"Se gli uomini non nutrono un ideale in un mondo migliore perdono qualcosa.
L'umanità non potrebbe funzionare senza le grandi speranze, le passioni assolute."
Eric J. Hobsbawm

domenica 11 agosto 2019

In risposta a "Is the era of management over?" (1)

di
Luciano Martinoli
luciano.martinoli@gmail.com


Da tempo, e con sempre maggior frequenza, compaiono da varie fonti proposte di radicali cambiamenti nelle organizzazioni aziendali e critiche, se non veri e propri attacchi, agli attuali assetti e pratiche di gestione. Premetto che sono d'accordo con la volontà di mettere in discussione sempre e comunque lo status quo, di qualsiasi cosa si stia parlando, in quanto è l'unica modalità per consentire miglioramenti. Nel caso specifico però ritengo che le numerose critiche si limitino agli aspetti superficiali e confondino i mezzi con i fini laddove questi sembrano essere totalmente sconosciuti. Un recente documento apparso sul sito del World Economic Forum dal titolo Is the management Era Over? rappresenta una buona sintesi di queste critiche, soprattutto la figura qui sopra riportata. Questo mio post vuole essere il primo di una serie di risposte col modesto tentativo di dare un contributo nel fare chiarezza sull'argomento.

From "Profit" to "Purpose"
Il profitto è comunemente inteso come la rimanenza positiva tra i ricavi e i costi che costituirà la base per la tassazione e consentirà la remunerazione degli azionisti e/o futuri investimenti. L'idea che le aziende debbano giustificare la loro esistenza per generare profitto, e in particolare remunerare gli azionisti, è relativamente recente. La si può datare verso gli inizi degli anni 80 del secolo scorso, in un preciso contesto storico degli USA. Da un punto di vista sociologico però, perchè l'azienda è anche un sistema sociale, il perseguimento del profitto è uno "scopo" il quale ha la funzione di mobilitare un'organizzazione, indossare una sorta di paraocchi che gli consenta di guardare in una direzione e non un'altra evitando di disperdersi in mille direzioni e scongiurando un blocco da indecisione. Il "profitto come scopo" indica anche un cambiamento epocale nel bilanciamento dei poteri dei portatori di interessi: la prevalenza degli shareholder, gli azionisti, rispetto a tutti quanti gli altri (dipendenti, clienti, fornitori, ecc.). 
Ben venga dunque un cambio di scopo per le aziende ma, considerando gli assetti di potere che comporta (gli azionisti sono formalmente i proprietari dell'azienda e mal tollerano qualsiasi intromissione nei loro affari), dubito che possa essere fatto all'interno dell'azienda e ancor meno con un tratto di penna. Anche se alcuni investitori illuminati chiedono da tempo questo cambiamento, la loro rimane una vox clamantis in deserto, buona per qualche articolo stampa del momento e nulla più. Ancora nessun dibattito sociale è decollato sull'argomento e, se questo volesse davvero portare ad un reale cambiamento degli attuali assetti, dovrebbe coinvolgere tutti i sistemi sociali e non solo le aziende (politica, finanza, economia, università, ambiente, ecc.).
Tornando però allo stato attuale il "profit" oggi è travestito da "purpose". Infatti nessun cliente acquisterebbe un prodotto o servizio di un'azienda esclusivamente per arricchirne i proprietari. Inoltre sarebbe molto poco motivante per le persone che ci lavorano. Il purpose allora esiste già nelle aziende ma è funzione del profit ovvero purpose come mezzo per ottenere più profit. Questa relazione è talmente radicata nella testa di tutti che temo solo un collasso del sistema possa metterla in discussione (disastro ambientale su scala globale, rivolta di tutti gli stakeholder e coinvolgimento della politica, blocco degli acquisti, ecc.).
Invocarla soltanto come mero desiderio di "un mondo migliore" (migliore per chi?) senza una più precisa e articolata proposta di convergenza di interessi è un'ingenua invocazione destinata a rimanere senza conseguenze.

From "Hierarchies" to "Networks"
Spesso le gerarchie sono presentate come un obsoleto e inefficiente retaggio del passato e un ostacolo all'adattamento dell'azienda ad un ambiente volatile, incerto, complesso e ambiguo (VUCA dall'inglese volatility, uncertainty, complexity, ambiguity). Le gerarchie sono dunque spesso presentate come un "ordine" figlie di un momento storico che non esiste più.
Di fatto, e da un punto di vista sistemico, le gerarchie assolvono a delle funzioni essenziali, e meno intuitive, per l'organizzazione. Eccone alcune:
  • L'ordinamento dei fini e mezzi organizzativi.
    Per raggiungere uno scopo, che abbiamo visto essere necessario per muovere l'organizzazione, vi è bisogno della definizione dei mezzi e della suddivisione dello scopo in sotto-obiettivi laddove questo sia troppo ampio. Le gerarchie consentono questa suddivisione e distribuzione di compiti ai vari livelli con conflitti minimi in quanto l'accettazione della gerarchia è condizione di appartenenza all'organizzazione. Come potrebbero realizzare questi compiti le reti?
  • Processo di potere duale.
    Le gerarchie sono molto meno controllanti di quel che sembra e il potere all'interno di esse è distribuito, anche se in modo diseguale. I vertici infatti hanno la possibilità di sorvegliare l'organizzazione ma i sottoposti hanno un analogo potere di "sottoveglianza". Decisioni complesse implicano la necessità di raccolta ed elaborazione delle informazioni laddove si creano ovvero ai livelli più bassi dell'organizzazione, quelli a contatto col mondo esterno (clienti, fornitori, ecc.). Questi livelli hanno dunque l'enorme potere di condizionare le scelte che faranno i vertici presentando alcune informazioni e non altre, esprimendo pareri laddove richiesti, omettendo dettagli ritenuti inessenziali, a torto o a ragione, che potrebbero essere importanti, eccetera. Dunque le gerarchie sono meno gerarchiche di quanto appaiano. Come le reti riuscirebbero a realizzare una analoga distribuzione di potere funzionale a queste esigenze organizzative?
  • L'imposizione del cambiamento
    Di fianco agli attacchi alle gerarchie, prospera la retorica del "cambiamento" inteso come necessità di sopravvivenza in un ambiente VUCA (vedi sopra). Tali cambiamenti, per poter funzionare, sono sempre progettati e invocati come imposizioni. Queste imposizioni risultano più facili in strutture gerarchiche in quanto la loro accettazione da parte dei singoli è condizione di appartenenza. In che modo le reti, o le organizzazioni poco gerarchiche, riescono a realizzare cambiamenti coerenti con quanto prima evidenziato?
Mi fermo qui per non annoiare e tengo a precisare, ancora una volta, che non sono un sostentore dello status quo ma un promotore di approcci meno superficiali e più informati.

Chiudo questo mio primo commento con l'invito a leggere una recente indagine del Wall Street Journal sul clima organizzativo all'interno di Netflix, citata dall'articolo del World Economic Forum come esempio di "nuova organizzazione".
Si parla di "cultura della paura", di manager che "licenziano o sono licenziati", di "errori evidenziati in stile nord coreano" e altro. Un rassegna delle peggiori pratiche del management della prima era industriale. 

Se l'era del management è finita, al momento pare lo sia solo negli articoli e nei post dei consulenti. Che il management debba evolversi è indubbio ma su basi più informate e rigorose dei semplici desideri di chi vorrebbe fatturare servizi diversi alle aziende clienti.

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