di
Luciano Martinoli
Si continua a parlare di abbandonare la modalità 'comando e controllo' per gestire le organizzazioni al fine di liberare creatività e conoscenza. Ma il dibattito poi si arena sul come fare. Una proposta da una prospettiva diversa.
E’ da qualche decennio che le riviste e i guru specializzati in management, strategia, gestione HR, ecc. auspicano, con voce sempre più grossa, il declino della pratica del “bastone e la carota” nella gestione delle aziende per favorire una maggiore responsabilizzazione di tutti i suoi dipendenti.
La rivista della London Business School (LBS), in un articolo dal titolo esplicito (“Reinventing Management”), afferma che “l’enfasi dominante nelle organizzazioni su strategia, strutture e sistemi soffoca le persone”. Conseguentemente auspica uno spostamento verso “scopo, persone e processi in modo che le aziende abilitino ciascun individuo a contribuire significativamente usando le loro conoscenze e la loro creatività”.
Gli fa eco un altro articolo, questa volta su Harvard Business Review, che ricorda, in modo molto appropriato, che i leader “sono incoraggiati ad utilizzare il bastone e la carota come strumenti motivazionali, dove il primo è il premio per l’obbedienza alle direttive la seconda la punizione per il contrario. Ma quando l’unico compito di un leader diventa l’obbedienza, quando cercherà di costringere gli altri a fare qualcos’altro, l’unico ad essere motivato sarà solo lui.”
Ma perché preoccuparsi tanto delle persone? E’ una questione di etica o vi sono motivazioni di business?
E’ lo stesso articolo LBS che lo esplicita chiaramente “è semplicemente impossibile per qualsiasi manager controllare la conoscenza tecnica dei dipendenti i quali hanno il loro personale potere che deriva dalla loro esperienza di conoscenza… il business oggi è nell’avere conoscenza e creatività piuttosto che controllare risorse.”
Bene, chiarito il profondo, e concretissimo, motivo di business per abbondonare bastone e carota, cosa si fa? In cosa consiste praticamente, e altrettanto concretamente, il ruolo di un manager in un’azienda nella “quale conoscenza e creatività” sono più importanti del “controllo delle risorse”?
Qui purtroppo casca l’asino!
Nei due articoli citati, ma anche nell’abbondantissima letteratura sull’argomento, vi sono suggerimenti generici (es. riconoscere i contributi e mostrare apprezzamento), dichiarazioni retoriche (sentirsi bene nel proprio lavoro), esempi di pratiche di successo che però hanno funzionato in un luogo e in una circostanza specifici cadendo successivamente nell’oblio causa impossibilità di essere replicate dovunque e sempre.
La causa di tutto ciò è da ricercarsi nell’assenza di un paradigma di riferimento, un “modello”, rispetto al quale studiare nuove pratiche. In assenza è naturale rifarsi, in maniera più o meno implicita, sempre al bastone e la carota (o al comando e controllo). Come si fa a percepire il valore del proprio contributo se poi questo è mediato dalle decisioni dall’alto (proprio manager, direzione, ecc.) che presuppone se stesso sempre onnisciente e su questa presunzione decide di accoglierlo o no secondo il suo capriccio?
Come si fa a sentirsi bene sul lavoro se il contributo di creatività e conoscenza profuso non viene considerato, per quanto concerne e compete, nella progettazione dello sviluppo aziendale?
Il punto centrale per affrontare il problema è considerare che non è possibile “essere motivati” o “liberare creatività” in maniera disgiunta dall’oggetto specifico di queste attività in azienda: il lavoro da svolgere. Sarebbe come cercare di imparare a ballare senza musica o ad andare in bicicletta da fermi: pura teoria.
Ogni lavoratore già progetta tutti i giorni il proprio lavoro, si interroga su come farlo meglio, come soddisfare chi sta a valle e cosa richiedere a chi sta a monte della sua attività. Purtroppo lo fa in solitario, senza condividere nulla, o molto poco, con il contesto in cui opera. Anche chi è chiamato a guidare l’organizzazione fa lo stesso, ma prescinde da cosa accade “sotto”, dandolo per scontato, immobile e rifacendosi ad una sua immagine spesso obsoleta, progettando un suo disegno di sviluppo che poi pretende venga eseguito (e da cui scaturisce la necessità del bastone e la carota). Da qui vengono generati comportamenti onesti, che al loro volta possono essere fruttuosi per chi ne vede la fattibilità ma anche perniciosi per chi si sforza di renderli operativi anche a fronte di evidenti discordanze con la realtà. Ma si generano anche resistenze sincere, a fronte di evidenti inapplicabilità, o psicologiche, semplicemente perché si è ignorato il proprio fattivo contributo.
Tutte cose di cui si è parlato, e si è visto, tanto.
Quale è allora la dimensione da considerare e la strada da percorrere?
La progettazione partecipata dello sviluppo dell’impresa (progettazione strategica) intesa come reale attività diffusa a partire dall'ambito di competenza del singolo che, come è già stato detto, è noto solo a lui.
Non è utopia ed è l’unica percorribile. Essa costituisce lo strumento per realizzare quanto auspicato da anni, ma non solo. E’ la vera pratica innovativa di management, che così facendo ne ridefinisce il ruolo in maniera sostanziale, e costituisce la piattaforma di governance per le aziende (come abbiamo suggerito in una interrogazione pubblica (Green Paper) del governo inglese sull’argomento).
Abbiamo una proposta, ne vogliamo parlare?
L’alternativa è il solito bastone e carota, come i muli…
Nessun commento:
Posta un commento