Il Drucker Institute ha reso pubblica una nuova classifica aziendale per indirizzare l'annoso tema dello 'short termism'. Pur lodevole negli intenti, riuscirà a dar conto delle caratteristiche di un'azienda che "fa bene le cose giuste" nel lungo termine?
Il Wall Street Journal ha recentemente pubblicato la classifica "Management Top 250". Si tratta dell'ennesimo tentativo di valutare la capacità delle imprese di concentrarsi sullo sviluppo di lungo termine e combattere la piaga dell'attenzione agli obiettivi di breve periodo (short-termism) sopratutto profitti trimestrali e performance azionarie, in alcuni casi addirittura su base settimanale.
La classifica è stata stilata tenendo in considerazione 37 indicatori che ricadono in 5 dimensioni: customer satisfaction, employee engagement and development, innovation, social responsibility e financial strength. I dati sono stati raccolti da una dozzina di fornitori: da Bloomberg ad American Customer Satisfaction Index.
Inoltre l'istituto segue la volontà del suo fondatore di fornire un approccio olistico al business che, quando iniziò i suoi lavori nei primi anni 40, si trovava di fronte a tante specializzazioni ma nessuna vista d'insieme del business ("mi veniva in mente un libro di anatomia umana che parlava di articolazioni, ad esempio il gomito, senza neanche menzionare le braccia, lasciando solo muscolatura e scheletro" ricordava Drucker agli albori della sua attività).
Il riferimento è chiaro: si tenta di descrivere il business con pochi elementi senza cogliere l'insieme della realtà aziendale e questa classifica vuole essere, nelle intenzioni degli autori, il tentativo, in un mondo di specialisti, di fornire un atlante completo del corpo umano.
Peccato però che l'approccio metodologico continua ad essere quello dei primi studi di Drucker più di 60 anni fa ignorando che, da questo punto di vista, vi sono stati degli importanti progressi epistemologici, ovvero di come creare conoscenza.
Il primo difetto della classifica risiede nella ricerca di indicazioni future nelle prestazioni passate. I 37 indicatori dicono cosa ha fatto l'azienda e si pensa che ciò sia sufficiente, per estrapolazione, a ricavare cosa farà. Ma in un sistema articolato, complesso e "vivente" come un'impresa ciò non è affatto vero. Certo è un punto di partenza, ma non abbastanza per dire come l'impresa si evolverà in futuro.
Il secondo risiede nella scelta degli indicatori che sono definiti, per quanto precisamente, da osservatori esterni all'azienda, dunque sono loro costruzioni. Perchè quelli e non altri? Perchè quelli misurati in quel modo (e "misurati" come?) e non in maniera diversa? Nulla di oggettivo dunque, solo soggettività che non si capisce perchè debbano essere migliori di altre.
Il modo migliore per comprendere lo sviluppo futuro di un sistema sociale come l'azienda (long-termism) è valutare le sue intenzioni di comportamento, cosa vorrà fare. Un giudizio di qualità di questa descrizione autonoma, solo il soggetto sa cosa vorrà e si sentirà in grado di fare non un osservatore esterno, potrà essere fatta sulla completezza della descrizione dei suoi comportamenti futuri e sulle ambizioni in essa contenute.
Accogliendo allora questo diverso paradigma, l'unica valutazione possibile è una misura della completezza del proprio progetto di sviluppo (contenuto, come al solito, in un Business Plan) e un giudizio sugli indirizzi strategici (Rating del Business Plan).
Qualcosa di molto diverso rispetto all'andare a misurare da fuori ciò che non misurabile con la certezza di valutare solo la propria opinione.
Ecco allora che si apre un nuovo territorio di indagine con modalità e necessità di strumenti totalmente nuovi.
Chi se ne sta occupando?
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