Si è appena concluso il secondo salone SRI (Social Responsible Investor) sulla finanza etica e sostenibile. La sensazione è che se il settore non si adopererà per far sì che questi temi penetrino anche nella "carne" dell'economia reale, il tutto rimarrà confinato ad un gioco della finanza con qualche fastidioso ma innocuo adempimento in più per le aziende.
La finanza etica è quel comparto della finanza, in crescita, che vuole sostenere quelle attività dell'economia reale che rispettano parametri di sviluppo considerati "equi e sostenibili". Recentemente, per dare maggiore concretezza al settore, è stato anche definito un framework di riferimento: Environmental, Social, Governance (ESG), ben illustrato nella guida edita dalla Borsa di Londra. Essa indica le tre principali aree per definire il comportamento di un'azienda "sostenibile", ovvero il suo impegno per il rispetto dell'ambiente della natura, quello sociale e le caratteristiche di governance che si è data per ottenere tutto questo. Inoltre tali temi vengono sempre più considerati come indicatori ulteriori di performance per il lungo periodo delle imprese quotate.
Purtroppo però tale approccio riduzionistico, che cerca di identificare singoli aspetti peculiari, non può funzionare. Infatti anche se presi singolarmente come soddisfacenti, non colgono la reale capacità e intenzione di sviluppo complessivo dell'impresa a sostegno e sviluppo del suo ambiente sociale (e naturale).
Ad esempio, un'azienda che rispetta tutte le richieste ESG di un investitore ma ha un piano di riacquisto di azioni proprie con i profitti previsti, invece di fare investimenti, è ancora "etica e sostenibile"?
E come metterla nel caso di accentuata politica di shareholder value grazie alla quale si vogliono ingrassare quegli stessi investitori "etici" con sempre più pingui dividendi anche attraverso l'indebitamento dell'azienda, cadendo nel più pericoloso e miope short-termism e mettendo gli stessi investitori in conflitto di interesse?
Accetterebbero gli investitori etici di scendere dal podio di stakeholder privilegiati, quali oggi essi sono e pretendono di essere, per essere messi allo stesso livello degli altri proprio in nome del perseguimento di quell'etica che richiedono?
Di esempi, sulla dimensione combinata sociale-governance, ne possono essere forniti molti altri. La soluzione non è il soddisfacimento di singoli requisiti di una lista per quanto lunga e completa, ma comprendere la proposta identitaria politico-sociale dell'impresa, ovvero il proprio progetto di posizionamento nel mondo (anche creandolo) e come intenda ottenerlo raggiungendo gli obiettivi economico-finanziari di interesse di tutti gli stakeholder, e non solo di alcuni (azionisti).
Un bel salto di qualità dunque che, per essere concretizzato, deve passare da un impegno costante per una progettazione strategica senza soluzione di continuità rappresentata in un Business Plan che colga le enne dimensioni ambientali, sociali, politiche, economiche, finanziarie, di governance, culturali, ecc. del business. Successivamente gli stakeholder, anche gli investitori, devono dotarsi di strumenti sofisticati di valutazione di tali Business Plan che costituiscano una piattaforma di dialogo a 360 gradi, e non una semplice, per quanto sofisticata, check-list.
Su questo da tempo ci impegniamo sia nell'evidenziare questa dimensione, sia fornendo strumenti per percorrerla.
E' impegnativo? Certamente lo è, ma l'alternativa è ridurre la "etica" ad un etichetta di moda della finanza radical chic con un economia reale che gioca a farglielo credere lasciando l'onere a funzioni di staff delle imprese e liberando i vertici aziendali per tutt'altre faccende (spesso poco etiche).
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