spesso le gerarchie sono presentate come un obsoleto e inefficiente retaggio del passato e un ostacolo all'adattamento dell'azienda ad un ambiente volatile, incerto, complesso e ambiguo (VUCA dall'inglese volatility, uncertainty, complexity, ambiguity). Le gerarchie sono dunque spesso presentate come un "ordine" figlie di un momento storico che non esiste più.</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
Di fatto, e da un punto di vista sistemico, le gerarchie assolvono a delle funzioni essenziali, e meno intuitive, per l'organizzazione. Eccone alcune:</div>
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</div>
<ul>
<li>L'ordinamento dei fini e mezzi organizzativi.<br />Per raggiungere uno scopo, che abbiamo visto essere necessario per muovere l'organizzazione, vi è bisogno della definizione dei mezzi e della suddivisione dello scopo in sotto-obiettivi laddove questo sia troppo ampio. Le gerarchie consentono questa suddivisione e distribuzione di compiti ai vari livelli con conflitti minimi in quanto l'accettazione della gerarchia è condizione di appartenenza all'organizzazione. Come potrebbero realizzare questi compiti le reti?</li>
<li>Processo di potere duale.<br />Le gerarchie sono molto meno controllanti di quel che sembra e il potere all'interno di esse è distribuito, anche se in modo diseguale. I vertici infatti hanno la possibilità di sorvegliare l'organizzazione ma i sottoposti hanno un analogo potere di "sottoveglianza". Decisioni complesse implicano la necessità di raccolta ed elaborazione delle informazioni laddove si creano ovvero ai livelli più bassi dell'organizzazione, quelli a contatto col mondo esterno (clienti, fornitori, ecc.). Questi livelli hanno dunque l'enorme potere di condizionare le scelte che faranno i vertici presentando alcune informazioni e non altre, esprimendo pareri laddove richiesti, omettendo dettagli ritenuti inessenziali, a torto o a ragione, che potrebbero essere importanti, eccetera. Dunque le gerarchie sono meno gerarchiche di quanto appaiano. Come le reti riuscirebbero a realizzare una analoga distribuzione di potere funzionale a queste esigenze organizzative?</li>
<li>L'imposizione del cambiamento<br />Di fianco agli attacchi alle gerarchie, prospera la retorica del "cambiamento" inteso come necessità di sopravvivenza in un ambiente VUCA (vedi sopra). Tali cambiamenti, per poter funzionare, sono sempre progettati e invocati come imposizioni. Queste imposizioni risultano più facili in strutture gerarchiche in quanto la loro accettazione da parte dei singoli è condizione di appartenenza. In che modo le reti, o le organizzazioni poco gerarchiche, riescono a realizzare cambiamenti coerenti con quanto prima evidenziato?</li>
</ul>
Mi fermo qui per non annoiare e tengo a precisare, ancora una volta, che non sono un sostentore dello status quo ma un promotore di approcci meno superficiali e più informati.<br />
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<br /></div>
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Chiudo questo mio primo commento con l'invito a leggere una recente indagine del <a href="https://qz.com/work/1439451/the-seven-ways-netflix-culture-sounds-like-your-worst-work-nightmare/">Wall Street Journal</a> sul clima organizzativo all'interno di Netflix, citata dall'articolo del World Economic Forum come esempio di "nuova organizzazione".</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
Si parla di "cultura della paura", di manager che "licenziano o sono licenziati", di "errori evidenziati in stile nord coreano" e altro. Un rassegna delle peggiori pratiche del management della prima era industriale. </div>
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<br /></div>
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Se l'era del management è finita, al momento pare lo sia solo negli articoli e nei post dei consulenti. Che il management debba evolversi è indubbio ma su basi più informate e rigorose dei semplici desideri di chi vorrebbe fatturare servizi diversi alle aziende clienti.</div>
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lucianohttp://www.blogger.com/profile/00811340593016815703noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1364817022386799794.post-35211268038644603302019-07-16T10:07:00.000+02:002019-07-17T10:13:54.025+02:00A che servono i "dati"?<div style="text-align: center;">
di</div>
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Luciano Martinoli</div>
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luciano.martinoli@gmail.com</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEik1ZJp5kORoIpNlMRnmvth0gaKrSrPqHkxJjybxrmqg3ruPdmmA7AHYDs9GivkXskhtq2d-Y2-NOyCT0BwXpEpvrVeRLpHQocOloRqmIbuEbvymhatNuyBIvC66sGMBDV3sPLYQn6UEqo/s1600/decisione.png" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="675" data-original-width="1080" height="125" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEik1ZJp5kORoIpNlMRnmvth0gaKrSrPqHkxJjybxrmqg3ruPdmmA7AHYDs9GivkXskhtq2d-Y2-NOyCT0BwXpEpvrVeRLpHQocOloRqmIbuEbvymhatNuyBIvC66sGMBDV3sPLYQn6UEqo/s200/decisione.png" width="200" /></a></div>
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Il grande fisico e cibernetico <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Heinz_von_Foerster">Heinz von Foerster</a> sosteneva che: “<i>Possiamo prendere una decisione solo sulle questioni indecidibili. Su tutte le questioni decidibili è già stata data una risposta. Ad esempio, alla domanda, 2 per 2 fa 4 o 5?, può essere data una sola risposta perché sono state accettate le regole della matematica”. </i>C’è libertà di scelta quando si può rispondere ad una questione per principio indecidibile. In tutti gli altri casi parliamo di semplice calcolo. Infatti in una reale situazione di decisione le alternative date sono tutte ugualmente valide: non ci sono alternative migliori o peggiori, altrimenti non sarebbero reali 'alternative'. Se tali alternative fossero di valore differente (nel qual caso, di nuovo, non sarebbero davvero alternative) non ci sarebbe alcuna necessità di decidere tra di loro in quanto la decisione sarebbe già stata presa. Dunque al cuore di ogni decisione vi è un paradosso: l'indecidibilità.<br />
Ma allora a che servono i <i>dati, </i>di cui oggi tutti i manager sembrano essere affamati (o vogliono convincerli ad esserlo)<i>?</i><br />
<br />
<a name='more'></a>Un articolo di <a href="https://hbr.org/2019/06/the-first-thing-great-decision-makers-do">Harvard Business Review</a> contribuisce in maniera chiara a redimere la questione fin dalle prime righe affermando che è importante "<i>impegnarsi in una decisione di defualt all'inizio. La chiave del decision-making è inqudrare il contesto decisionale prima di cercare i dati...Per imparare a farlo bisogna guardare alle scienze sociali e manageriali." </i>Dunque non alla statistica, ai big data o all'intelligenza artificiale.<br />
<br />
Prosegue l'autore: "<i>Molti decisori pensano che siano stati guidati dai numeri quando: guardano un numero, si formano un'opinione e poi eseguono la loro decisione. Sfortunatamente una tale decisione sarà al meglio "data-</i><i>inspired”</i><i>. Prendere decisioni data-inspired accade quando nuotiamo intorno ad alcuni numeri, prima o poi raggiungiamo un punto di svolta emotivo e poi decidiamo.</i><i> Ci sono numeri vicino a quella decisione ma quei numeri non la determinano. La decisione viene totalmente da un altra parte."</i><br />
<br />
Per evitare di cadere in questa, e altre, trappole determinate dai dati, l'articolo prosegue con utili e sensati suggerimenti ("<i>Cosa fareste in assenza di dati? Quale azione è il male minore in caso di ignoranza?")</i> ma l'indicazione di fondo è che l'arte del "decidere", con il paradosso che si porta dietro, è tutto umano e i mezzi attuali non possono essere null'altro che utili strumenti di orientamento e non sostituirsi ad esso. Enrico Fermi sosteneva che un esperimento in accordo con le aspettative è una misura, in caso contrario siamo di fronte ad una scoperta. Solo un essere umano, intelligente e motivato, può, a fronte di una discordanza dell'aspettativa di una decisione, interrogarsi sul valore della possibile "scoperta". I dati lo assisteranno ad essere più veloce, profondo, efficace, non a togliergli il suo ruolo <i>paradossale </i>di decisore.<br />
<br />
A proposito, l'autore dell'articolo è Cassie Kozyrkov, chief decision scientist presso Google, uno che di dati, e loro importanza sopratutto economica, dovrebbe saperne qualcosa.lucianohttp://www.blogger.com/profile/00811340593016815703noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1364817022386799794.post-71692011466523732092019-07-11T09:09:00.000+02:002019-07-11T09:48:47.409+02:00Che fine ha fatto lo "shareholder value"?<div style="text-align: center;">
di</div>
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Luciano Martinoli</div>
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luciano.martinoli@gmail.com</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhRBaB3-PJA3PfM-hqeuXeV_ZETZ-wmWVRg2b3ozuPzeZPL-uLtaMjMxjmwaxq6Pky5OLAVx-bmyibgYGQQnJkh_knyykUEgmTsFN2x6AFsgzL7z3zX9w0hU1F_6kluEKkG7wL1NwJ7_Ls/s1600/bear+vs+bull.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="236" data-original-width="487" height="155" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhRBaB3-PJA3PfM-hqeuXeV_ZETZ-wmWVRg2b3ozuPzeZPL-uLtaMjMxjmwaxq6Pky5OLAVx-bmyibgYGQQnJkh_knyykUEgmTsFN2x6AFsgzL7z3zX9w0hU1F_6kluEKkG7wL1NwJ7_Ls/s320/bear+vs+bull.jpg" width="320" /></a></div>
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Gli inizi degli anni '80 del secolo scorso coincidono con la nascita di un nuovo modo di considerare lo scopo delle grandi aziende: la massimizzazione dello shareholder value, ovvero del ritorno per gli azionisti. Aver dato priorità alla proprietà dell'azienda, rispetto agli altri stakeholder, ha allineato tutte le sue attività, e sopratutto le attenzioni del management, principalmente a questo scopo subordinando tutte le altre ad esso. Ovviamente anche la struttura degli stipendi dei manager è stata pensata per incentivarli a raggiungere tale obiettivo. Se vogliamo si è trattato della più estrema definizione del soggetto aziendale come entità con scopo utilitaristico. Da tempo ci si interroga, e si critica anche, questo modo di vedere le aziende, sopratutto quelle grandi e quotate in borsa, ma la narrazione corrisponde davvero alla realtà? Oppure la complessità aziendale ha sbriciolato anche questo tentativo di 'linearizzare' la definizione e le operazioni dell'impresa?</div>
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<a name='more'></a>Il <a href="https://www.wsj.com/articles/wall-street-chiefs-pay-doesnt-sync-with-returns-11562580018">Wall Street Journal</a> ha pubblicato una ricerca sul rapporto nel 2018 tra degli stipendi dei top manager delle aziende dell'indice S&P500 e dei ritorni agli azionisti, calcolato in termini di variazioni del prezzo dell'azione più dividendi. Mentre gli stipendi dei manager bancari e delle istituzioni finanziarie <b>sono cresciuti dell'8,5% il total shareholder return è stato del -17%</b>. Non hanno fatto meglio i CEO delle aziende degli altri settori i cui stipendi si sono attestati su <b>aumenti medi del 5,6% rispetto ad un -5,8% di diminuzione del total shareholder return</b>. E tutto questo nel paese che ha inventato, e sostenuto per decenni a gran forza, il principio della massimizzazione dello <i>shareholder value </i>al quale poi è stato legato tutto il sistema retributivo del management e non solo.<br />
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Perchè accade tutto questo?</div>
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Le spiegazioni sono molteplici, dal premio alla esclusiva crescita dimensionale al riconoscimento in ritardo delle prestazioni, ma di fondo resta l'inconsistenza del principio, sempre più apertamente criticato, ma sopratutto l'impossibilità di normalizzare su un'unica dimensione, e da un unico punto di vista, l'enorme complessità aziendale, come forse anche gli shareholder hanno finalmente capito. I tentativi di imbrigliare tale complessità falliscono puntualmente, il caso dello shareholder value è emblematico ed è solo l'ultimo in ordine di tempo. Tali tentativi sono destinati a continui fallimenti, con buona pace di chi pensa ad approcci ingegneristico-deterministici per comprendere e governare l'entità "azienda". </div>
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Sarebbe dunque ora di abbracciare un punto di vista radicalmente diverso, basato su una visione della realtà distante da quella classica che, come si evince quotidianamente, non riesce più a dar conto della complessità aziendale. Tanto per cominciare sarebbe il caso accettare che non esiste una realtà oggettiva, il mercato, alla quale tutti devono conformarsi allo stesso modo, il principio di "adattamento". Il sistema 'azienda' costruisce il suo ambiente e solo grazie alle sue capacità cognitive può farsene un'immagine che possa avere una chance di realizzazione. Raggiungere tale obiettivo non è certo merito solo dei vertici superpagati i quali però dovrebbero avere la capacità di mobilitare l'intera organizzazione a tal scopo.</div>
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E' questione di metodi, strumenti e, prima ancora, di nuovi saperi, o 'risorse cognitive', da ricercare in ambiti diversi dalla solita accademia e dai soliti consulenti. Inoltre sarebbe ora di smetterla di perpetuare ciò che viene fatto da sempre e/o già dagli altri (ad esempio le <i>best practices), </i>se non confinarle nelle area di attività banali.</div>
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Enormi sfide bussano alle porte di tutte le aziende del mondo, è tempo di ripensare profondamente al concetto di azienda per dotarsi di nuove e più efficaci modalità di intervento. </div>
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Nel frattempo che lo shareholder value riposi in pace!</div>
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lucianohttp://www.blogger.com/profile/00811340593016815703noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1364817022386799794.post-5479601896518308582019-06-11T09:57:00.002+02:002019-06-11T10:04:33.908+02:00L'organizzazione aziendale non è fatta di persone!<div style="text-align: center;">
di</div>
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Luciano Martinoli</div>
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luciano.martinoli@gmail.com</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiCak4KcSk9CMnNHnRqHq11Ma1dfDdpz3xPnVaaxRJX23zdimilN9HNVrIcbiq5UUflpsY4M_xsDsbqsrshVt2SdBPT_XYyXX9fSx3R90mqrT7k8EjYaPKdN1g5ExNWGV2_GPEkgIv4JlA/s1600/sala_d_attesa.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="679" data-original-width="1600" height="134" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiCak4KcSk9CMnNHnRqHq11Ma1dfDdpz3xPnVaaxRJX23zdimilN9HNVrIcbiq5UUflpsY4M_xsDsbqsrshVt2SdBPT_XYyXX9fSx3R90mqrT7k8EjYaPKdN1g5ExNWGV2_GPEkgIv4JlA/s320/sala_d_attesa.jpg" width="320" /></a></div>
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Il titolo non è una provocazione gratuita ma la proposta, molto costruttiva e feconda, di un diverso punto di vista. Partiamo dalle basi: cosa è un sistema?</div>
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La definizione più generale è la seguente: un insieme di parti, costituenti un'unità, che interagiscono per qualche scopo. Dunque partiamo dalle "parti" che costituiscono "l'unità" del sistema. Proviamo adesso a cambiare prospettiva.</div>
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<a name='more'></a>Definiamo sistema " un insieme di <b>processi</b>, eseguiti da parti, che, se attivi, realizzano una funzione o raggiungono una finalità comune". In questo caso il sistema è costituito non dalle parti ma da quello che fanno. Un computer calcola, se è spento è solo un'ammasso di ferraglia che prende polvere, il sistema respiratorio respira, se non lo fa è un insieme di tessuti buono solo per gli studenti di anatomia. Analogamente anche un'organizzazione è un sistema ma, seguendo questa definizione per processi, lo è se i suoi componenti realizzano <b>processi comunicativi</b> altrimenti sono solo insiemi di persone come quelle in sala d'aspetto nella figura.<br />
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Tali processi comunicativi sono diversi da organizzazione a organizzazione. Nel caso di una squadra di calcio è "giocare a calcio". Se undici individui non giocano a calcio, e non lo fanno con una certa frequenza, saranno amici che si trovano al bar, ex giocatori nostalgici che parlano dei passati fasti sportivi, tifosi che guardano altre partite, qualsiasi altra cosa ma non sono più squadra di calcio. E' il "giocare a calcio" che fa di quegli undici una organizzazione <i>squadra di calcio.</i></div>
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E' da notare qui una prima peculiarità: nel caso del vivente, cellule, sistema respiratorio, cardio-circolatorio, ecc, e dei sistemi sociali, squadra di calcio, economia, aziende, ecc. la continuità del processo, la sua esistenza nel tempo, definisce anche il sistema, in assenza esso svanisce o muore. Mi spiego meglio: se il sistema respiratorio smette di respirare o il sistema cardiaco smette di pompare sangue, tali sistemi muoiono pur continuando ad esserci, per un po' di tempo, le loro parti ovvero polmone e cuore. Se una squadra smette di giocare o un'azienda chiude, le singole persone che ne fanno parte continuano ad esistere ma il sistema è svanito. Se invece un computer è in standby o un automobile è spenta, continuano ad essere tali perchè in qualsiasi momento possono riprendere ad eseguire i loro <i>processi </i>(ciò per i quali sono stati costruiti). Ed è per questo che un computer spento lo continuiamo a chiamare così mentre un corpo che non respira è un cadavere, e non più un essere vivente, o i dipendenti di un'azienda fallita sono un gruppo di disoccupati e non più un'organizzazione. Questo è un'importante differenza tra i sistemi fatti da noi (eteropoietici) e quali che si fanno sa soli (autopoietici).</div>
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Il caso dell'azienda è analogo alla squadra di calcio. Il <i>processo comunicativo</i> specifico in questo caso sono le "decisioni" che vengono prese da tutti a qualsiasi livello per mantenere nel tempo l'organizzazione. Le persone sono funzionali ad esse. Un insieme di persone in azienda che non comunica decisioni (in realtà tecnicamente la decisione è una comunicazione), staranno bene insieme per pettegolare, parlare dell'ultima partita di campionato, progettare un pic-nic insieme per il prossimo weekend, ma non saranno un'organizzazione.</div>
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Spero che questo chiarisca l'affermazione iniziale apparentemente paradossale, che approfondirò insieme a <a href="https://stefanopollini.com/">Stefano Pollini</a> con successivi post e un seminario in corso di preparazione che si terrà quest'autunno, e che è foriera di nuove e più incisive modalità di intervento, oltre che rendere evidente l'inutilità di altre.</div>
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Per amor di brevità ne esporrò alcune di queste ultime. </div>
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La prima, e più importante, è che l'azienda dovrebbe avere la funzione di "Social Resources" al posto di quella "Human Resources". Le persone sono un costrutto sociale costituito, sistemicamente, dal sistema fisico, il nostro corpo, e il sistema psichico, la nostra mente. Nessuno può essere sicuro di che cosa accada nell’interiorità di un altro individuo, nè è di interesse dell'azienda. Le relazioni sociali tipiche però, che come spero sia chiaro sono il fattore costituente dell'organizzazione, o a dirla più radicalmente: sono l'organizzazione stessa, sono di proprietà intinseca, <i>by design </i>dell'azienda. Ad esempio "parlare di lavoro" ha senso se si fa parte della stessa organizzazione. Parlare di lavoro con qualcun altro non è possibile, così come pure farlo quando si è cambiato lavoro (in questo caso si parlerà di quell'altro lavoro). Le relazioni e le comunicazioni sono rimaste lì dentro, nell'organizzazione e le persone, pur lasciando l'azienda la sera per ritornarci il mattino dopo, sono una sorta di <i>portatore sano </i>della comunicazione.</div>
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Altra ingenuità che con questo punto di vista viene smascherata, è l'affermazione autoriferita dell'organizzazione riguardo il suo <i>funzionamento </i>senza controparti che lo disturberebbero.</div>
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Si sente a volte dire: ""come funzionerebbe bene l'università senza gli studenti" oppure "come funzionerebbe bene l'ospedale senza i malati" o anche "come funzionerebbe bene la burocrazia, senza i cittadini"...</div>
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Università, Ospedali e Burocrazia sono sistemi processuali, in accordo alla precedente definizione di sistema, e dunque esistono solo se i loro processi vanno avanti, ovvero insegnare, guarire, entrare in contatto con la Pubblica Amministrazione. Senza studenti, malati e cittadini non è possibile esegurie di continuo tali processi e quindi i corrispondenti sistemi, Università, Ospedali e Burocrazia, semplicemente sparirebbero, non esisterebbero più. E' da evidenziare inoltre come tali affermazioni denunciano una opinione del "sistema organizzazione" più vicino ad un insieme di parti, come una macchina, che un insieme di processi continui e inarrestabili. </div>
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Sarebbe dunque ora di avere una vista più chiara, e acuta, sull'organizzazione, di qualsiasi tipo essa sia. Una prospettiva che consenta di evitare la confusione di "domini" tra le persone e le comunicazioni/relazioni e impedisse una volta per tutte i dannosi e inutili tentativi di controllo e misurazione degli individui con i conseguenti odiosi e sterili tentativi di manipolazione.</div>
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<br />lucianohttp://www.blogger.com/profile/00811340593016815703noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1364817022386799794.post-82929625720783470112019-06-07T10:25:00.004+02:002019-06-07T10:29:04.405+02:00Elogio dell'incertezza<div style="text-align: center;">
di</div>
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Luciano Martinoli</div>
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luciano.martinoli@gmail.com</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj8tKH6PoKtTDpEJW7QWB9aqmXaOiiVpqEEji9iwxdzDM9L7sIx_yar7f2yJCqidaVC1rhIjaNHsakdbAA_mKFiWrl3zgMkBgBx9dYrlsmx8C4Xd2PFnuBqobvsXXog2FgQzURDNI8fVQ4/s1600/incertezza.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="520" data-original-width="780" height="133" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj8tKH6PoKtTDpEJW7QWB9aqmXaOiiVpqEEji9iwxdzDM9L7sIx_yar7f2yJCqidaVC1rhIjaNHsakdbAA_mKFiWrl3zgMkBgBx9dYrlsmx8C4Xd2PFnuBqobvsXXog2FgQzURDNI8fVQ4/s200/incertezza.jpg" width="200" /></a></div>
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La paura dell'incertezza emerge periodicamente sulla stampa nazionale in occasione dell'innalzamento dello spread dei titoli di Stato. Ciò comporta un aumento degli interessi che dobbiamo pagare agli investitori ma, paradossalmente, la stampa nostrana presenta il fenomeno come paura, da parte loro, dell'incertezza. Perchè dovrebbero avere paura se poi guadagnano di più?</div>
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<a name='more'></a>A ulteriore dimostrazione che gli investitori non hanno alcun timore dell'incertezza, c'è stato due anni fa il caso quasi clamoroso dell'emissione da parte dell'<a href="https://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2017-06-21/tango-bond-100-anni-e-boom-063729.shtml?uuid=AE3u5BjB">Argentina di obbligazioni a cento anni</a>.<br />
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Dall'anno della sua indipendenza, avvenuta nel 1816, il paese sudamericano è andato in fallimento per ben 8 volte. Ciononostante l'emissione è stata un indiscutibile successo: con un rendimento annuo del 7,9%, a fronte di un'offerta di 2,75 milairdi di dollari vi è stata una richiesta per 9,75... alla faccia della "paura".</div>
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E che dire degli Hedge Fund americani che prosperano da anni trattando titoli "spazzatura", ovvero ad alto rischio, e quindi ad elevata incertezza, ma ad alto rendimento?</div>
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<br /></div>
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L'incertezza è un elemento fondante della finanza o, più precisamente, del sistema sociale finanziario e dei suoi operatori. Se non ci fosse incertezza a che servirebbero tutti gli intermediari? Ognuno investirebbe per se in strumenti sicuri ma, proprio per questo, a rendimenti bassissimi se non negativi (vedere <a href="https://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2019-03-27/tassi-negativi-all-asta-bund-10-anni-e-prima-volta-2016-113538.shtml?uuid=ABceWMiB">dati ultima emissione titoli di Stato tedeschi</a>). Di conseguenza il concetto stesso di investimento finanziario perderebbe di senso e la "finanza", per come la conosciamo oggi, sparirebbe.</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<br /></div>
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A ben vedere anche altri settori, che chiamerò "sistemi sociali", devono la loro esistenza alla presenza dell'incertezza che sono chiamati ad "assorbire".</div>
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Se non ci fosse dubbio, e dunque <i>incertezza,</i> sulla leggittimità di azioni e comportamenti da parte di tutti, a che servirebbe il sistema giuridico?</div>
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Se fossimo certi che chiunque, leggendo qualcosa, ne apprendesse completamente il contenuto, dissolvendo l'<i>incertezza </i>sul suo apprendimento, a che servirebbe il sistema scolastico?</div>
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Se nell'ambito aziendale il rapporto con il mercato fosse chiaro a tutti, dunque senza alcuna <i>incertezza,</i> a cosa servirebbero le organizzazioni aziendali?</div>
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Leggiamo quotidianamente i tassi anemici di crescita economica dei paesi occidentali, dove <i>l'incertezza</i> per il business è stata quasi totalmente dissolta (vedere a tal proposito la classifica "<a href="http://www.doingbusiness.org/en/rankings">Doing Business</a>" della banca mondiale), ma allo stesso tempo vengono organizzati convegni, missioni all'estero ed erogati incentivi per andare a fare affari in quei paesi "emergenti" dove ci sono più incertezze ma, allo stesso tempo, maggiori opportunità di guadagno.</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<br /></div>
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Dunque ben venga l'incertezza, sale e stimolo per la nostra esistenza sociale, ma ben vengano sopratutto modalità per comprenderla e governarla in modo da minimizzare il rischio associato.</div>
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Un tale compito è centrale per le organizzazioni e, allo stesso tempo, il cardine della loro funzione, del loro motivo di esistenza.</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<br /></div>
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Spero sia condivisibile allore il valore e la sfida che comporta l'incertezza, e come la semplice "paura" sia di fatto una incapacità, o non volontà, di sostenere e perdurare il sistema politico, giuridico, finanziario e, sopratutto, per gli scopi di questo blog, di fare impresa.</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: center;">
<br /></div>
lucianohttp://www.blogger.com/profile/00811340593016815703noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1364817022386799794.post-80146486176677194812019-06-02T10:07:00.002+02:002019-06-02T19:17:34.504+02:00Ma la politica economica serve davvero all'economia?<div style="text-align: center;">
di</div>
<div style="text-align: center;">
Luciano Martinoli</div>
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luciano.martinoli@gmail.com</div>
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<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgfALyJva-b1dS6sVvp0pxleeBoF7o4cfHKtxl6yov3VzHrz_xaslzrsiY7I9evQctglA5yvVU35V7jQfvyKtDAxNgth-jaC5yF8dRIlozU77XbSyy4AeXb21jm9uMRGyX1DqY-HdoEViA/s1600/capitalisa.gif" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="610" data-original-width="1000" height="121" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgfALyJva-b1dS6sVvp0pxleeBoF7o4cfHKtxl6yov3VzHrz_xaslzrsiY7I9evQctglA5yvVU35V7jQfvyKtDAxNgth-jaC5yF8dRIlozU77XbSyy4AeXb21jm9uMRGyX1DqY-HdoEViA/s200/capitalisa.gif" width="200" /></a></div>
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Partiamo dai fatti e oggi il fatto più rilevante e recente che possiamo analizzare sull'argomento, anche perchè iniziano ad esser noti gli effetti, è la politica dei tagli alle tasse voluti da Trump. </div>
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Uno studio del <a href="http://www.loc.gov/crsinfo/">Congressional Research Service</a>, agenzia non partisan che lavora per il Congresso degli Stati Uniti, <a href="https://www.cnbc.com/2019/05/29/trump-tax-cuts-did-little-to-boost-economic-growth-in-2018-study-says.html?dlbk&te=1&nl=dealbook&emc=edit_dk_20190530">ha reso noto i risultati dei tagli</a> del 2017 sull'economia americana del 2018.</div>
<a name='more'></a><br />
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In breve: l'economia statunitense l'anno scorso è sì cresciuta del 2,9% ma per la maggior parte a causa di fattori che erano già in essere in precedenza. I lavoratori hanno ricevuto, dalle loro aziende, benefici marginali che ammontano a soli $28 a testa (molto meno degli 80 euro di renziana memoria). Inoltre l'incentivo al rimpatrio di $664 miliardi di capitali, concesso alle grandi corporation, ha scatenato un acquisto di azioni proprie per oltre $1.000 miliardi senza nessuna evidenza di aumenti di investimenti. Benefici ai lavoratori e maggiori investimenti erano gli obiettivi della manovra ma, come si vede dai numeri, tali obiettivi non sono stati raggiunti. Inoltre, per chi volesse giudicare in ogni caso positiva la crescita economica ottenuta, per assorbire il costo della manovra, realizzata con mancanza di incassi da parte dell'erario, la crescita sarebbe dovuta essere del 6,7% e non del 2,9% (chi volesse leggere il rapporto completo lo trova <a href="https://www.everycrsreport.com/reports/R45736.html">qui</a>).</div>
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Dunque il presunto legame causale tra la politica e l'economia si è rivelato, ancora una volta, estremamente debole; così come pure la posizione "gerarchica" del sistema politico su quello economico (l'economia non "ubbidisce" alla politica). In altre parole ciò che la politica pensa di fare per l'economia, almeno in casi come questi, è di fatto solo un atto politico, e non un'azione di "governo" della prima, con effetti imprevedibili (spesso nulli o negativi) sull'economia stessa.</div>
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Facciamo un salto in Italia. Recentemente sono stato invitato alla presentazione di un libro sullo stato di salute del sistema economico italiano redatto da un illustre e rispettabile economista. Non faccio nomi per scongiurare il pericolo che le mie parole, le quali hanno l'obiettivo di generare un confronto costruttivo, possano essere invece interpretate, per mie incapacità espressive, come sterile critica, denigrazione o peggio.</div>
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L'esordio è stato dei più brillanti ed encomiabili e in netta contraddizione, basandosi su fatti numerici, rispetto allo strumentale ed endemico piagnisteo italico: avanzo primario positivo da 25 anni, leadership assoluta in numerose nicchie ad alto valore aggiunto, un debito privato quasi inesistente con una ricchezza degli italiani superiore al debito pubblico, considerando immobili e attività finanziarie. Tutto questo grazie, come è stato giustamente rilevato, alla presenza di numerose aziende virtuose che hanno operato sui mercati globali per decenni, le famose multinazionali "tascabili", e hanno dato il loro contributo alla ricchezza dello stato, con l'avanzo primario, e quello dei singoli, consentendo loro acquisto di immobili e accumulazione di denaro.</div>
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Successivamente si è passati a snocciolare le carenze della politica nostrana nei confronti dell'economia, incapace di comprenderla e, dunque, rappresentarla e stimolarla. Prima considerazione: oltre ad essere una ulteriore dimostrazione del legame molto "lasco" tra i due sistemi, visti i risultati forse, almeno finora, è stato meglio così! Una politica incompetente ha fatto da stimolo positivo ad un'economia gagliarda, l'esatto contrario di quanto ci si aspettava, o almeno quello che si aspettano e raccontano i politici.</div>
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Conclusioni <i>sistemiche,</i> come è nello stile di questo blog.</div>
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I sistemi politico ed economico, così come quello giuridico, scientifico, sanitario, educativo, ecc., sono sistemi sociali funzionali, ovvero ognuno assolve ad una specifica funzione. Sono autonomi e vedono gli altri sistemi come "ambiente" al quale si relazionano con "accoppiamento strutturale" e non in termini banali di input/output lineare. Questo vuol dire che una disposizione della politica per l'economia non verrà interpretata da questa come un "ordine" da eseguire nella sua interezza e completezza ma come una perturbazione alla quale l'economia risponderà secondo la propria struttura. Se la politica non conosce tale struttura, sempre cangiante e con operazioni che la ridefiniscono di continuo eseguite solo all'interno dell'economia stessa, gli interventi avranno effeti casuali e non causali; essi saranno inutili, dannosi, e solo raramente, e per caso, positivi.</div>
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Un'azienda, sopratutto quelle con un imprenditore in carne ed ossa ancora operante, non sempre decide, ad esempio, gli investimenti in base a supporti che gli vengono offerti di tanto in tanto, ma rispetto alle esigenze del mercato, dei suoi clienti. Se per caso i due momenti coincidono, offerta di benefici, in genere di stampo politico, ed esigenze per motivi di mercato (dunque economici e non politici), la cosa potrebbe anche funzionare se non ci si mettesse poi di mezzo la burocrazia, che è anch'essa un sistema sociale indipendente pure dalla politica, a rallentare e a rendere inefficace il tutto (come mi raccontava proprio recentemente un imprenditore di successo al sud, settore chimico trattamento acque, che invitato ad un bando per sostenere l'innovazione si è visto superare da progetti per "la lievitazione dei cornetti" e altre banalità scatendando la sua ira con conseguente comunicazione all'amministrazione, che lo aveva invitato, di non disturbarlo più).</div>
<div style="text-align: justify;">
Dunque se politica economica debba, e può, essere essa deve essere competente sull'economia ma non solo quella macro, anche quella dei singoli mercati che vuole stimolare, la <i>strategia d'impresa</i> di quelle virtuose, che i mercati li creano, e quelle meno virtuose, che i mercati li seguono, per incentivarle a fare meglio (o anche disincentivarle nelle loro attività per prevenire danni maggiori per la collettività). E sopratutto deve occuparsi in primis del buon funzionamento della macchina dello Stato in tutti i suoi aspetti, sopratutto quello fiscale e giuridico, che è la prima preoccupazione e richiesta di qualsiasi soggetto economico sano che ha consapevolezza che il suo successo dipende solo dai suoi clienti e non da altro.</div>
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Pochi e lontani i casi di interventi politici di successo sull'economia. Penso al piano Marshall dopo la seconda guerra mondiale, caso di studio per il forte legame tra le componenti politiche ed economiche dei vari paesi che ne hanno consentito il successo. Ma un primo passo per migliorare questa situazione è certamente considerare la separazione dei due sistemi e l'impegno che la politica, ma anche degli economisti che fanno politica e non economia, deve profondere per una maggiore e più dettagliata conoscenza dell'economia al fine di creare a<i>ccoppiamenti strutturali </i>virtuosi.</div>
lucianohttp://www.blogger.com/profile/00811340593016815703noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1364817022386799794.post-4579066065590751412019-05-16T05:55:00.003+02:002019-05-16T06:00:35.028+02:00La vita è un cammino...<div style="text-align: center;">
<i>(...e quella dell'azienda pure. Una considerazione sistemica)</i></div>
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di</div>
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Luciano Martinoli</div>
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luciano.martinoli@gmail.com</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhC0HS5k9KRnvsat2mxFX4rXyXd0AblNGrIIfluUcgGMYAaFq2o3tRlw9rUOuHBpeFG-13RrSIB-t9cURyGZzhmcEgW5yPc0J5NOaiXErUIzoK6l_4JaFHRQMZyYQ24LbqItsl6q2cNlIw/s1600/cammino.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="174" data-original-width="186" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhC0HS5k9KRnvsat2mxFX4rXyXd0AblNGrIIfluUcgGMYAaFq2o3tRlw9rUOuHBpeFG-13RrSIB-t9cURyGZzhmcEgW5yPc0J5NOaiXErUIzoK6l_4JaFHRQMZyYQ24LbqItsl6q2cNlIw/s1600/cammino.jpg" /></a></div>
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Nell'ambito della teoria dei sistemi, e più in particolare di quelli <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Autopoiesi">autopoietici</a>, uno dei concetti più sfuggenti, anche se evidenti, è quello della necessità di continuità delle operazioni del sistema affinche questo rimanga tale. In genere associamo la parola "sistema" alle macchine fatte da noi, che per questo vengono chiamati sistemi <i>eteropoietici. </i>In essi la necessità delle operazioni continue non esiste in quanto queste possono essere interrote e riprese in qualsiasi momento. Un computer o un automobile sono certamente sistemi ma lo sono senza dubbio quando "funzionano", sono accessi, i loro processi "girano" e assolvono i compiti per i quali sono stati costruiti. Anche se da spenti non svolgono tali compiti, nessuno li considererebbe per questo solo un ammasso di ferraglia o di elettronica.<br />
<br />
<a name='more'></a></div>
<div style="text-align: justify;">
Così non è per i sistemi autopoietici, in primis quelli viventi, come era arrivato a comprendere anche un sacerdote, Don Giussani (la cui affermazione che segue è riportata in un recente post di <a href="https://stefanopollini.com/2019/05/07/facciamo-innovazione-intervista-a-enrico-pezzi-ingegnere-e-consulente/">Stefano Pollini</a>):</div>
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<br /></div>
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"<i>Quello che facciamo è un cammino, ma facciamo fatica ad accettarlo e vorremmo arrivare subito. Perché nessuno accetta che la vita sia un cammino? Perché abbiamo tutti voglia di morire e poca voglia di vivere</i>"</div>
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<br /></div>
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Un computer si può spegnere e riaccendere a piacere, il sistema respiratorio umano, quello circolatorio, l'immunitario, ecc., se si fermano muoiono, portando al decesso l'intero organismo, senza nessuna possibilità di "riaccendersi". Respirare significa farlo di continuo, in alternativa il sistema si dissolve. La vita dunque, non solo quella biologica, è un cammino perchè vivere significa andare da qualche parte, non rimanere fermi, l'alternativa, come giustamente nota Don Giussani, è la morte, altre opzioni non esistono.</div>
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<br /></div>
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Le aziende sono sistemi autopoietici in quanto sistemi sociali e condividono le stesse dinamiche dei sistemi viventi. Certamente possono essere creati a partire da un atto di volontà, quello dell'imprenditore, ma il loro sviluppo dipenderà poi dalla struttura che si darà e dalla sua evoluzione. Nè più nè meno che la "creazione" di una vita biologica umana, un bambino, è un atto concreto dei genitori ma il suo sviluppo è autonomo rispetto alle loro volontà. </div>
<div style="text-align: justify;">
La vita dell'azienda dunque è un continuo processo autopoietico che non può essere fermato, un "cammino" che ha bisogno di volontà interne che si confrontano di continuo con "l'ambiente" che lo circonda (i vari sistemi sociali: economico, giuridico, finanziario, organizzativo, ecc.) da cui trae energie vitali e stimoli per la sua evoluzione. </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Il post citato, che di fatto è un resoconto di un'intervista, riporta l'affermazione sul cammino per sottolineare l'importanza anche nelle aziende di dover intraprendere un percorso e non, come lamenta l'intervistato, "<i>Vivere ogni ordine (di un cliente) come se fosse l'ultimo". </i></div>
<div style="text-align: justify;">
Il dubbio, a fronte di quanto fin qui detto, è che si parli non di aziende vere e proprie ma di occasionali aggregazioni di capitali e persone per sfruttare un'opportunità del momento. Oppure che la voglia del <i>camminare </i>si è spenta e quindi si va incontro alla morte (che nel caso delle aziende significa licenziamenti, fallimenti dei fornitori, difficoltà dei clienti, crediti non esigibili dalle banche, tasse non pagate allo Stato, ecc.).</div>
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<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Dunque il cammino non come mezzo per raggiungere un scopo ma scopo stesso per muoversi verso un orizzonte che, come tale, non si raggiungerà mai perchè se così fosse non si camminerebbe più e il sistema azienda scomparirebbe.<br />
<br />
Sorgono allora alcune domanda: come verificare che le aziende "camminino" verso un orizzonte e non semplicemente vadano a zonzo?<br />
Come rimettere in "moto" quelle ferme o che vagolano in giro?</div>
lucianohttp://www.blogger.com/profile/00811340593016815703noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1364817022386799794.post-82805763643455202312019-03-29T11:34:00.001+01:002019-03-29T11:40:18.436+01:00Riacquisto azioni proprie: la fine del capitalismo industriale?<div style="text-align: center;">
di</div>
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Luciano Martinoli</div>
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luciano.martinoli@gmail.com</div>
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<br /></div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiDG6c45M0-lA6MlPloS5-cdVkdARY4Z5YLnRb-KU_Jcu1op0xUmVgM_DgkmmC6_XH-BAaD81DJoEpth52ZjUgXZCr1fIUcf0n_dU7TUrBJ-4tqwIT_QqvfvDbyFOXg2K9t-Eb2uhEMvMY/s1600/shares+buy+back.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="485" data-original-width="759" height="255" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiDG6c45M0-lA6MlPloS5-cdVkdARY4Z5YLnRb-KU_Jcu1op0xUmVgM_DgkmmC6_XH-BAaD81DJoEpth52ZjUgXZCr1fIUcf0n_dU7TUrBJ-4tqwIT_QqvfvDbyFOXg2K9t-Eb2uhEMvMY/s400/shares+buy+back.jpg" width="400" /></a></div>
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<br /></div>
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C'era una volta un'azienda che andava bene e come lei ve ne erano tante altre. I risultati erano così positivi che produceva tanta di quella cassa che poteva fare investimenti senza indebitarsi. Questi erano motivati da una chiara visione del mercato e come risultato contribuivano a far andare ancora meglio l'azienda, permetterle di fare ulteriori investimenti e così via.<br />
Quanto avrebbe potuto durare questo ciclo positivo? Cosa sarebbe accaduto alla fine?</div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<a name='more'></a><br />
<div style="text-align: justify;">
La risposta alla storiella, che invece è la realtà, ce la fornisce, per gli USA, la <a href="https://www.axios.com/stock-buybacks-increased-2018-apple-3ff90545-53f7-41e2-b774-d78ae24ec9af.html">recente notizia</a> sul gigantesco riacquisto di azioni proprie (<i>shares buybacks</i>) effettuato dalle aziende americane quotate in borsa lo scorso anno: più di 806 miliardi di dollari, il maggior valore in assoluto di sempre (nel grafico l'andamento per singolo trimestre).</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Una prima spiegazione del fenomeno potrebbe essere il taglio di tasse del governo Trump che però era finalizzato all'incentivo degli investimenti. Il risultato la dice lunga sulle capacità dell'attuale presidente USA di far accadere le cose, già acclarato in altre circostanze, e su quelle, più in generale, di un sistema politico che voglia "governare" un altro sistema, in questo caso quello economico, dispiegando misure finalizzate ad uno specifico risultato (che quasi mai si ottengono del tutto e che generano numerosi effetti "collaterali").</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Un'altra spiegazione può derivare dal ben noto egoismo dei manager di quelle aziende che, privilegiando il riacquisto azioni anche rispetto al pagamento dei dividendi, tendono ad innalzare abbastanza artificialmente il prezzo delle azioni e ad averne un riflesso positivo sulle proprie stock options di cui sono abbondantemente dotati.</div>
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<br /></div>
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Purtroppo però col perdurare del fenomeno, il declino degli investimenti delle grandi aziende americane <a href="https://www.washingtonpost.com/news/wonk/wp/2017/07/18/researchers-have-a-new-theory-for-why-companies-are-sitting-on-ungodly-piles-of-cash/?noredirect=on&utm_term=.65a418ee6535">non è una novità di oggi</a>, emerge una spiegazione ben più drammatica: le aziende non investono perchè non sanno quali investimenti potranno generare il circolo virtuoso della nostra storiella iniziale (che poi era la vera storia di ognuna di quelle aziende). </div>
<div style="text-align: justify;">
Da qui discendono due possibili conseguenze: una deludente capacità imprenditoriale della classe manageriale, incapace di fare scelte coraggiose ma rischiose, oppure una fisiologica fine di un modello di sviluppo, basato sulla possibilità di una crescita "lineare" infinita.</div>
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<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Sulla prima ipotesi vi sono molte numerose evidenze, e già da molto tempo. Una per tutte: il maggior acquirente di azioni proprie del 2018 è stata la Apple con ben 101 miliardi di dollari. Non è un caso che, dopo la morte di Jobs, l'azienda sia guidata dall'ex CFO Cook, un direttore amministrativo e finanziario.</div>
<div style="text-align: justify;">
Anche la seconda è supportata da fatti preoccupanti. Le maggiori aziende tecnologiche USA (Google, Amazon, Microsoft e Apple) <a href="https://www.lindro.it/la-finanziarizzazione-della-silicon-valley/">sono ormai da tempo</a>, a guardare i loro bilanci, più holding finanziarie che soggetti industriali. Crescere e prosperare allora non è più questione di investimenti ma di acquisti e vendite speculative di attività finanziarie (fare soldi con i soldi e non con prodotti, servizi, ecc.). Una vera e propria finanziarizzazione dell'industria di successo, ma il fenomeno è presente anche in altri settori, che sceglie questa strada perchè l'attività caratteristica produce più soldi di quelli che le servono.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
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Purtroppo gli "investimenti" finanziari non innescano processi di sviluppo diffusi (assunzioni, crescite di salari, acquisti di macchinari e servizi presso altre aziende che a loro volto faranno assunzioni, crescite salariali, ecc.) ma solo un aumento delle ricchezza di pochi aumentando quella disuguaglianza che minaccia gli assetti sociali, e anche politici, dell'occidente.</div>
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<br /></div>
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Insomma: sia vicini alla fine dal capitalismo industriale per come lo abbiamo visto finora?</div>
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Sembra di sì, e allora è possibile progettare in modo <i>diffuso </i>(non in esclusivo dominio della politica) un nuovo modello di sviluppo al suo posto?</div>
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<br /></div>
lucianohttp://www.blogger.com/profile/00811340593016815703noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1364817022386799794.post-66108988891660136392019-03-12T15:07:00.001+01:002019-03-12T15:23:08.394+01:00Amazon fallirà così come è sicuro che Bezos morirà<div style="text-align: center;">
di</div>
<div style="text-align: center;">
Luciano Martinoli</div>
<div style="text-align: center;">
luciano.martinoli@gmail.com</div>
<br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgHFyukoEgbBGikxUaE3eXfFH38zVCOtAsVl2P8lJy1XSQs4bq5r3h2Oqg6QoCHzUM3fQWXsnPajRbLU_LjuWPuDR-YbYwhmcj-RMvYbAY-OjPw-oODL6J0o8yChQ1RaubmbJu9_BZpoFk/s1600/bezos.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="493" data-original-width="740" height="133" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgHFyukoEgbBGikxUaE3eXfFH38zVCOtAsVl2P8lJy1XSQs4bq5r3h2Oqg6QoCHzUM3fQWXsnPajRbLU_LjuWPuDR-YbYwhmcj-RMvYbAY-OjPw-oODL6J0o8yChQ1RaubmbJu9_BZpoFk/s200/bezos.jpg" width="200" /></a></div>
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<div style="text-align: justify;">
Continua a fare scalpore un'affermazione che il fondatore di Amazon fece qualche mese fa a proposito del futuro della sua azienda. Ovviamente il titolo di questo post non vuole essere di cattivo auspicio per Bezos ma semplicemente evidenziare la banalità dell'affermazione con una similitudine scontata: tutto, prima o poi, finisce.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
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E' lo stesso Bezos che, <a href="https://www.cnbc.com/2018/11/15/bezos-tells-employees-one-day-amazon-will-fail-and-to-stay-hungry.html">nella conferenza dove ha pronunciato la fatidica battuta</a>, ne specifica il senso. Più in generale però è da plaudire il coraggio dell'affermazione nel ricordare la caducità delle attività umane e l'impegno necessario a mantenerle in vita. </div>
<div style="text-align: justify;">
Ma quale è la causa profonda della fine di un'azienda?</div>
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</div>
<a name='more'></a>Da un punto di vista "sistemico" è la perdita di senso rispetto all'ambiente. Ben dice Bezos quando ricorda che è importante concentrarsi sui clienti, <i>ambiente</i> dove prospera l'azienda, ma poi dimentica che ambiente è anche lo Stato con le sue leggi e regolamenti (sempre maggiori in caso di dimensioni troppo imvadenti e minaccianti per... "l'ambiente" di business), i fornitori, il sistema finanziario, ecc.<br />
<div style="text-align: justify;">
Le cause della perdita di senso possono essere generate anche solo da uno di questi soggetti.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
A differenza dei sistemi viventi, esseri umani compresi ovviamente, le aziende possono vivere vita lunga a patto che l'ambiente rimanga lo stesso, alquanto improbabile, o che loro cambino "identità". E' accaduto più volte, ad esempio, a General Electric ancora in vita dopo più di 100 anni dalla nascita ma certamente oggi molto diversa da quando fu fondata. Più da vicino anche la nostra Fiat ha certamente subito nel corso degli anni svariate metamorfosi che le hanno dato nuove identità più consone all'ambiente dove operava. </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Il controllo della perdita di senso, e dunque dell'avvicinarsi dell'ineluttabile fine del ciclo di vita, non è opinabile o imperscrutabile ma oggettivo e visibilissimo: esso è dato dall'impoverimento dei vari indici economici primo fra tutti la capacità di generare cassa.</div>
<div style="text-align: justify;">
La possibilità invece di darsi nuova identità, e dunque sopravvivere in altra forma, è lo scopo della progettazione strategica dell'azienda.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Sorprendentemente sia dentro i confini aziendali (top manager, varie funzioni aziendali quali HR, Finance, Produzione, ecc.) sia fuori (banche, fornitori, clienti e altri) non danno particolare peso, in maniera consapevole e conseguenziale, nè all'uno nè all'altro. Con il risultato che quando arriva la "morte" dell'azienda tutti ne rimangono colpiti come se fosse causato da un accidente che si poteva evitare.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Dunque ben venga l'ovvio richiamo di Bezos, ma ancora meglio sarebbe se, a partire dal suo saggio richiamo, tutti si attrezzassero per misurarlo e progettare, in maniera non banale, il possibile scongiurare dell'evento.</div>
lucianohttp://www.blogger.com/profile/00811340593016815703noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1364817022386799794.post-63762268421585200512019-02-28T15:26:00.002+01:002019-02-28T15:38:35.156+01:00Leadership e organizzazione come l'acqua per il pesce<div style="text-align: center;">
di</div>
<div style="text-align: center;">
Luciano Martinoli</div>
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luciano.martinoli@gmail.com</div>
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<br /></div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEinNcxKiAEjVyIhgjorC8os-DmhSH7gwzSh2QfwQnBO64teIKAO4i_S3rEwQ-ESLKImW1lo7QSOoMAcadGwItANf5vezFoPFbQ9McOS66sBjxm88y9ieF7L-3Y54HonPTPAPSPfbrSYWDo/s1600/pesciolino-rosso-acquario-vasca-acqua.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1352" data-original-width="1600" height="168" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEinNcxKiAEjVyIhgjorC8os-DmhSH7gwzSh2QfwQnBO64teIKAO4i_S3rEwQ-ESLKImW1lo7QSOoMAcadGwItANf5vezFoPFbQ9McOS66sBjxm88y9ieF7L-3Y54HonPTPAPSPfbrSYWDo/s200/pesciolino-rosso-acquario-vasca-acqua.jpg" width="200" /></a></div>
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In varie discipline si sta affermando l’utilizzo della metafora sistemica come strumento cognitivo. Da tempo sono noti tali contributi in biologia, grazie ai lavori di <a href="https://www.amazon.it/Tree-Knowledge-Biological-Roots-Understanding/dp/0877736421">Maturana e Varela</a>, in sociologia, <a href="https://www.amazon.it/comprendere-Luhmann-necessit%C3%A0-classi-dirigenti-ebook/dp/B01DVDUAX4/ref=sr_1_1?s=english-books&ie=UTF8&qid=1551363463&sr=8-1&keywords=per+comprendere+luhmann">Luhmann</a>, e in numerosi altri campi.</div>
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In breve, e in maniera estremamente approssimativa, l’approccio sistemico propone di considerare l’oggetto dell’osservazione non isolato dal contesto, o peggio sezionato in tutte le sue componenti (riduzionismo), ma inserito in un contesto (ambiente) del quale bisogna considerare la natura in quanto le interazioni con esso (accoppiamento strutturale) contribuiscono a definirne l’identità e a modificarla nel tempo. </div>
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Da qui, ad esempio, lo studio di un animale “pesce” non può ignorare l’acqua nel quale esso vive. Un pesce, inteso come essere vivente, fuori dall’acqua non è che un corpo morto; le caratteristiche del pesce e il suo metabolismo è condizionato dalla qualità dell’acqua, come ben sanno i possessori di acquari domestici, e viceversa esso stesso condiziona l’acqua. Vi sono inoltre, secondo la natura dell’animale, “ambienti” diversi nei quali un pesce può vivere: un'orata morirebbe in un lago, un luccio avrebbe stessa sorte in mare mentre un salmone ha necessità sia di acqua dolce che salata.</div>
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Il concetto di ambiente però è un concetto “mobile” ovvero se l’oggetto dell’osservazione, nel caso precedente, diventa un lago, che è ambiente se studiamo un pesce, allora l’ambiente del lago diventano tutte le componenti che, interagendo con esso, ne determinano la vita e l’evoluzione: i pesci che vi abitano, le piante che si sviluppano all’interno e nelle vicinanze, le attività umane e animali che insistono su di esso, eccetera.</div>
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Torniamo all’oggetto di questo post: l’organizzazione aziendale. Essa è fatta di persone, addirittura c’è qualcuno, <a href="https://www.nytimes.com/2019/02/21/business/dealbook/delta-ceo-ed-bastian-corner-office.html?emc=edit_dk_20190222&nl=dealbook&nlid=67910717_dk_20190222&smid=nytcore-ios-share&te=1">Ed Bastian CEO di Delta airlines</a>, che sostiene che siano il fine dell’azienda, e il management non ne fa parte. Può sembrare un’affermazione poco credibile ma è supportata da numerosissime evidenze. Ad esempio in un’azienda che costruisce automobili sono operai e impiegati che sono capaci di portarle fuori dalle fabbriche pronte per essere vendute, il manager non sarebbe capace nemmeno di avvitare un bullone o effettuare un acquisto di quel bullone. <br />
Anche nel mondo dello sport, spesso preso a prestito dalla pubblicistica sui temi aziendali, il “manager” (coach, allenatore o come lo si vuole chiamare) non fa parte della squadra, non scende in campo, non indossa scarpette, maglia o altra attrezzatura. E’ a bordo campo e, come ricorda <a href="https://stefanopollini.com/2019/01/29/followership-cosa-ho-imparato-da-andrea-zorzi/">un post di Pollini sulla pallavolo</a>, “vede le cose dal punto di vista della squadra” ma non è in grado di <i>schiacciare</i> (o, se lo sapeva fare quando era giocatore, quanto meno non può farlo in partita adesso che è allenatore. Questa caratteristica è nota come <i>chiusura operazionale</i>). </div>
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Dunque il management, dal punto di vista sistemico, è “ambiente” dell’organizzazione e le sue caratteristiche di leadership sono le specifiche qualità che ne determinano le interazioni con l’organizzazione aziendale.</div>
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Accogliendo questa prospettiva vi sono alcune conseguenze che possono indicare un nuovo modo di approcciare il tema e di svilupparlo. </div>
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Tanto per cominciare non esiste “la leadership” ma ve ne sono di vari tipi, adeguati o meno secondo le caratteristiche dell’organizzazione (acqua salata, dolce, ecc.).</div>
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Non tutti i tipi di leadership vanno bene con tutte le organizzazione: l’acqua dolce ammazzerebbe un'orata. </div>
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Le interazioni oggetto-ambiente modificano entrambi in un percorso evolutivo che ha l’unico fine di mantenere l’identità del sistema. Non esistono “cambiamenti”, come purtroppo si continua a parlarne nell’ambito aziendale (il famoso <i>Change Management</i>), ma “sviluppi” che vanno innescati, monitorati e tutelati ma i cui risultati sono sempre incerti e imprevedibili.</div>
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Mi fermo qui, anche se la lista potrebbe essere più lunga, ma già da queste poche considerazioni, se si accoglie la prospettiva sistemica, si possono trarre delle conclusioni,.</div>
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Tanto per cominciare non ha senso parlare di leadership in senso assoluto o che sia una necessità per le organizzazioni, visto che vi sono addirittura aziende che non ne hanno bisogno. Si sta diffondendo sempre di più infatti il fenomeno delle aziende senza capi che senz’altro hanno anche loro un ambiente ma tra le sue componenti non vi è il management e la leadership gerarchica.</div>
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L’innesto di capi in una nuova organizzazione è sempre operazione delicata, di certo non può essere un criterio esclusivo di scelta il successo che un leader ha avuto in un altro contesto. Riempire una vasca di lucci con l’acqua salata nella quale hanno proliferato le orate non è una buona idea. E’ pur vero che le interazioni soggetto-ambiente modificando col tempo entrambi, alla ricerca di un’identità, possono trovare una nuova modalità di sviluppo.<br />
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Accettando questo nuovo punto di vista allora, cosa si può fare per lo sviluppo dell’organizzazione? La risposta non è semplice, come per tutti i “sistemi” che si sviluppano da soli (autopoietici). Una prima indicazione, giusto per non scoraggiare e anzi incuriosire ulteriormente per accogliere questo punto di vista, è la seguente: fornire strumenti per consapevolizzare ed esplicitare il proprio progetto di sviluppo.</div>
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Come farlo?</div>
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Una prima risposta al prossimo post…</div>
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lucianohttp://www.blogger.com/profile/00811340593016815703noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1364817022386799794.post-39533659974293231852019-02-20T11:47:00.002+01:002019-02-20T11:51:15.981+01:00Miti e ingenuità: Imprenditorialità e territorio<div style="text-align: center;">
di</div>
<div style="text-align: center;">
Luciano Martinoli</div>
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luciano.martinoli@intellegit.it</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgyRcpqmnWLD9vY2eYW9Msj811kH9ggsReT3puqX411AYtC5mFDvlLah9UIwZosi7Zn8W1LXcGfsCrKpDBkLWIpNVn1EbfIlTRzwrFelOnGP0bmJkTgquk0-dZAxtdcOzZBJ6j8uC5dVds/s1600/crespidadda.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1066" data-original-width="1600" height="133" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgyRcpqmnWLD9vY2eYW9Msj811kH9ggsReT3puqX411AYtC5mFDvlLah9UIwZosi7Zn8W1LXcGfsCrKpDBkLWIpNVn1EbfIlTRzwrFelOnGP0bmJkTgquk0-dZAxtdcOzZBJ6j8uC5dVds/s200/crespidadda.jpg" width="200" /></a></div>
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Spesso nelle interviste agli imprenditori, ma ancor più spesso si tratta di manager, viene evidenziato il legame che l'azienda ha col territorio e come contribuisca al suo sviluppo. Immediatamente il pensiero corre ad Olivetti, l'intervistato di turno si dichiara, o lo fa l'intervistatore, un seguace del pensiero di Adriano e ci si lascia con la bocca aperta dalla meraviglia per aver trovato un imprenditore "illuminato".</div>
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Memoria corta, e scarsa frequentazione della bibliografia sull'argomento, sono le cause di questa ingenuità che se è innocua per chi ne è oggetto crea, in modo più pericoloso, la falsa convinzione che il legame azienda-territorio sia un'eccezione e non la regola per far impresa. Forse allora più che andare a caccia di imprenditori "illuminati" sarebbe opportuno cercare e recensire quelli "spenti" che ritengono il fare azienda un fatto privato mirato unicamente al loro tornaconto.</div>
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Nel 1778, 123 anni prima della nascita di Olivetti, Ferdinando IV di Borbone decise di erigere un ospizio per i poveri della provincia di Caserta presso il quale assegnò un opificio per non tenerli in ozio. A tal scopo fece giungere sul posto delle imprese dal nord Italia. La colonia crebbe rapidamente così che si decise di costruire ulteriori edifizi per migliorarne le funzionalità tra i quali una parrocchia, degli alloggi per gli educatori e dei padiglioni per i macchinari. L'istruzione tecnica degli operai era affidata al Direttore dei Mestieri ciascuno per ogni genere. Ancora oggi alcune aziende seriche continuano la tradizione di eccellenza iniziata allora. </div>
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Nel 1799, 101 anni prima della nascita di Olivetti, <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Robert_Owen">Robert Owen</a>, avviò a New Lanark (Scozia), uno stabilimento per la filatura della lana in cui i bambini lavoravano meno e andavano a scuola e tutti i dipendenti vivevano in alloggi con acqua pulita, potevano comprare prodotti a prezzi ridotti, disponevano di una biblioteca e di uno spazio ricreativo e usufruivano di una sorta di assicurazione sociale.</div>
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Nel 1878, 23 anni prima della nascita di Olivetti, sulla riva dell'Adda, in provincia di Bergamo, nacquero la fabbrica e il villaggio di Crespi d'Adda per volontà della famiglia di industriali Crespi. L'idea era di dare a tutti i dipendenti una villetta, con orto e giardino, e di fornire tutti i servizi necessari alla vita della comunità: chiesa, scuola, ospedale, dopolavoro, teatro, bagni pubblici. (La foto è del villaggio di Crespi d'Adda).</div>
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Luisa Spagnoli, fondatrice della Perugina, nel primo dopoguerra si spese per migliorare le condizioni dei propri dipendenti, in particolare le donne. Asili nido, e spacci per consentire alle stesse, all’interno dell’azienda, di fare la spesa per la propria famiglia.</div>
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Mi fermo qui ma la lista potrebbe continuare e citare centinaia di storie simili in ogni parte del mondo. Dunque senza nulla togliere, anzi, alle capacità e la visione di Olivetti, è "normale" che un imprenditore si prenda cura delle persone e del territorio circostante in quanto costituiscono l'ambiente dal quale trae la linfa vitale che consentirà all'azienda di prosperare.</div>
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Laddove l'azienda impoverisce il contesto circostante, ci troviamo di fronte ad una anomalia che va riconosciuta ed evidenziata per tempo prima che generi i tristi disastri ai quali siamo abituati.</div>
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Prima ancora delle interviste, dovrebbero essere i "progetti di futuro" dell'azienda a svelare la loro normalità o meno. Quei progetti di "senso" che chiedono gli investitori, pochi: come <a href="http://imprenditorialitaumentata.blogspot.com/2019/01/scopo-e-profitto-vivere-per-respirare-o.html">Larry Fink</a>, e che ignorano le amministrazioni, la politica e i sindacati tranne poi ricordarsene a disastro avvenuto. </div>
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A quando dei periodici reportage su aziende con imprenditori e manager "spenti"?</div>
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lucianohttp://www.blogger.com/profile/00811340593016815703noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1364817022386799794.post-42006405391345861222019-01-31T07:53:00.003+01:002019-02-01T14:31:21.803+01:00Scopo e Profitto: Vivere per respirare o respirare per vivere?<div style="text-align: center;">
di<br />
Luciano Martinoli</div>
<div style="text-align: center;">
luciano.martinoli@gmail.com</div>
<br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhvQTNBdXtZuTRq0GFvktv1_vyr68j9c_1gi20bv_sECG7smhDiUfk3uYKzot5GQloMAGeweBKu0K_TmKXEeR83MbAzqrgisoEf2ALjhfsUR4KH5Fs3dpKD25hzGNdld-Yzz4z0CnQTYv0/s1600/respiro.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="358" data-original-width="467" height="153" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhvQTNBdXtZuTRq0GFvktv1_vyr68j9c_1gi20bv_sECG7smhDiUfk3uYKzot5GQloMAGeweBKu0K_TmKXEeR83MbAzqrgisoEf2ALjhfsUR4KH5Fs3dpKD25hzGNdld-Yzz4z0CnQTYv0/s200/respiro.jpg" width="200" /></a></div>
<br />
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Anche quest'anno Larry Fink, Ceo di Blackrock il più grande gestore di ricchezze al mondo, <a href="https://www.blackrock.com/corporate/investor-relations/larry-fink-ceo-letter">scrive ai suoi equivalenti di tutto il pianeta</a> invitandoli ad una visione e azione di lungo termine in contrapposizione, come ormai è prassi da tempo, di breve termine. Certo lo fa per motivi di interesse del suo business, deve garantire rendimenti futuri delle risorse affidategli, ma ha compreso che la prosperità di lungo termine è intimamente legata allo "scopo" dell'azienda contestualizzato nella società in cui questa opera. Il profitto ne è una logica conseguenza non una variabile indipendente. Si respira (profitto) per vivere non si vive per respirare e se nella vita, anche di un'azienda, non c'è scopo oltre quello della mera sopravvivenza la fine è assicurata.</div>
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</div>
<a name='more'></a><br />
<div style="text-align: justify;">
Oggi progettare e agire per il lungo termine, ricorda Fink, è più importante che mai: "<i>lo scenario globale è sempre più incerto e, di conseguenza, può generare comportamenti di breve termine</i>".</div>
<div style="text-align: justify;">
Al contrario egli suggerisce che proprio in questo contesto è necessario una <i>incarnazione </i>(<i>embodiment</i>) dello "scopo della vostra azienda nel vostro business model e nella strategia". Lo "scopo" infatti non è una semplice battuta o una campagna di marketing ma "<i>la fondamentale ragione di esistere dell'azienda, ciò che ogni giorno crea valore per i suoi stakeholder. Lo scopo non è l'esclusivo perseguimento del profitto ma la forza animatrice per ottenerlo</i>". Si respira per vivere, appunto, non il contrario.</div>
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<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Fink aggiunge "<i>quando un'azienda comprende davvero il suo scopo e lo esprime, funziona con la concentrazione e la disciplina strategica che guida la profittabilità di lungo termine. Lo scopo unifica il management, i dipendenti e le comunità. Guida comportamenti etici e crea un controllo essenziale sulle azioni che vanno contro gli interessi degli stakeholder. Lo scopo guida la cultura, fornisce un impianto per un decision-making consistente e, alla fine, aiuta a sostenere i ritorni finanziari di lungo termine per gli azionisti</i>".</div>
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<br /></div>
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Sono considerazioni condivisibili e ragionevoli che ci si aspetterebbe fossero alla base dell'azione di qualsiasi impresa. Sembrerebbe ovvio vedere scolpiti sui muri delle aziende i loro scopi e avere accesso ad ampi e dettagliati documenti, scritti in modo che generino interesse e curiosità, che ne articolino le modalità, spesso cangianti, per perseguirli (i loro <b>Business Plan "propriamente" redatti</b>).</div>
<div style="text-align: justify;">
Purtroppo la realtà è ben diversa e lo dimostra lo sforzo che Blackrock ha dovuto dispiegare a tal fine. Vuoi per mancanza di volontà aziendale, incapacità del management di dare senso alla propria attività (che guarda caso prima o poi deperisce), assenza di linguaggi appropriati o un mix di tutto questo, Blackrock si è dovuta attrezzare con una squadra (<a href="https://www.blackrock.com/corporate/literature/publication/blk-commentary-engaging-on-strategy-purpose-culture.pdf">Investment Stewardship team</a>) alla ricerca degli elementi dello scopo aziendale. Tale squadra va a<a href="https://www.blackrock.com/corporate/about-us/investment-stewardship#engagement-priorities"> caccia di <i>scopo</i></a> nei colloqui diretti con i consigli di amministrazione, le letture dei siti, i documenti degli Investor day, le lettere agli azionisti e molto altro.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
A ben vedere è triste constatare come a livello globale, Blackrock investe in tue le aziende del mondo dunque anche in Italia, i gangli vitali della nostra società basata sull'economia, le aziende, esistano senza un preciso scopo nel contesto in cui operano, vivono solo per respirare. Non c'è allora da sorprendersi dei loro improvvisi crolli, del decadimento morale e motivazionale che spargono nella società circostante e dell'impoverimento complessivo che generano. </div>
<div style="text-align: justify;">
Ben venga dunque lo stimolo di Fink, ma, limitandoci all'Italia, sono in grado le aziende nostrane di trovare il loro "scopo" al di là della loro semplice sopravvivenza? E sono in grado di esprimerle in modo tale che venga compreso e condiviso dentro e fuori le loro mura? </div>
<div style="text-align: justify;">
Provate a guardare nei loro documenti e troverete il motivo per il quale Larry Fink ogni anno scrive queste lettere.</div>
lucianohttp://www.blogger.com/profile/00811340593016815703noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1364817022386799794.post-77660109330526873482018-10-18T09:12:00.001+02:002018-10-18T10:16:51.284+02:00Non crollano solo i ponti (anche le aziende che li fanno)<div style="text-align: center;">
di</div>
<div style="text-align: center;">
Luciano Martinoli</div>
<div style="text-align: center;">
luciano.martinoli@gmail.com</div>
<div style="text-align: center;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEirYlOuUiVpeCGEXSSWO-kK61lt64thJ9YYrILi-sj1sfRrROc10UFojczTRFXTgathKUdzAwfxmJT7od4UXhfWKOyCbyYe2hkAgMl3SHnU9NyoacUSOXSlXUn7S9cQl5XYzD8xw_qU0as/s1600/ponte-Morandi-Genova-10-640x427.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="427" data-original-width="640" height="133" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEirYlOuUiVpeCGEXSSWO-kK61lt64thJ9YYrILi-sj1sfRrROc10UFojczTRFXTgathKUdzAwfxmJT7od4UXhfWKOyCbyYe2hkAgMl3SHnU9NyoacUSOXSlXUn7S9cQl5XYzD8xw_qU0as/s200/ponte-Morandi-Genova-10-640x427.jpg" width="200" /></a></div>
<div style="text-align: center;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Il 12 maggio 2016 la società Astaldi <a href="http://marketinsight.it/2016/05/16/astaldi-ok-del-mercato-al-piano-con-un-piu-18-in-tre-giorni/">presentava il suo piano industriale</a> in un incontro con gli analisti. La reazione del "mercato" fu positiva al punto che il titolo in Borsa guadagnò in tre giorni il 18%.</div>
<div style="text-align: justify;">
Ebbi la possibilità di partecipare a quell'incontro e dalle presentazioni dei manager che si avvicendarono sul podio ebbi subito chiara la sensazione che non si trattava del progetto, ma di una rappresentazione del progetto i cui dettagli rimanevano oscuri, qualora ci fossero stati. Anche le domande degli analisti non riuscirono a scalfire questa vaga nebbiolina che non consentiva mettere a fuoco i dettagli col rischio di far dubitare che ci fossero.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Il mercato però ritenne quanto detto sufficiente a dare fiducia ad Astaldi. Io mi limitai ad un'analisi dei documenti, grazie al nostro modello, dal quale si evidenziavano tutte le debolezze del piano (il <i>light unsoliceted rating </i>di quel piano<i> </i>è disponibile <a href="https://docs.google.com/viewer?a=v&pid=sites&srcid=ZGVmYXVsdGRvbWFpbnxkb2Njc2UxfGd4OjFlMDRhMTQ5MmJlZmEyYzI">qui</a>. Inviato al presidente Paolo Astaldi, rimase senza risposta).</div>
<div style="text-align: justify;">
Riporto soltanto le conclusioni </div>
<ul>
<li>Tutti i parametri economici e finanziari rimangono nelle intenzioni dell’azienda senza ulteriore supporto strategico, lasciando la probabilità di realizzazione legata al contesto e alla continuità del settore e dell’azienda e non a precise volontà di Astaldi che non sono state puntualizzate.</li>
<li style="text-align: justify;">Pur avendo voluto rimarcare un cambiamento strategico sono state solo accennate poche azioni relative ad un piano di Execution .</li>
<li style="text-align: justify;">Non vi è presente nessuna indicazione sul processo di redazione del Business Plan (chi l’ha fatto, quanti hanno partecipato, come hanno partecipato, ecc.), variabile fondamentale per comprendere la Probabilità di Realizzazione del piano stesso.</li>
<li style="text-align: justify;">La visione del mondo dell’azienda (Vision), cosa l’azienda vuole fare nel mondo che vede (Mission), quali risorse cognitive e strumenti sono stati utilizzati per la progettazione strategica non sono menzionati.</li>
<li style="text-align: justify;">Non è stata data indicazione dell’esistenza di un documento che contiene il Business Plan (le slide illustrate e distribuite sono certamente la presentazione di un “progetto” e non il progetto stesso).</li>
</ul>
E' <a href="https://docs.google.com/viewer?a=v&pid=sites&srcid=ZGVmYXVsdGRvbWFpbnxkb2Njc2UxfGd4OjdhOGI2N2IxOTAwZWY0ZWQ">notizia di oggi</a> il concordato per il salvataggio di quella che doveva essere, non più tardi di due anni e mezzo fa, un'azienda lanciata, a detta dei manager e d'accordo con il "mercato", verso <i>magnifiche sorti e progressive.</i><br />
<div>
<i><br /></i></div>
<div>
Sarebbe troppo banale ricorrere alla sterile retorica del 'lo avevo detto' perchè qui la questione è più profonda e seria delle piccole, e inutili, soddisfazioni personali. Siamo di fronte all'ennesima dimostrazione di come anche nel caso del futuro delle aziende, come in quello del futuro dei ponti che anche Astaldi costruisce, tutto parte da un <i>progetto di futuro</i>. Se questo è fatto male, o non c'è, il futuro crolla nè più nè meno come crollano i ponti. </div>
<div>
Le perduranti carenze progettuali, più volte testimoniate da queste pagine virtuali, sembrano non interessare nè le aziende che costruiscono i loro futuri, i <i>ponti</i>, nè gli investitori che ci investono (anche) i nostri quattrini sopra, gli utenti che percorrono tali <i>ponti.</i></div>
<div>
I crolli non allarmano le altre aziende invitandole a correre ai ripari con progetti migliori, ma non scandalizzano nemmeno gli investitori, e gli stakeholder in generale (che pure ci passano sopra tali <i>ponti</i>) a fare pressioni perchè ci siano progetti degni di questo nome.</div>
<div>
A quanti crolli, e soldi persi, dovremo ancora assistere prima che ci si degni di dare uno sguardo serio a tale dimensione progettuale?</div>
lucianohttp://www.blogger.com/profile/00811340593016815703noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1364817022386799794.post-13777136652834296582018-08-11T17:01:00.003+02:002018-08-11T17:01:52.612+02:00Francesco Zanotti: una visione fuori dal coro<br />
<div align="center" class="MsoNormal" style="text-align: center;">
<b style="mso-bidi-font-weight: normal;">di Cesare Sacerdoti<o:p></o:p></b></div>
<div align="center" class="MsoNormal" style="text-align: center;">
<b style="mso-bidi-font-weight: normal;">c.sacerdoti@cse-crescendo.com<o:p></o:p></b></div>
<br /><br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg-PSeNgqZ-u7SBWb43lbxiQJj6WAwyJefUEXznPgDzqVfoGOU0SnlqF_ivrNq1kXgkTC8EBrBjhQN0T4tPtNmxEJwLv-5z1XOh34ki00a_fLOY108tVrFLmUVJDWBKfapKFfvIFQr9uxU/s1600/Francesco+Zanotti.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1507" data-original-width="1477" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg-PSeNgqZ-u7SBWb43lbxiQJj6WAwyJefUEXznPgDzqVfoGOU0SnlqF_ivrNq1kXgkTC8EBrBjhQN0T4tPtNmxEJwLv-5z1XOh34ki00a_fLOY108tVrFLmUVJDWBKfapKFfvIFQr9uxU/s200/Francesco+Zanotti.jpg" width="195" /></a></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Il
pensiero di Francesco Zanotti, la sua intensa opera di ricerca, i suoi scritti
riflettono a mio avviso le varie componenti della sua formazione: l’approccio
pragmatico e disincantato dell’uomo nato nelle campagne pavesi, il rigore
dell’ufficiale di artiglieria, la curiosità scientifica del laureato in fisica.
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
La fisica quantistica, la matematica, ma anche la biologia,
la sociologia e le scienze umane in genere rientravano nella sua sfera di
indagine, ma, nel contempo ne rifiutava il carattere dogmatico, perché, come
era solito ricordare, le scienze sono modi diversi di raccontare la relazione
uomo-ambiente (in senso lato). In quest’ottica, per lui, ogni scienza, ogni
scoperta scientifica poteva contribuire a suggerire metafore di nuove forme di
relazione uomo-ambiente.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Ed è proprio partendo da questa convinzione, che Zanotti,
considerando chiusa l’età industriale, aveva cercato di dare vita a una grande
occasione di incontro tra le scienze, le religioni, la politica e le
istituzioni per fare emergere, tutti insieme, nuove forme di relazione delle
organizzazioni umane siano esse l’uomo, la famiglia, l’impresa, la politica.
Una sorta di nuove Macy conferences capaci di preconizzare il futuro<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Professionalmente si era concentrato sull’impresa, della
quale aveva analizzato a fondo le condizioni di origine, il ciclo di vita e le
cause di degrado. Da un’attenta analisi dello stato dell’arte degli studi di strategia
di impresa, è nata la convinzione della necessità di ulteriori passi: ecco la
definizione di un innovativo modello di business, la creazione di una matrice
del posizionamento strategico dell’impresa. E soprattutto sua la visione
dell’azienda come artefice del proprio futuro capace di cogliere una delle “infinite
potenzialità”, anziché essere “schiava” delle cosiddette leggi di mercato. Ecco
allora che Francesco anticipava già anni fa la necessità di quello che è stato
poi chiamato quantitative easing; ecco il rifiuto della “competitività” come
elemento necessario e sufficiente per superare crisi di impresa; ecco
l’intuizione di un rating del futuro del business plan, come valutazione del
futuro dell’impresa, staccato dalla propria storia.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
E dall’analisi della relazione uomo-ambiente anche le
profonde innovazioni nel campo delle azioni per migliorare la sicurezza sul
posto di lavoro, non riducibile al solo rispetto di procedure, esaminando e facendo leva sulla cosiddetta
organizzazione informale basata sulle relazioni tra le persone, e sul bisogno di autorealizzazione di
ciascuno.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
E sugli stessi presupposti, Zanotti ha anche operato nella
relazione tra grande impresa e stakeholder in particolare tra infrastrutture e
cittadinanza, suggerendo approcci assolutamente innovativi.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Mi è impossibile rendere giustizia alla profondità, ma anche
all’ampiezza del pensiero di Francesco Zanotti: riesco solo a dire che mi ha
insegnato a prendere le distanze dai dogmi che ci vengono quotidianamente
proposti e a comprendere che ciascuno di noi guarda il mondo attraverso le
proprie risorse cognitive (ma anche che ciascuno di noi ha il dovere di
migliorare e incrementare tali risorse cognitive).<o:p></o:p></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
</div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<br />lucianohttp://www.blogger.com/profile/00811340593016815703noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1364817022386799794.post-76957964754837707352018-08-08T13:06:00.002+02:002018-08-08T13:06:40.442+02:00Lutto<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEitoFZ6v7o01QEQrf9MxRO4oH_11dOk7_tfvmJsxJLF7kVdgb6ym0zVt8t1TLimjBgfvZRgvUpofIWhzHEBtCSkEMwisgHVaB2wz8fCvttSIwZZ0OtXf7yzCUotgTYegrlRwofgLq6eAiQ/s1600/Francesco+Zanotti.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1507" data-original-width="1477" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEitoFZ6v7o01QEQrf9MxRO4oH_11dOk7_tfvmJsxJLF7kVdgb6ym0zVt8t1TLimjBgfvZRgvUpofIWhzHEBtCSkEMwisgHVaB2wz8fCvttSIwZZ0OtXf7yzCUotgTYegrlRwofgLq6eAiQ/s320/Francesco+Zanotti.jpg" width="313" /></a></div>
<br />
Devo purtroppo comunicare, per chi l'avesse conosciuto di persona o solo letto le sue pubblicazioni, che Francesco Zanotti è deceduto improvvisamente l'altro ieri per un infarto. Scompare con lui un pensatore e commentatore, oltre che studioso, che ha proposto una prospettiva sulla economia, sulla società e sulla vita certamente originale di cui sarà difficile continuare l'opera. La sua dedizione agli studi lo ha portato ad essere un solitario anche nella vita privata, dunque non lascia figli e mogli. Rimangono i suoi scritti e il ricordo in chi lo ha conosciuto.lucianohttp://www.blogger.com/profile/00811340593016815703noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1364817022386799794.post-66317342835992296612018-03-24T12:30:00.001+01:002018-03-24T12:40:00.708+01:00Il salto di qualità del caso Facebook (e non solo)<i>La peculiarità delle aziende della rete, e l'opacità che aleggia sul loro business, suggeriscono un approccio con tali soggetti che va al di là degli interventi regolatori, pur necessari.</i><br />
<i><br /></i>
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiQY3Pu9W2ZByQYlNzQdX4COtU_IHtboqCImLoIttZioIPSZWTZP15FjqJqvT1GNsiF82zmk249YjV50Cs9i9mHa7LYKAghZkE7DMp2bj38waCRChxUsFLnHijOoQL9fHXXuHwxRJsJkAo/s1600/zuckerberg.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1068" data-original-width="1600" height="133" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiQY3Pu9W2ZByQYlNzQdX4COtU_IHtboqCImLoIttZioIPSZWTZP15FjqJqvT1GNsiF82zmk249YjV50Cs9i9mHa7LYKAghZkE7DMp2bj38waCRChxUsFLnHijOoQL9fHXXuHwxRJsJkAo/s200/zuckerberg.jpg" width="200" /></a></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
In un <a href="http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2018-03-22/serve-coraggio-sherman-act-211323.shtml?uuid=AE8HkvLE">articolo apparso sul sole24ore</a> qualche giorno fa, si affronta la recente questione relativa a Facebook proponendo una prospettiva storica. Fin dagli albori della società industriale, infatti, era apparso chiaro che le aziende di successo, che crescevano sempre di più, creavano non solo prosperità per tutti ma costituivano anche una minaccia. Esse modificavano il contesto sociale e ambientale secondo le loro necessità e, grazie alle enormi disponibilità economiche, potevano influenzare addirittura il potere politico, modificando il governo della cosa pubblica a loro favore.</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
</div>
<a name='more'></a><br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
Il paese che più ha vissuto tali vicende è stato proprio quello dove era garantita la maggiore libertà d’impresa: gli Stati Uniti. A testimonianza di quanto antico e duro sia stato il confronto tra gli interessi privati delle grandi corporation e il bene pubblico, vi è il discorso sul Nuovo Nazionalismo del presidente Theodore Roosevelt il quale, addirittura nel 1910 (esattamente 108 anni fa!), affermava, a proposito dell’invadenza delle aziende diventate grandi in virtù delle fusioni, che </div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
“<i>le fusioni dell’industria sono il risultato di una necessaria legge economica che non può essere abrogata dalla legislazione politica… La via d'uscita si trova non nel tentativo di impedirle ma nel controllarle del tutto nell'interesse del benessere collettivo</i>” .</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
E aggiungeva </div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
"<i>I cittadini degli Stati Uniti devono controllare efficacemente le potenti forze commerciali di cui hanno permesso l’esistenza... È necessario che siano adottate leggi per vietare l'uso di fondi aziendali a scopi politici, direttamente o indirettamente... [evitare] la corruzione dei nostri affari politici </i>". </div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
Cambiate “<i>fusioni</i>” con “<i>industrie della rete</i>” e“<i>uso di fondi aziendali</i>” con “<i>uso dei dati</i>”, e le stesse affermazioni le potrebbe fare un qualsiasi politico assennato di oggi.</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
Da allora il governo federale USA è cresciuto predisponendo negli anni numerose agenzie il cui scopo era proprio quello di tutelare “<i>l’interesse del benessere collettivo</i>”.</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
Nulla di nuovo sotto il sole, dunque, solo un ulteriore salto di qualità.</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
Proprio per affrontare questo salto di qualità, è necessario nel caso della rete un approccio totalmente nuovo, sia per il regolatore ma, soprattutto, per consentire di far emergere una nuova propositività ad un attore di controllo, che è anche di supporto: gli stakeholder, ovvero tutti noi.</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
L’azienda è un attore sociale a tutti gli effetti. La sua interazione con “l’ambiente”, costituito dagli altri attori sociali (istituzioni, sindacati, media, cultura, ecc.), contribuisce a modificare in maniera importante la società nel suo complesso. Non è un caso che si parli di “società industriale”, per indicare quella del secolo scorso, o di “società in rete” per quella attuale, entrambi caratterizzate dal forte impulso (nel bene e nel male) proprie delle aziende. La differenza tra l’azienda della società industriale e quella della rete è che la prima era facilmente “leggibile”. Il suo scopo era chiaro e palese a tutti perché mirava a realizzare un “modello di società” condiviso, universalmente noto e al quale tutti tendevano. Chi costruiva automobile offriva una soluzione alla mobilità personale. Chi faceva elettrodomestici offriva, in maniera oltremodo tangibile, opportunità alla donna di liberazione dalle faccende domestiche, consentendole di emanciparsi. Chi si occupava di banca rendeva disponibile, in modo affidabile, la circolazione dei capitali che serviva a tutti gli altri. E così via. Il ruolo del regolatore in questo caso era relativamente facile.</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
Oggi il “Sense of purpose” di molte aziende è o obsoleto, è il caso di quelle che continuano ad occuparsi dei (sempre meno) indispensabili prodotti e servizi del secolo scorso ma in un contesto totalmente cambiato, o sconosciuto (anche a loro stesse), come nel caso delle aziende della rete. Facebook, e altri colossi analoghi, sono doppiamente pericolosi proprio per questo motivo: o non sanno i rischi che fanno correre o lo sanno e ne approfittano per motivi di business (o un mix delle due). </div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
Il primo passo allora, coerentemente al “salto di qualità” di queste imprese, è un analogo salto di qualità del rapporto di queste con il loro “ambiente”. Esse devono obbligatoriamente interrogarsi sul loro “Sense of purpose”, banalmente che ci stanno a fare al mondo (perché ci stiamo solo ora accorgendo che non è così scontato) a partire dalla descrizione dettagliata, e periodicamente aggiornata, del mestiere che vogliono svolgere (la descrizione del business). Tale esercizio deve poi essere comunicato, nel dettaglio dei contenuti ma anche del come ci si è arrivati, per essere fruibile a tutti e non solo alla comunità finanziaria o alle comunità “verdi e sostenibili”. Questo non solo sarebbe la base per il regolatore nella sua attività preventiva e repressiva, ma consentirebbe un controllo, ma anche un consapevole sostegno, sociale oggi reso impossibile dalla opacità di queste aziende. </div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
E’ inutile e patetico infatti precipitarsi a chiedere a Zuckerberg, e a quelli come lui, cosa diavolo ha combinato quando la frittata è stata fatta, dovrebbe invece rispondere “in solido”, e preventivamente in automatico, sul perché non si è comportato come aveva detto e scritto almeno ogni anno in un documento pubblico.</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
Obbligare le imprese ad impegnarsi in una tale attività potrà sembrare banale o addirittura impossibile. Ma non era altrettanto impossibile pensare che con dei banali like o mettendo qualche innocente commento in rete ci avrebbero condizionato la vita fino a farci eleggere, ad esempio, un presidente invece che un altro?</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
Il mondo è cambiato per davvero e ormai, se davvero vogliamo cambiare di conseguenza qualcosa, è ora, come affermava María de Jesús Patricio Martínez detta Marichuy candidata indigena alle presidenziali in Messico, di “parlare dell’impossibile, perché del possibile si è già detto abbastanza”.</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<br /></div>
<i><br /></i>lucianohttp://www.blogger.com/profile/00811340593016815703noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1364817022386799794.post-29607506502428419622018-02-24T10:09:00.003+01:002018-02-24T15:21:14.642+01:00Il paradigma 20/80<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiRu0k1ex8AAbtJaiQ8GKlhZN_N67EKh1FggXo93P8LkGjoMUdZBTBgcjwslrw_fCeJQ_7vVD3cVyP85hGle31wHLn1Hz_15KXaV_kAT0j4ol0MBlFMVQkFtnOpUNi10WWhoCIBrYnXJlY/s1600/20-80.gif" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="209" data-original-width="367" height="113" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiRu0k1ex8AAbtJaiQ8GKlhZN_N67EKh1FggXo93P8LkGjoMUdZBTBgcjwslrw_fCeJQ_7vVD3cVyP85hGle31wHLn1Hz_15KXaV_kAT0j4ol0MBlFMVQkFtnOpUNi10WWhoCIBrYnXJlY/s200/20-80.gif" width="200" /></a></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<i>Recenti dati confermano ciò che si sapeva da tempo: il 20% delle aziende produce l'80% dell'export e del valore industriale. E' una oggettività strutturale o è il caso che l'altro 80% delle aziende si decida a dare il suo contributo?</i></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<i><br /></i></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
E' i<a href="http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2018-02-22/un-economia-guidata-leadership-minoranza-221600.shtml?uuid=AEPWSK5D">l sole24ore</a> che fornisce un'analisi su questo dato di fatto, confermando e dando corpo a quanto il Presidente di Confindustria aveva già affermato qualche tempo fa ("<a href="http://tinyurl.com/yablp273">c'è un 20% di aziende che va molto bene, un 20% molto male e un 60% nella terra di mezzo</a>" ) .</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
La sfida è senz'altro attenuare tale<i> "bipolarizzazione", </i>come afferma l'autore, aiutando le rimanenti 80% delle aziende a dare il loro contributo.</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
Il problema è: come farlo?</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
</div>
<a name='more'></a>L'articolo rivela ad un certo punto una grande, e dimenticata, verità quando afferma che ci sono aziende che "<i>si mantengono in una poco aurea mediocritas" </i>e "<i>la minoranza di imprese che stanno fra coloro che son sospese, non avendo ancora deciso se vivere o morire"</i>. La verità consiste nel fatto che essere mediocri o vicini alla morte<b> </b>è determinata dalla<b> decisione </b><b>delle aziende e non da condizioni esterna ad esse. </b>Questo è dimostrato dalla presenza stessa del 20% di imprese eccellenti: se fosse il contesto l'unico e decisivo fattore a determinarne il successo, queste non dovrebbero esistere. Dunque la "crisi" come causa dei malanni delle aziende (tutte, banche comprese, fintanto queste si dichiarano imprese) è una foglia di fico per coprire la loro più grave incapacità: la mancanza di progetti di sviluppo.<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
Ecco allora il punto nevralgico da affrontare e risolvere per abbattere la bipolarizzazione 80/20: i progetti di sviluppo strategici. Qui arriviamo alle dolenti note: nessuno li chiede, nessuno li sa fare, nessuno li sa valutare.</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
Non li chiede lo Stato quando predispone l'apertura dei cordoni della borsa pubblica (i nostri soldi!) per sostenere l'economia in generale. Ci si basa su parametri economici, finanziari, patrimoniali o semplicemente favorendo acquisti di beni (ad esempio tecnologici, come nel caso di <i>Industria 4.0</i>) dimenticando la richiesta più banale: dimmi cosa te ne farai di tali denari e come ne produrranno altri.</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
Non li chiedono le banche, attaccate alle loro valutazioni esclusivamente patrimoniali o a esperienze e modalità artigianali legate ai ricordi degli "esperti di settori" che condannano le nascenti unità di <i>Corporate Investment Banking</i> a perpetuare gli errori e i pregiudizi di tali esperti.</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
Non li chiedono neppure gli operatori dei mercati di capitale. Basti citare, a titolo di esempio, che lo strumento dei minibond, che pure doveva essere un modo per affrancarsi dal credito bancario, sta rivelando, attraverso percentuali preoccupanti, l'incapacità di onorare gli impegni (il 29% delle emittenti ha ridiscusso i covenant secondo i dati del <a href="http://www.osservatoriominibond.it/webportal/docdownload?codice=446">4° report sui minibond</a> dell'osservatorio del Politecnico di Milano). Inoltre è altrettanto preoccupante che la massa di tali obbligazioni in scadenza andrà, come pare sia molto probabile, ad essere rinnovata per impossibilità dell'emittente di aver raggiunto adeguati flussi di cassa dall'attività caratteristica per sostenere il proprio sviluppo. </div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<br /></div>
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In questo scenario si pongono poi le aziende che vanno da posizioni di netto rifiuto a "ragionare", e poi scrivere, del proprio futuro, a coloro che raffazzonano qualche ingenuo e farneticante documento senza nè capo nè coda. Tale documento, il <i>Business Plan volgare</i>, sarà buono solo a far da <i>copertina</i> discorsiva a masse di fogli excel con numeri la cui ricerca di senso sarà un oneroso e dispendioso sforzo di uno degli interlocutori di cui sopra, sempre che ne abbia voglia e tempo. </div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
Nel mezzo gli operatori di "buona volontà" e capacità, dispersi nei vari attori di mercato, che però non bastano di certo a ribaltare le sorti di quell'80%.</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<br /></div>
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Ecco allora che la "<i>leadership strategica"</i> e la "<i>evoluzione della cultura industriale" </i><i>, </i>di cui parla l'autore dell'articolo, passano da questi due temi oggi ignorati da qualsiasi dibattito sul tema: la coscienza della capacità autonoma dell'impresa di progettare il suo destino (con tutte le sue conseguenze) e la necessità di conoscenze a supporto di tali progettazioni (per sapere come esplicitarle e valutarle al meglio).</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<br /></div>
<br />lucianohttp://www.blogger.com/profile/00811340593016815703noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1364817022386799794.post-36249090248015784352018-02-20T13:08:00.001+01:002018-02-20T14:18:11.360+01:00Il destino delle reti (il caso Facebook)<i> Un recente articolo del Wall Street Journal evidenzia le caratteristiche comuni delle "reti", tecnologiche e non, da un punto di vista storico. Un destino delle tecnologie o di noi umani che siamo chiamati ad utilizzarle?</i><br />
<i><br /></i>
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgei3KUDC4d9Bf6qxP4ZG7Is0uwOVVdvhcE7kQBX4hSZILOUUgtx6Q7ZCVd-eW-HsaFu8VlHBD3tVtUzcIaW9-g80LyR0Hbxpg3ingFb0qSJQSUniLEjZCG9xHh4gNcR2mwcMOWAJqM1Q8/s1600/reti.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="168" data-original-width="299" height="112" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgei3KUDC4d9Bf6qxP4ZG7Is0uwOVVdvhcE7kQBX4hSZILOUUgtx6Q7ZCVd-eW-HsaFu8VlHBD3tVtUzcIaW9-g80LyR0Hbxpg3ingFb0qSJQSUniLEjZCG9xHh4gNcR2mwcMOWAJqM1Q8/s200/reti.jpg" width="200" /></a></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
Il parallelo è affascinante: Facebook, come l'Unione Sovietica o quella Europea, usando una nuova tecnologia si proponeva come struttura aperta e non gerarchica per distribuire potere. Dopo poco si è trasformata in una gerarchia verticale capace di disseminare informazione e propaganda accentrando quel potere che voleva dare a tutti. E' evidente che qui la tecnologia non c'entra, come giustamente riporta<a href="https://www.wsj.com/articles/why-was-facebook-so-easy-to-hijack-1519045200?mod=itp&mod=djemITP_h"> l'articolo del Wall Street Journal </a>che riporta alcune tesi del libro di Niall Ferguson "<i>The Square and the Tower: Networks and Power, From the Freemasons to Facebook</i>". </div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
E non si parla solo di Facebook ovviamente: stesso destino hanno avuto Youtube e altri social network.</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
</div>
<a name='more'></a><br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
La risposta a questa inevitabile deriva è, a detta dell'autore dell'articolo, tanto semplice quanto dimenticata: anche quando nuove tecnologie appaiono all'orizzonte, siamo sempre noi umani che le utilizziamo! </div>
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Lo facciamo usando ciò che abbiamo in testa, le nostre visioni del mondo, le nostre "risorse cognitive", e se queste sono povere il risultato sarà una povera e banale implementazione della tecnologia, fosse anche la più potente mai vista al mondo.</div>
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Ecco perchè, ancora una volta, una tecnologia non può essere una strategia: è l'uso che se ne intende fare che determinerà, nel caso delle aziende, un lungo e longevo successo o un temporaneo vantaggio destinato a scomparire. </div>
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Il dibattito mediatico nostrano però non si sofferma su questo aspetto, limitandosi alla amplificazione acritica di tutto ciò che è novità perpetuando il rovesciamento semantico del nuovo come "soluzione in cerca di problemi da risolvere". Non se ne vede traccia infatti nei progetti aziendali, nelle politiche di sviluppo, tese a incentivare il nuovo qualsiasi cosa esso produca (es. Industry 4.0), e nell'attenzione della stampa. Fino a scoprire troppo tardi, come nel caso di Facebook, che la montagna ha generato il solito già visto topolino (a beneficio di Zuckerberg e pochi altri e a danno della comunità).</div>
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<br /></div>
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Vi è un modo per tutelarsi e scongiurare tali pericoli? Certamente, basta dotarsi di "punti di vista" diversi e farsi, e fare, delle domande senza accettare acriticamente ciò che si vuole far passare. Basterà e sarà "virale" come l'affermazione della famosa favola: "ehi, ma Il Re è nudo!"</div>
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<br /></div>
<i><br /></i>lucianohttp://www.blogger.com/profile/00811340593016815703noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1364817022386799794.post-1376208408803273322018-01-27T12:25:00.001+01:002018-01-28T07:05:52.823+01:00Il ruolo delle aziende nella società<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhT6FMBKYq5uZnRahEby3OgfdeCcSgX6WIzW-DrvQYzoFkC0HgrsbOM-cad35LAURsDPlTMRILLUFaX2zSnV9Qb8XihmDQRRzEuAVQZYPXmiv_wiwHrBNFo3UnZg7MyBgLM5bhhyphenhyphen7NWoM0/s1600/gente.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="271" data-original-width="482" height="110" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhT6FMBKYq5uZnRahEby3OgfdeCcSgX6WIzW-DrvQYzoFkC0HgrsbOM-cad35LAURsDPlTMRILLUFaX2zSnV9Qb8XihmDQRRzEuAVQZYPXmiv_wiwHrBNFo3UnZg7MyBgLM5bhhyphenhyphen7NWoM0/s200/gente.jpg" width="200" /></a></div>
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<i>Sta crescendo il dibattito sul più ampio ruolo delle aziende all'interno della società uscendo, per fortuna, dai ristretti ambiti nei quali più o meno strumentalmente era stato confinato (ESG, CSR, ecc.). Rimane ancora irrisolto il tema di fondo: è l'azienda a servizio dell'uomo o l'uomo a servizio dell'azienda? E nel primo caso, come può fornire tale servizio senza penalizzare se stessa?</i></div>
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<i><br /></i></div>
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Come un onda che viene da lontano, pian piano il tema delle più ampie responsabilità sociali dell'azienda sta crescendo di importanza. La <a href="http://imprenditorialitaumentata.blogspot.it/2018/01/un-ritorno-al-futuro-dal-mondo-della.html">recente lettera di Fink, CEO di BlackRock</a>, non ha fatto altro che dare un ulteriore spinta al dibattito. Le evidenze sono sotto gli occhi di tutti: crescono i mercati e l'economia in generale ma a beneficio di sempre meno soggetti. A cosa servono allora queste crescite? Può il benessere economico essere un fenomeno di nicchia? Un essere umano che possiede tutta la ricchezza del mondo ma non sa cosa farsene perchè tutti gli altri sono poverissimi, può ancora definirsi "ricco"? </div>
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<a name='more'></a><br />
<br />
E' sempre più evidente che la disuguaglianza, economica e sociale (vanno di pari passo), non è tema da vetero-comunismo ma fattore critico di sopravvivenza del capitalismo stesso. Oppure, se la vogliamo mettere in termini avulsi dagli schemi del millennio scorso, ne va della civile convivenza, qualsiasi forma questa abbia.<br />
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Da questo punto di vista non c'è dubbio che le aziende abbiano avuto un ruolo centrale nella costruzione e mantenimento, finora, dell'asseto sociale vissuto nel mondo occidentale (ma al quale aspirano anche altre parti del pianeta). Tale "modello di società", a cui possiamo certamente dare il nome di "industriale", sta arrivando al termine fisiologico del suo ciclo vita. Ne sono la prova più evidente proprio il dibattito sul ruolo delle aziende sul quale si stanno interrogando addirittura coloro che al momento ne traggono il maggior beneficio (almeno i più lungimiranti): gli esponenti del mondo della finanza. </div>
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Il compito però non è facile. Oltre ai banali adempimenti richiesti dai consueti operatori specializzati (per chi volesse toccare con mano consiglio di consultare la classifica, con corrispondenti i parametri, di <a href="http://www.corporateknights.com/reports/2018-global-100/">Corporate Knights sulle 2018 Global 100</a>) o lo sgangherato coro dei consulenti di grido con una banale soluzione sempre pronta in tasca (<a href="https://www.bcg.com/publications/collections/future-of-the-corporation.aspx?utm_source=201801DAVOS&utm_medium=Email&utm_campaign=201801|DAVOS|IANDI|NONE|GLOBAL">BCG </a>, <a href="https://www.mckinsey.it/idee/from-why-to-why-not-sustainable-investing-as-the-new-normal">McKinsey</a>, ecc.) non vi è altro. Anzi tale affollamento di formule e indirizzi li rende tutti di difficile soluzione complessiva. Come faccio a fare gli investimenti o diminuire il debito senza erogare dividendi agli azionisti che sono poi quelli che mi confermano sulla mia poltrona (nel caso del CEO)? Come posso attirare talentuosi CEO se devo allinearli a multipli fissi, e bassi, dello stipendio medio (nel caso dell'azienda)? Come riesco a tenere un prezzo competitivo del mio prodotto o servizio e rispettare le richieste ambientali e di altro tipo che vengono dagli stakeholder? E, madre di tutte le contraddizioni che stiamo vivendo, come rompere quel palese conflitto di interessi di cui nessuno parla, nemmeno gli esperti di ESG a proposito di questo tema di governance, che lega i consigli di amministrazione e gli azionisti mettendo questi ultimi al primo posto degli interessi aziendali rispetto agli altri stakeholder?</div>
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E' evidente che con questo approccio "riduzionistico", ovvero nel voler ridurre in piccole parti il problema, risolverne ogni pezzo da solo e poi rimettere tutti insieme, non si va da nessuna parte e si continuano ad alimentare le contraddizioni a cui stiamo assistendo.</div>
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E allora?</div>
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Facciamo un balzo indietro nel tempo.</div>
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Quando Henry Ford fondò verso l'inizio del secolo scorso la sua azienda automobilistica, non era il solo ad essersi lanciato in questa avventura. All'epoca l'auto era poco di più che un gadget per ricchi signori, disposti a spendere molti soldi per avere l'oggetto più alla moda del momento da mostrare agli altri. Ford capì invece che la nascente società industriale, che iniziava a pervadere tutte le geografie degli Stati Uniti, avrebbe espresso un desiderio di una maggiore e più ampia mobilità rispetto ai mezzi disponibili all'epoca. E non si sognò di andarlo a chiedere in giro perchè, come lui stesso diceva, "<i>se avessi chiesto ai miei potenziali clienti cosa avessero voluto, mi avrebbero detto cavalli più veloci</i>". Dunque Ford non fece il Modello T, col rivoluzionario sistema di produzione che aveva dietro, per fare più soldi e, incidentalmente, realizzare un pezzo di società (con la richiesta di strade, pompe di benzina, ecc.). Avvenne esattamente il contrario: aveva un'idea di società che contribuì a realizzare col suo modello T.</div>
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Venendo a casa nostra, mi piace riproporre a tal proposito uno stralcio di un illuminante articolo di Sergio Romano apparso qualche anno fa su Corsera</div>
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"<i>Dove sono andati gli industriali e i finanzieri che avevano uno sguardo nazionale e non esitavano a esprimere pubblicamente le loro idee? Quando Mussolini decise il ritorno della lira all'oro e fissò il cambio con la sterlina a una quota insostenibile, un grande industriale elettrico, Ettore Conti, andò al Senato per spiegare a un capo del governo accigliato ma attento che quella politica avrebbe provocato una catastrofica deflazione. Quando la crisi del 1929 arrivò in Europa, all'inizio degli anni Trenta, Alberto Beneduce e Raffaele Mattioli spiegarono a Mussolini che cosa bisognava fare per salvare le banche e le imprese. Quando fu chiamato all'Agip per liquidarla, Enrico Mattei ne fece uno strumento della politica nazionale. Quando scendeva a Roma per difendere gli interessi della Fiat, Vittorio Valletta aveva, per parafrasare De Gaulle, «una certa idea dell'Italia». Quando propose la riforma di Confindustria, Leopoldo Pirelli non pensava agli interessi di una corporazione, ma al miglior modo per rendere più efficace il ruolo degli industriali nella vita del Paese. </i></div>
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<i>Oscar Sinigaglia, Cesare Merzagora, Enrico Cuccia, Adriano Olivetti, Guido Carli, Gianni e Umberto Agnelli (cito a caso, con molte omissioni) pensavano naturalmente alla loro azienda o alla loro istituzione, ma avevano convinzioni forti sul Paese in cui avrebbero voluto lavorare, e non mancavano di esprimerle."</i></div>
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<i><br /></i></div>
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Chi sono i figli, i nipoti e i pronipoti di questi grandi del passato, a casa nostra e oltreoceano? Un buon esempio è l'attuale campione dell'industria automobilistica Sergio Marchionne. Un grande ottimizzatore, capace di riportare tranquillità in casa Agnelli e apprezzamento dei mercati ridimensionando, spezzettando, licenziando a beneficio di un unica categoria di stakeholder. Quale era, ed è, l'idea di società che ha guidato Marchionne nel suo operato in questi anni? Quella corrente, che sta morendo, come ricorda giustamente un recente articolo del sole24ore sulla sua eredità industriale "<i>Marchionne ha ridotto drasticamente i costi e ha mostrato come si possa ricavare margini sempre più </i><i>elevati continuando nella sostanza a fare le stesse cose." </i>sottolineando come FCA "<i>continua a essere un produttore d'auto, non un'artefice della nuova mobilità" </i>(al contrario di Ford!).</div>
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<br /></div>
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Dunque quale ruolo deve avere l'azienda all'interno della società? Quello di proporre un modello di società, o di una porzione di essa piccola o grande a piacere, da realizzare con l'acquisto dei suoi prodotti o servizi. Tale modello dovrebbe essere dichiarato pubblicamente in modo che tutti possano decidere se sostenerlo o no. Da questo discende tutto il resto facendo andare magicamente a posto le caselline che i vari consulenti e operatori si affannano inutilmente ad enumerare.</div>
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<br /></div>
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In assenza di tale capacità di ampio respiro, il <i>sense of purpose </i>invocato da Fink nella sua lettera, l'azienda serve solo, e per poco tempo, a chi l'ha fatta.</div>
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Se tale sfida non dovesse essere più raccolta da nessuna impresa, forse anch'essa ha fatto il suo tempo, si ridurrà ad una sempre più povera attività di soddisfazione di bisogni primari che i mercati chiederanno di soddisfare a sempre minor costo. E il dibattito sui nuovi assetti di convivenza sociale si sposterà in altri ambiti venendo lì realizzati .</div>
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E' questo che vogliono i <i>capitani d'impresa </i>del III millennio? O sono capaci di raccogliere la sfida? A sentire le loro dichiarazioni, e leggendo i documenti ufficiali di "intenti" (i Business Plan), non sembra proprio.</div>
lucianohttp://www.blogger.com/profile/00811340593016815703noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1364817022386799794.post-65055400104549811342018-01-17T16:49:00.001+01:002018-01-18T10:13:51.477+01:00Un "ritorno al futuro" dal mondo della finanza<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg8YBOh3x-YT4QKbmMKN_OpmoKE8aTmJNvixm3k95-SVeIEqstKxety1f0TJDIE3K6cRHQeuRK7yav7_opykToa3TPikPDsO_Z3M_Q5N_ItXcjJf0Uqtd-Dosy3zfIMPIyRA21C8mYBDmM/s1600/Larry+Fink+2.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="512" data-original-width="768" height="133" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg8YBOh3x-YT4QKbmMKN_OpmoKE8aTmJNvixm3k95-SVeIEqstKxety1f0TJDIE3K6cRHQeuRK7yav7_opykToa3TPikPDsO_Z3M_Q5N_ItXcjJf0Uqtd-Dosy3zfIMPIyRA21C8mYBDmM/s200/Larry+Fink+2.jpg" width="200" /></a></div>
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<i>La consueta lettera di Larry Fink, CEO del più grande gestore finanziario del mondo (6000 miliardi di dollari), quest'anno fa un salto di qualità, spingendo il mondo delle aziende, e non solo, a ripensare il loro ruolo per la società (all'interno della quale ovviamente operano e prosperano).</i></div>
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<i><br /></i></div>
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Vi è stata un'epoca, nel secolo scorso, dove tutte le aziende, grandi e piccole, erano innanzitutto dei "buoni cittadini". Esse infatti fornivano stipendi adeguati e supporti aggiuntivi ai loro dipendenti (integrazioni dei piani pensionistici e sanitari, borse di studio e luoghi di svago, le "colonie", per i loro figli, ecc.), realizzavano investimenti negli impianti e per la crescita dei dipendenti, pagavano le tasse nei paesi in cui operavano, contribuivano al benessere dei loro clienti e dello sviluppo complessivo con i loro prodotti e servizi, senza dimenticare di far contenti <i>anche</i>, e non solo, i loro azionisti.</div>
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A guardare i comportamenti della grandi aziende globali, e non solo loro, sorge spontanea una domanda: quell'epoca è definitivamente scomparsa, sacrificata sull'altare del valore per gli azionisti a breve termine (il malefico <i>short-termism)</i>?</div>
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<a name='more'></a>A giudicare dal tono del capo del più grande asset manager esistente nella sua l<a href="https://www.blackrock.com/corporate/en-no/investor-relations/larry-fink-ceo-letter">ettera annuale ai CEO</a> di tutte le più grandi aziende del mondo, sembra invece che, proprio per tutelare gli interessi finanziari di lungo termine, debba essere riproposta. Il taglio scelto da Larry Fink è più vicino alla "politica" che alla finanza, dimostrando in tal modo che anche la finanza ha le sue responsabilità pubbliche.<br />
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Vediamone i principali passaggi .</div>
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<br /></div>
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<b>Un più ampio ruolo delle aziende</b></div>
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Recentemente, scrive Fink, si è assistito ad un paradosso di "<i>elevati ritorni ed elevata ansia</i>", riassumendo, con questa battuta, l'annoso tema della crescente diseguaglianza sociale, preoccupazione di tutti. Infatti pochi si sono arricchiti tantissimo ma la maggior parte dei lavoratori fatica ancora ad assicurarsi uno stipendio decente che gli permetta di risparmiare per il proprio futuro (una pensione migliore, gli studi dei figli, l'acquisto di una casa). A fronte di questo si assiste ad una incapacità dei governi di far fronte a tali legittime richieste e, da qui, la società si rivolge sempre di più al settore privato e chiede alle aziende di "<i>rispondere a più ampie sfide societali</i>". Infatti</div>
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<br /></div>
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<i>"le aspettative pubbliche della vostra azienda non sono mai state così grandi. <u>Per prosperare nel tempo ogni azienda non deve solo erogare prestazioni finanziarie ma mostrare anche come fornisce un contributo positivo alla società. </u>Le aziende devono fornire benefici a tutti gli stakeholder , inclusi gli azionisti, i dipendenti, i clienti e le comunità in cui operano."</i></div>
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<i><br /></i></div>
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e continua</div>
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<br /></div>
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"<i>Senza un senso di scopo, nessun'azienda, nè pubblica nè privata, può raggiungere il suo pieno potenziale. Alla fine </i><i>dai stakeholder principali </i><i>perderà la licenza ad operare."</i></div>
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<i><br /></i></div>
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Da queste parole emergono due importanti considerazioni. La prima è che la richiesta d'impegno per la comunità è ben più ampia dell'attenzione alle tematiche ESG (Environment, Social, Governance) che va così oggi di moda presso una platea sempre più ampia di investitori. Anzi, diciamola tutta, quest'ultima appare proprio asfittica e riduttiva.</div>
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La seconda è che questo impegno non è un dazio pagato al sociale per "farsi perdonare" il modo di fare business, o peggio una foglia di fico per far contento qualche analista ed entrare in qualche indice specializzato. Al contrario, esso è linfa vitale per la prosperità nel lungo termine del business stesso, dunque va correlato agli affari dell'azienda e non considerato una gentile e liberale concessione sganciata da essi, come spesso viene trattato oggi.</div>
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<br /></div>
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<b>Un nuovo modello per la Corporate Governance</b></div>
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Da questo nuovo scenario tracciato per le aziende, discendono nuove regole di governo per le stesse. In prima battuta vi è la dichiarazione di un sempre maggior impegno a "<i>investire tempo e risorse necessarie per promuovere il valore di lungo termine". </i>E' una dichiarazione importante che mette in luce la necessità di "<i>rafforzare e approfondire la comunicazione tra gli azionisti e l'azienda che posseggono" </i>attraverso "<i>conversazioni durante tutto l'anno" </i>per migliorare il valore a lungo termini, e non solo in occasione delle assemblee o di presentazione di risultati, .</div>
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Anche qui una nota di commento. Il nuovo scenario non consente spazi per fare finanza attraverso "deleghe di giudizio". La "nuova finanza" se vuole davvero supportarlo deve dotarsi di capacità autonome di comprensione del sottostante e non delegare questa importantissima funzione a quelle agenzie di rating sempre più chiacchierate il cui operato sconfina in alcuni casi nel ridicolo dimostrando come la loro autonomia sia solo retorica (a tal proposito consiglio la lettura <a href="https://sites.google.com/site/doccse1/files/17%20longo%20downgrade%20incrociato.pdf?attredirects=0&d=1">dell'articolo del sole24ore di Morya Longo</a> sul tema: l'agenzia di rating cinese Dagong che declassa il debito americano e quella di rating americana Moody's che fa lo stesso con quello cinese!).</div>
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<br /></div>
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Segue, nella lettera, un invito forte e chiaro indirizzato alle aziende</div>
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<br /></div>
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"<i>Dovete essere in grado di descrivere la vostra strategia per la crescita a lungo termine" </i></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
e</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
"<i>...articolare <b>pubblicamente </b>l'impianto strategico dell'impresa per la creazione del valore a lungo termine".</i></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<i><br /></i></div>
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Quindi l'invito ad una corporate governance che sia <i>project -sensitive-and-driven, </i>basata sugli intenti strategici invocati (come suggerimmo al governo inglese nella <a href="https://sites.google.com/site/doccse1/files/CRESCENDO%20Corporate%20Governance%20Response%20ITA%20sintesi.pdf">nostra risposta al suo Green Paper sulla corporate governance</a>) e non <i>project-free, </i>ossia indipendente dai suoi scopi a lungo termine (come se l'impresa fosse una montagna che sta lì da sempre e per sempre ci sarà e che, in un modo o in un altro, farà sempre soldi).</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
Sembra inoltre riascoltare le invocazioni fatte più volte da questo blog, e che hanno trovato forma nel nostro "<a href="http://imprenditorialitaumentata.blogspot.it/p/iv-rapporto-rating-business-plan.html">Rating dei Business Plan</a>", alle quali le aziende, nel nostro caso FTSE MIB e STAR, fanno così tanta difficoltà a prestare attenzione (ovvero a prestare attenzione alla crescita di valore <i>complessivo </i>nel lungo termine). </div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<br /></div>
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Dunque un invito, forte e chiaro, a riposizionare il ruolo dell'azienda al centro dello sviluppo globale, e non solo economico-finanziario, della nostra società. </div>
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L'auspicio è che questi richiami vengano recepiti dalle aziende e si trasformino in un nuovo modo di intendere l'azione dell'impresa.</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
Ne seguirà che, per poter passare alla loro "messa a terra", vi sarà la necessità di strumenti più innovativi e più sofisticati, insieme a processi di loro utilizzo, di quelli oggi disponibili.</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
La strada è segnata, quali e quanti dei nostri "campioni" la percorreranno? </div>
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<br /></div>
<br />lucianohttp://www.blogger.com/profile/00811340593016815703noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1364817022386799794.post-17024174370835560122018-01-13T07:37:00.000+01:002018-01-13T08:09:21.938+01:00Il declino delle borse<div style="text-align: justify;">
<i>Il più grande fondo sovrano del mondo ha annunciato di voler diversificare il suo portafoglio con investimenti in aziende non quotate. Perchè aziende e investitori non trovano più di interesse incontrarsi in borsa?</i><br />
<i><br /></i></div>
<div style="text-align: justify;">
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjdoDFkl1vqX_1zDNge3nPG0EXD1SHaRbVhyphenhyphen5xuBsurMMJHWQCa_GFIZCbVrHonA17PWCOcEkhfx0Xd709FZEBxByhx2Nh2si1f5NXm1m21sGGQG-gIQsofNYu68jdK2mf4qNMxQseK6fM/s1600/nbim.png" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="181" data-original-width="600" height="59" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjdoDFkl1vqX_1zDNge3nPG0EXD1SHaRbVhyphenhyphen5xuBsurMMJHWQCa_GFIZCbVrHonA17PWCOcEkhfx0Xd709FZEBxByhx2Nh2si1f5NXm1m21sGGQG-gIQsofNYu68jdK2mf4qNMxQseK6fM/s200/nbim.png" width="200" /></a></div>
<i><br /></i></div>
<div style="text-align: justify;">
L'<a href="https://www.ft.com/content/98cb11d0-f5e9-11e7-88f7-5465a6ce1a00">ultima notizia </a>sul tema delle borse arriva dalla Norvegia: Norge Bank Investment Management (NBIM), che gestisce il fondo alimentato dai proventi petroliferi e che ammonta a 1.100 miliardi di dollari, ha fatto richiesta al Ministero delle Finanze Norvegese, da cui dipende, di poter iniziare ad investire anche in aziende non quotate in borsa. Al momento il fondo possiede percentuali di azioni non superiori al 10% di ogni principale azienda quotata al mondo, con una media di possesso del 1,5%. </div>
<div style="text-align: justify;">
Le motivazioni addotte per tale scelta sono: la scarsa partecipazione di aziende tecnologiche ai listini, che li condannano a non rappresentare la maggior parte del mercato, l'assottigliarsi dei listini stessi e ultimo, ma non meno importante, i ritorni delle aziende non quotate che sono leggermente più alti di quelle quotate.</div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<a name='more'></a><br />
<div style="text-align: justify;">
Che le borse in USA e UK, che sono le piazze principali, non siano più così attraenti come in passato è evidente da tempo. Oltreoceano i listini si sono dimezzati nei passati 15 anni. Analoga sorta è toccata a quelli anglosassoni, tanto che in una <a href="https://www.gov.uk/government/uploads/system/uploads/attachment_data/file/640631/corporate-governance-reform-government-response.pdf">consultazione sulla corporate governance</a> lanciata dal governo inglese l'anno scorso, si avanzava l'ipotesi di estendere gli obblighi delle quotate anche alle non quotate, vista la crescente scarsità delle prime.</div>
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Un ulteriore segno di questo declino è la <a href="https://www.wsj.com/articles/trading-firm-drw-to-buy-high-frequency-trader-rgm-1502891004?mod=itp&mod=djemITP_h">crisi delle società di "flash trading"</a>, ovvero quelle che praticano il trading ad altissima frequenza (millisecondi o meno: High Frequency Trading, HFT). La scarsità dei titoli, e la loro bassa volatilità, non consente più di portare a casa i guadagni di una volta. Anche l'ingresso dell'intelligenza artificiale nei listini ne è un segno. Per quanto "intelligente" questo software, perchè è bene ricordare che sempre di software si tratta, deve essere programmato. Tale programmazione è fattibile a fronte di scenari prevedibili e ristretti.</div>
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C'è poi da citare il comportamento delle aziende, sopratutto tecnologiche. Queste non hanno davvero bisogno dei soldi di un'IPO per svilupparsi (per chi ne volesse avere conferma si vada a leggere la parte "uso dei proventi" del <a href="http://www.sec.gov/Archives/edgar/data/1326801%20/000119312512034517/d287954ds1.htm.">prospetto informativo dell'IPO di Facebook</a>!), ma solo di rendere "commerciabili" le azioni in possesso ai primi investitori e dare un valore alle stock option date ai dipendenti. Inoltre le azioni disponibili sul mercato possono essere acquistate da chiunque, in particolare da aggressivissimi hedge fund (gli <i>activist</i>) che arrivati ad una certa percentuale impongono la loro linea di sviluppo, spesso in contrasto con quella degli altri share e stakeholder e finalizzata solo a massimizzare il loro ritorno (in Italia ne abbiamo un primo caso con l'affare Vivendi-Mediaset-Telecom con Bollorè nel ruolo di activist). Le aziende allora cercano di proteggersi riservando azioni per i fondatori con più diritto di voto per azione (è il caso di Facebook, Google, e tante altre dove i fondatori con meno del 15% di azioni hanno il potere di voto per oltre il 50%) fino al paradosso della quotazione di Snapchat che offrì in occasione della sua IPO azioni senza diritto di voto!</div>
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Che senso ha essere proprietari di un'azienda senza contare nulla?</div>
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Ultimo, ma non meno importante, la borsa sembra affetta da un "virus" che infetta, in maniera circolare con un diabolico meccanismo di autoalimentazione, sia le aziende che gli investitori: lo <i>short termism</i>. Si tratta dell'interesse a breve termine che spinge le aziende a concentrarsi sui ritorni a breve a scapito di investimenti ed esecuzione di piani di sviluppo a lungo termine. Anche se sofferti e denunciati sia dalle aziende, che sono impossibilitate ad eseguire i loro piani, che dagli investitori, sopratutto quelli istituzionali che temono la perdita di valore in futuro, il fenomeno è una vera pandemia. Provate a leggere le dichiarazioni dei nostri CEO dell'indice FTSE MIB in occasione delle chiusure dei risultati annuali e la presentazione dei piani futuri. La prima affermazione riguarderà la <i>remunerazione degli azionisti !</i></div>
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Dunque il "mercato borsistico" sembra non essere più adeguato all'incontro tra finanza ed economia reale come in passato. Tale incontro avviene sempre più spesso in sede "privata" con ingaggi diretti che hanno il vantaggio di una più serena e consapevole collaborazione, a tutela di entrambe le parti. </div>
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Collaborazione "serena e consapevole" ha le sue fondamenta nella completa comprensione del piano di sviluppo dell'azienda, della sua <i>strategia</i>, perchè chiunque prima di dare i soldi a qualcuno vuole sapere questo qualcuno cosa ne farà, unica garanzia per vederseli non sono restituiti ma anche moltiplicati.<br />
L'argomento però è totalmente ignorato da tutti. In primis dalle regolamentazioni delle autorità finanziarie (basta guardare in casa nostra le documentazioni richieste da Consob per un IPO e per la continuazione delle contrattazioni) e dei proprietari delle piazze borsistiche (idem per Borsa Italiana). Poi dalle stesse aziende che non sono in grado di esprimere in maniera compiuta e pubblica le loro intenzioni. Per ultimo anche gli investitori non sono in grado di farne richiesta circostanziata e precisa, minacciando nel caso il ritiro del loro appoggio. Infatti si affidano ancora a pratiche desuete di valutazione figlie dell'economia del secolo scorso che non esiste più.<br />
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Un ritorno al senso originale dell'incontro tra domande e offerta di proprietà azionaria deve allora recuperare questa dimensione strategica, fortemente richiesta da chi investe e chi riceve gli investimenti, stimolandola e rappresentandola correttamente. In difetto non accadrà nulla di male: la borsa, come la conosciamo oggi, lentamente si spegnerà lasciando il posto a modalità più innovative di investimento.</div>
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Come quelle che i norvegesi stanno iniziando a cercare.</div>
lucianohttp://www.blogger.com/profile/00811340593016815703noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1364817022386799794.post-58281655600677652462018-01-08T09:06:00.004+01:002018-01-08T09:09:56.380+01:00Una montagna di debiti<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjEJ5Ddp1fvAM73MjHUU-9qH_dRw8N-NV4ZtYJj4l-6KzHiDI8Abh7pgORg8MXCUPJ4i7M9m96_d-WOMgVJn9qad2A8lalsTB2jsn5rxEKxKb0VNB9jFvwMmBn0_5nVbTA0Te1S3Uryzzc/s1600/debiti.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="571" data-original-width="527" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjEJ5Ddp1fvAM73MjHUU-9qH_dRw8N-NV4ZtYJj4l-6KzHiDI8Abh7pgORg8MXCUPJ4i7M9m96_d-WOMgVJn9qad2A8lalsTB2jsn5rxEKxKb0VNB9jFvwMmBn0_5nVbTA0Te1S3Uryzzc/s200/debiti.jpg" width="184" /></a></div>
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<i>Il debito mondiale è cresciuto in maniera spropositata negli ultimi anni. Se da un lato questo è servito a farci uscire dalla crisi, dall'altro costituisce un fardello per il futuro. Esiste un criterio per distinguere un debito "buono" da uno "cattivo"?</i></div>
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I dati parlano chiaro. Come riporta il <a href="http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2018-01-06/il-mondo-sotto-montagna-233mila-miliardi-debiti-210755.shtml?uuid=AEq1n0cD">sole24ore</a>, siamo oppressi da una montagna di 233mila miliardi di dollari dei quali ben 163mila (70%) creati a partire dal 1997. I debiti, si sa, vanno rimborsati in futuro e se è vero che, come riporta l'articolo, </div>
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"<i>L’economia mondiale nel suo insieme ha beneficiato di un effetto 'moltiplicatore' dato che il debito creato negli ultimi mesi ha generato crescita (Pil) in misura più che proporzionale</i>" </div>
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è anche vero che</div>
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"<i>La montagna di debito su cui poggia l’attuale ciclo di espansione economica... rende il sistema meno efficiente perché mantiene in vita tutti i debitori fragili i quali, non avendo di che preoccuparsi per il rimborso dei loro debiti, possono permettersi di mantenere la loro struttura inefficiente. E vulnerabile."</i></div>
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<i><br /></i></div>
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Quindi non è detto che questi debitori saranno in grado di restituire il debito.</div>
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Perchè allora mantenerli in vita?</div>
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Il debito appare erroneamente a molte aziende, stati e famiglie come la soluzione di tanti problemi, ma ha un piccolo difetto: deve essere rimborsato. Ciò è possibile solo se in futuro si generano le risorse necessarie per pagare gli interessi e il capitale altrimenti diventa insostenibile. </div>
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Dunque un debito è "buono" se contribuisce a far crescere le risorse del debitore, in tutti gli altri casi è "cattivo".</div>
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Purtroppo chi fornisce risorse a debito, i creditori a vario titolo, non sembrano avere il minimo interesse nel verificare la bontà, da questo punto di vista, del credito concesso. Che il debitore alla fine del "ciclo" del debito, ovvero dopo aver pagato il capitale e gli interessi, stia meglio o peggio di prima non frega proprio niente a nessuno, come dimostrano le cifre di cui sopra. E' come se la finanza che fornisce debito fosse un venditore di morfina: che serva a superare i dolori post operatori, e dunque a star meglio prima, o affrontare uno stato di malessere psicologico, che farà stare peggio, non è di loro interesse. L'importante è che il soggetto abbia le capacità di pagarsela.</div>
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E oggi che si parla tanto di finanza "sostenibile" in termini di ESG (Environmental, Social, Governance), è davvero paradossale che non ci si preoccupi prioritariamente di questo aspetto che tanti danni può portare all' "ecosistema" di business (ad esempio in caso di fallimento di un debitore azienda vi saranno licenziamenti, danni ai fornitori e clienti, sofferenze bancarie, ecc.).</div>
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Il vero debito <i>buono </i>è quello che serve a finanziare un progetto di q<i>ualità </i>che abbia lo scopo di aumentare le risorse del debitore, una volta realizzato. Purtroppo ad oggi non esiste, da parte del mondo finanziario (banche comprese), nè l'attenzione a questo dimensione (la qualità dei progetti) nè le capacità e gli strumenti per valutarli . </div>
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Allora il primo passo è quello di partire da qui: debito sì, ma per farci cosa?</div>
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E, successivamente, come si fa a valutare la qualità di questo "cosa"?</div>
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<br />lucianohttp://www.blogger.com/profile/00811340593016815703noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1364817022386799794.post-84238797639144723392017-12-21T11:23:00.000+01:002017-12-21T11:27:13.975+01:00Commissione banche: problemi risolti?<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh2SjEfVkCn_TPnoK1y-UhrTCaJeWvqY9ALLV0u-GsuO59xzIAw_is4V9x7lc0N0aAF0iJcvPH2rno5SgHruY36xQZP7GMirbj_NZrBGajFOM8AUMCiNfY9termfPEReMmJ8-5cr44Ousw/s1600/commissione-inchiesta-banche-675.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="275" data-original-width="675" height="81" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh2SjEfVkCn_TPnoK1y-UhrTCaJeWvqY9ALLV0u-GsuO59xzIAw_is4V9x7lc0N0aAF0iJcvPH2rno5SgHruY36xQZP7GMirbj_NZrBGajFOM8AUMCiNfY9termfPEReMmJ8-5cr44Ousw/s200/commissione-inchiesta-banche-675.jpg" width="200" /></a></div>
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<br /></div>
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<i>La "Commissione Parlamentare di Inchiesta sul Sistema Bancario e Finanziario" ha di fatto chiuso i suoi lavori. Cosa ha partorito? Che beneficio ne avrà in futuro il sistema bancario e finanziario?</i></div>
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<i><br /></i></div>
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La Commissione era nata sotto i migliori auspici. Infatti il suo compito era, come si legge dal <a href="http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-09-21/banche-commissione-inchiesta-completo-convocazione-27-settembre-165146.shtml?uuid=AEx06PXC">sole24ore del 21 settembre scorso</a>:</div>
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"<i>Sono sei i fronti di approfondimento sulle crisi bancarie: dalle modalità di «raccolta della provvista e gli strumenti utilizzati» ai criteri di «remunerazione dei manager». Si analizzerà anche la correttezza del collocamento al pubblico retail dei prodotti finanziari ad alto rischio. E si indagherà sulle forme di erogazione del credito ai <b>clienti di particolare rilievo</b>. Focus, poi, sulla struttura dei costi, la ristrutturazione del modello gestionale e la politica di aggregazione e fusione delle banche prese in esame nonché «l'osservanza degli obblighi di diligenza, trasparenza e correttezza nell'allocazione di prodotti finanziari, e degli obblighi di corretta informazione agli investitori». Ma oggetto dell'inchiesta sarà anche <b>l'attività svolta dalla Vigilanza</b>, e da questo punto di vista Bankitalia ha già assicurato piena collaborazione"</i></div>
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<i><br /></i></div>
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Incoraggiati da questa dichiarazioni di intenti, avevamo indirizzato a tutti i membri della commissione una <a href="https://sites.google.com/site/doccse1/files/ExpoConoscenza%20lettera%20aperta%20banche.pdf?attredirects=0&d=1">lettera aperta </a>a firma del collega, e partner di CSE Crescendo, Francesco Zanotti, che invitava la commissione ad indagare e indirizzare il tema delle "risorse cognitive" mancanti nel sistema bancario e finanziario per un corretto sostegno allo sviluppo complessivo economico e sociale.</div>
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<br /></div>
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Purtroppo sappiamo che la montagna ha partorito un topolino, come abbiamo letto in questi mesi dai giornali e come oggi <a href="https://sites.google.com/site/doccse1/files/Il%20Foglio%20articolo%20commissione%20banche%2021%20dic%202017.pdf?attredirects=0&d=1">"Il Foglio" in suo articolo</a> brillantemente riassume intervistando anche lo stesso Francesco Zanotti: oltre il gossip e la ricerca dei mostri da sbattere in prima pagina non si è andati.</div>
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<br /></div>
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Si è persa un'occasione storica considerando che, come il Prof. Onado ha testualmente affermato nel suo libro "<a href="https://www.libreriauniversitaria.it/ricerca-banca-perduta-onado-marco/libro/9788815270665?gclid=CjwKCAiA1O3RBRBHEiwAq5fD_GMJI_O5Qezlb8SS2C-mOXmn2uo-AjNtO-JdovzfNASbishLawXmRBoCA28QAvD_BwE">Alla ricerca della banca perduta</a>":</div>
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<br /></div>
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"<i>...i guai delle banche italiane di oggi non sono un meteorite piovuto dal mondo lontano di una crisi provocata dai geni malvagi della finanza globale: sono la conseguenza di un modello di sviluppo che non poteva che peggiorare gravemente con la crisi globale."</i></div>
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<i><br /></i></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
Tale modello di sviluppo da correggere non è stato identificato e, di conseguenza, non ne è stato indicato un altro. Perchè?</div>
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<br /></div>
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La causa allora è certamente proprio quella mancanza di "risorse cognitive" alle quali fa riferimento Zanotti, supportato, in questa tesi, anche dall'autorevole Martin Wolf, editorialista economica del Financial Times, che nel suo libro "<a href="https://www.amazon.com/Shifts-Shocks-Learned-Learn-Financial/dp/0143127632">The Shifts and the Shocks: What We've Learned--and Have Still to Learn</a>" scriveva già nel 2004, con sintesi brillante a proposito delle politiche di sviluppo e profetizzando ciò che poi è avvenuto nella commissione:</div>
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<br /></div>
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"<i>I regolatori, i politici e gli economisti che le ispiravano erano o inconsapevoli dei pericoli effettivi o non disposti ad affrontarli, in parte perchè sensibili agli interessi dei soggetti regolati, in parte perchè intimiditi o sedotti dalla nuova finanza, ma sopratutto perchè erano tutti vittime degli stessi <b>errori cognitivi</b>."</i></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<i><br /></i></div>
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Quando si rimedierà a tali errori con nuove "risorse"? </div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
Noi siamo pronti alla proposta.</div>
<br />lucianohttp://www.blogger.com/profile/00811340593016815703noreply@blogger.com0