di
Luciano Martinoli
Il dibattito pubblico sull’economia e sulle imprese è inficiato da miopia e contraddizioni che ne falsano il contenuto e ne rendono inefficaci le conclusioni. Ad esempio si prescinde sempre dalla capacità e volontà dei singoli soggetti: le imprese.
Mi avventuro in una breve e semplice analisi di alcune affermazioni contenute in un recente articolo apparso sul sole24ore a proposito di “elite” e di trasformazioni di “sistema”. Il tema che desidero analizzare parte dalla constatazione riguardante la polarizzazione 20-80, con il 20% delle imprese che produce l’80% della ricchezza e dell’export e non riesce ad “assumere la leadership della nostra economia”. Che significa? Che questo 20% di aziende dovrebbero acquisire le altre? Che dovrebbero salire in cattedra e “insegnare” alle altre come fare bene?
Temo che tale affermazione sia figlia di una visione distorta e semplicistica dell’economia, intesa come sistema sociale composto da attori economici, vista invece come un soggetto che è possibile governare in maniera eterodiretta laddove, invece, l’evidenza anche di paesi più avanzati, suggerisce un altro scenario: un sistema fatto di una moltitudine di entità, le aziende, che si muovono ognuno seguendo i proprio progetti . E’ la somma dei loro comportamenti che determina le prestazioni globali. Non c’è ‘vertice’, né cabina di comando. Tale sistema reagisce in modo imprevedibile e discontinuo all’ambiente di business circostante. La “leadership dell’economia”, nostra o di un qualsiasi altro paese, non esiste.
Certamente poi vi è bisogno, come l’articolo invita a fare, di interrogarsi e migliorare le condizioni della giustizia, del costo dell’energia, ecc. ma evidentemente le influenze esterne alle aziende possono essere condizioni necessarie ma non sufficienti al loro sviluppo. Prova ne sia che le condizioni socio-economiche italiane non determinano prestazioni negative per tutte le aziende, infatti il 20% trova il modo di prosperare comunque.
Si passa poi a considerazioni di carattere politico sui benefici, effimeri, che recenti incentivazioni hanno prodotto nel tessuto delle manifattura nostrana lamentando che “…non hanno attivato alcun processo di cambiamento della sua natura. Non hanno provocato processi di crescita…tutto questo non è diventato un metodo e non si è trasformato in una metamorfosi sistemica.”
Ma perché avrebbero dovuto esserlo? Ancora una volta si pensa che interventi esterni all’impresa possano determinarne le traiettorie di sviluppo indipendentemente dalle sue capacità e volontà interne. E poi, quali sono le motivazioni, economiche, sistemiche, scientifiche o anche di buon senso, secondo le quali i soli interventi finanziari sulle aziende possano essere “metodi di cambiamento” per le stesse?
Con esplosiva contraddizione si passa poi, obbligatoriamente secondo l’autore, a “fare una valutazione sul tema della tassazione finale dei risultati d’impresa e sul più generale livello del cuneo fiscale”. Ma se lui stesso poco prima ha affermato che i soldi erogati dallo Stato non sono stati sufficienti a rendere l’80% delle imprese brave come il restante 20%, come fanno altri soldi a raggiungere il risultato?
Non è mia intenzione entrare in polemica con un bravo giornalista che certamente ha avuto le sue ragioni, mediatiche, per sostenere le tesi che ha esposto. Il mio vuole essere solo l’ennesimo richiamo a lanciare lo sguardo, e aprire il conseguente e necessario dibattito totalmente assente, sulla dimensione “strategica” delle imprese, le loro capacità e volontà di comportamento futuro, le loro ambizioni di quel “cambiamento della loro natura” che pure è stato invocato nell’articolo. Insomma il “metodo” evocato è di natura molto diversa dagli interventi finanziari pretesi a gran voce da tutti e che monopolizzano il dibattito mediatico e gli interventi governativi.
Sono le imprese dal loro interno che devono cambiare e in questo vanno valutate e nel caso aiutate. Il “metodo” va ricercato e applicato in quest’area: nessuno cambia se non vuole progettare il cambiamento perché non vede o non può perché non ne ha più voglia. Pensare di ottenerlo con interventi esterni, incentivi, facilitazioni, ecc., è equivalente a voler fare i conti senza l'oste.
Le volontà e le capacità dei singoli soggetti, le imprese, resta però argomento tabù, confinato nelle teste degli imprenditori o dentro le mura delle imprese. Ma così facendo non potremmo far altro che constatare solo ex-post le basse percentuali di aziende eccellenti e le elevate quantità di soldi pubblici che non generano i benefici sperati .
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