"Se gli uomini non nutrono un ideale in un mondo migliore perdono qualcosa.
L'umanità non potrebbe funzionare senza le grandi speranze, le passioni assolute."
Eric J. Hobsbawm

giovedì 5 febbraio 2015

Proposta di dibattito - CRS: una rivoluzione necessaria, una rivoluzione non iniziata

Primo contributo

intervista 
Sebastiano Renna
CSR Manager di SEA

Premessa: sull'orlo del domani di Francesco Zanotti

Oggi viviamo in una società che deve diventare radicalmente diversa. Diversa nei modi di produrre ricchezza, nel modo di intendere la qualità della vita, nel modo di fare politica e costruire socialità. Nella visione del mondo soprattutto!
Chi progetta e costruisce una nuova società?
Essa non nasce per progetto divino o, spontaneamente, grazie allo svilupparsi caotico e casuale di processi emergenti. Essa nasce dall'azione comune e solidale di tutti gli attori che, appunto, costituiscono la società.
In particolare una nuova società nasce dall'azione delle imprese: esse creano nuovi prodotti e nuovi sistemi di servizi che sono concretizzazioni tangibili di un nuovo modo di vivere. Intorno a loro gli altri attori sociali creano le condizioni perché l’impresa possa svolgere il proprio ruolo di creazione del futuro. E completano questa creazione generando lo Stato ed esplicitando la visione del mondo che questo nuovo modo di vivere rappresenta. Se mi si permette di dire le cose in modo diverso, una società nasce per una diffusa e solidale imprenditorialità economica, sociale, politica, istituzionale e culturale. Nasce quasi dal fare arte sociale insieme.
Se si vogliono dire le cose in modo più scientifico, una nuova società nasce da un processo di creazione sociale.
Solo un breve esempio: il formarsi della nuova società italiana nel dopoguerra.
Essa è nata, appunto, da una diffusa e solidale imprenditorialità economica, sociale, politica, istituzionale e culturale, stimolata dal desiderio diffuso ed intenso di abbandonare una società passata che aveva costruito macerie e di costruirne una nuova dove la parola valorialmente più intensa era “benessere”. Detto più semplicemente: tutti si sono rimboccati le maniche e le idee per vivere meglio.
Allora se è vero che è necessario costruire una nuova società, che questa costruzione è solo e soltanto sociale, cioè con la partecipazione attiva di tutti, e che le imprese sono gli attori sociali che possono/devono guidare questo processo, allora responsabilità sociale significa una cosa molto precisa.
Significa, da un lato, che le imprese hanno il dovere sociale di far evolvere la loro identità proponendo nuovi sistemi d’offerta che rappresentano un ologramma della nuova società. E, dall'altro, significa che la progettazione di questo sistema d’offerta può essere fatto solo in stretta sinergia con un sociale che è la vera fonte di innovazione e consenso.
Voglio dire che una impresa non si può rifiutare di diventare protagonista del sociale non solo perché non sarebbe etico farlo, ma perché non è possibile fare in altro modo se vuole perseguire davvero l’aumento del valore per gli azionisti!
Detto diversamente, l’obiettivo etico e l’obiettivo del valore per gli azionisti non sono contrapposti, non è necessario mediare tra di loro, ma sono profondamente sinergici. Insistiamo: oggi il valore per gli azionisti è creato solo da profonde innovazioni imprenditoriali e queste non possono che nascere da una alleanza profonda con il sociale.
Se tutto questo è vero, allora, pensando alla CSR emergono spontaneamente alcune domande chiave.
Intendiamo porle ad alcuni CSR manager, considerati leader per esperienza e conoscenza, e provocare un dibattito sul senso e sul ruolo della CSR nello sviluppo di una nuova generazione di imprese che sentono la responsabilità di costruire una nuova società.
La prima persona a cui abbiamo pensato è Sebastiano Renna, CSR Manager di SEA e, indiscutibilmente, da annoverare tra i protagonisti riconosciuti dell’evoluzione della CSR.
Le sue risposte sono una vera e propria proposta di “manifesto” per costruire una rivoluzione nella teoria e nella pratica della CSR.
Ringrazio il Dott. Renna per la sua disponibilità e il suo contributo che, siamo certi, non rimarrà senza risposta.
Intervista a Sebastiano Renna

D: Perché la CSR è strategica?
Tutti affermano che la CSR è “strategica”. Come si declina questa strategicità? Si dice che la CSR è un fattore di competitività. Ma, oramai, il paradigma della competizione è stato giudicato inadeguato dagli esperti di strategia, almeno dai primi anni 2000. Oggi viene criticato ferocemente anche dalle riviste di opinione (es. Forbes). E l’obiettivo di acquisire un vantaggio competitivo sostenibile viene giudicato sempre più irrealizzabile. Allora il proporre la CSR come fattore di competitività rischia di essere solo una modalità retorica per dire che la CSR è importante e chi la pratica ha diritto a stare “alla destra del Grande Capo”.

R: Sebastiano Renna
Non bisogna fare ricorso a sofisticati ragionamenti o sottili argomentazioni per dimostrare che la CSR è tutt’altro che strategica nel sistema economico corrente. E’ piuttosto la foglia di fico di un modello manageriale svuotato di senso e inadatto ad offrire metodi di lavoro adeguati alle complessità dei nostri tempi. Potremmo forse dire che “la CSR dovrebbe essere strategica”, nel senso che dovrebbe guidare i manager nella riformulazione della loro visione del business e, di conseguenza, del modo in cui prendono le relative decisioni. Ma anche in questo caso si tratta più di un mantra di cui si riempiono la bocca accademici e consulenti desiderosi di ritagliarsi un ruolo di lucrosa visibilità presso le aziende, che di una reale convinzione perseguita con coerenza e nei fatti. Perché allora tutti parlano di CSR strategica? Perché fa comodo.
Dopo una prima fase, negli anni ’90 e all'inizio del secolo, in cui la CSR era apertamente praticata come un più evoluto strumento di corporate image e di public affairs, è subentrata una “revisione critica”, resasi necessaria per correggere le contraddizioni più laceranti, che vedevano multinazionali e grandi aziende continuare a perpetrare bellamente indebite “estrazioni di valore” dagli stakeholder (inquinamento, distorsioni della concorrenza, frodi e inganni verso i consumatori, atteggiamento predatorio verso i fornitori, elusioni fiscali, riduzioni ingiustificate degli organici, ecc.) dietro il paravento delle sponsorizzazioni e delle liberalità.
La crisi dei subprime del 2008 ha smorzato gli eccessi, ridotto i budget a disposizione dei CSR manager, spinto il grande baraccone della business ethics a cercare un nuovo e più credibile assetto, dopo che era emerso come i più munifici donors e sostenitori di buone cause erano anche coloro che avevano le maggiori responsabilità nell’affaire dei derivati. Venne quindi tenuto a battesimo il nuovo slogan: “non lo fo per piacere a Dio ma per interesse mio”.
Le major della consulenza (McKinsey, BCG, Accenture, Pwc, Kpmg) e dell’accademia (Harvard, MIT, Bocconi) inondano il settore di report, paper, indagini, analisi la cui architrave concettuale è che la CSR migliora la competitività ed è funzionale alla creazione di valore. I CSR manager restano affascinati da questo “new deal” ed eleggono a loro testi sacri di riferimento due studi harvardiani: “Strategy & Society” di Porter e Kramer del 2006 e “The Impact of a Corporate Culture of Sustainability on Corporate Behavior and Performance” di Eccles, Ioannou e Serafeim del 2012. Ed è tutto un fiorire di schemi, modelli e case histories pronti alluso per coloro che vogliono lasciar intendere al mondo che sono partiti lancia in resta alla conquista dei mercati con l’armatura della CSR. In realtà tutta questa ponderosa letteratura non riesce a dimostrare niente, se non che in alcuni casi è riscontrabile una correlazione tra adozione di strumenti di CSR e performances di borsa superiori alla media, ma resta il dubbio che tale correlazione vada letta in senso contrario a come viene spacciata: sono forse le aziende che ottengono migliori risultati a mettere in campo un più ampio armamentario di CSR, non viceversa. La verità è che la CSR ha certamente contribuito alla crescita di fatturati e margini, ma soprattutto di coloro che su questa tesi ben confezionata ci hanno costruito sopra ricche consulenze. Oggi, ad esempio, il trend topic degli addetti ai lavori è costituito dal bilancio integrato. Tutti da anni affannati a ricercare la formula magica per la “unique bottom line”, ma quello che sinora si vede è nulla più che un espediente editoriale che rilega nello stesso volume le pagine del bilancio d’esercizio e quelle del bilancio di sostenibilità. Il problema è che non puoi rifare daccapo un edificio partendo dal tetto, ovvero dalla rendicontazione. Raffinare le tecnicalità per raccontare in che modo il tuo processo di generazione del valore economico abbia beneficiato dell’apporto di determinate decisioni “CSR-oriented” non è possibile senza aver definito a monte il modello di business che incorpora questa filosofia, i pilastri strategici che la sorreggono e i driver del valore che vanno monitorati per verificarne i risultati nel medio-lungo periodo. Ci sono ancora molte incrostazioni di pensiero meccanicistico nell'approccio alla CSR. Si dedica la massima concentrazione e la fetta principale delle risorse per mettere a punto la cassetta degli attrezzi, nell'illusione che l’agognato salto di qualità verso la CSR strategica sia un fatto di perfezionamento delle tecnicalità piuttosto che di ripensamento radicale dei piani industriali.

La verità è che rendere la CSR realmente strategica per una azienda è un lavoro drammaticamente lungo e complesso. Non procede per linea retta ed è caratterizzato da frequenti stop & go. E’ un processo tanto più vischioso quanto più si addentra nel cuore del decision making manageriale, chiedendo all’azienda di investire parte delle proprie risorse e del tempo dei suoi manager in attività che sembrano spesso spingerla in direzione contraria rispetto alle sue intuitive esigenze primarie: invece di accorciare, allungano l’iter delle decisioni; invece di semplificare, articolano ulteriormente il set di variabili da considerare e monitorare; invece di mettere a portata di mano celermente qualche soluzione aggiuntiva, estendono la lista delle problematiche di cui occuparsi. Se la CSR non fa questo non è realmente un processo strategico. Per questo sono davvero poche le realtà che possono dire di averlo davvero avviato.

D: Chi sono gli stakeholder?
Ogni azienda che si rispetti ha costruito la mappa dei suoi stakeholder. Ma ha utilizzato mappe di riferimento troppo semplici. Si considerano gli stakeholder come decisori razionali, sociologicamente tutti uguali, che reagiscono in base alla loro convenienza. Quindi si organizza un dialogo che è fatto di ascolto (dei loro interessi) e poi di comunicazione per convincere (quando non manipolare) e negoziare il compromesso migliore tra l’interesse dell’impresa gli interessi degli stakeholder. Sarebbe necessario distinguere gli stakeholder in base allo scambio specifico che intrattengono con l’impresa. Distinguere, quindi, tra stakeholder finanziari, economici, sociali, politici, istituzionali, mediatici e “naturali” perché ognuno di essi intrattiene uno scambio diverso. Ed attivare strategia di engagement che corrispondano al tipo di scambio che li caratterizza. E non saranno mai strategie comunicative.

R: Sebastiano Renna
Condivido. La rappresentazione che buona parte delle aziende danno dei propri stakeholder e delle modalità di relazione con essi è piuttosto elementare. In questo, purtroppo, non sono stati fatti significativi passi avanti rispetto alla semplicistica formulazione di Freeman della “teoria degli stakeholder”, in cui l’azienda è descritta come il baricentro della propria trama di relazioni socio-economiche con gli attori del suo contesto di riferimento. L’azienda, secondo Freeman, si dovrebbe confrontare con gli stakeholder per acquisire contezza delle loro esigenze e, quindi, per operare in direzione di un loro ragionevole soddisfacimento. Lo scopo dello stakeholder management, diceva Freeman 30 anni fa, era di trovare metodi per governare le relazioni tra l’azienda e i molteplici gruppi di stakeholder di cui essa doveva tener conto nel perseguimento dei propri obiettivi. Si considerava necessario che i manager comprendessero le aspettative che i principali pubblici aziendali avevano maturato, al fine di sviluppare obiettivi che gli stakeholder stessi avrebbero supportato, o quantomeno non avversato. Ma l’uso che viene fatto del concetto di stakeholder, nel successivo sviluppo della teoria che ha raggiunto sostanzialmente immutato i nostri giorni, non è strategico ma normativo. La teoria degli stakeholder non viene messa al servizio del processo di generazione del valore aziendale, ma viene considerata invece la base della legittimità dell‘esercizio dell‘autorità manageriale nell'impresa, che discende dall'adempimento dei doveri fiduciari e dal contratto sociale. Da questa visione scaturiscono ulteriori semplificazioni, frutto di un pensiero non complesso, tra le quali spicca la convinzione che il governo delle relazioni con gli stakeholder abbia come obiettivo la prevenzione dei conflitti. Se l’azienda battezza la CSR come strumento di preservazione da potenziali conflitti con i suoi pubblici compie un errore d’impostazione strategica. La CSR non deve avere la funzione di anestetizzare e disinnescare i potenziali conflitti, ma deve invece individuarli, portarli ad emersione, farci i conti e metabolizzarli, ovvero trasformarli nella spinta propulsiva verso il superamento dei propri limiti e delle proprie inadeguatezze. In questo si inserisce la logica dell’ascolto e del confronto. La fase dell’ascolto degli stakeholder diventa un elemento davvero qualitativo quando – piuttosto che porsi come un elegante rituale di censimento dei “desiderata” dei vari soggetti da ammansire – diviene un momento di confronto aperto, a tutto campo, sulle condizioni di sopravvivenza e sviluppo dell’impresa, sulle ragioni dei suoi indirizzi strategici, sui presupposti che stanno alla base delle sue scelte. E in questa fase di confronto il conflitto non può restare latente, deve venir fuori per mettere alla prova la reale tenuta delle decisioni di governance dell’impresa. L’ascolto degli stakeholder non va inteso come un favore che l’azienda fa ai propri pubblici, ma come un regalo che in realtà fa a se stessa, poiché questo confronto rappresenta uno straordinario setaccio attraverso cui far passare la propria visione di sviluppo. L’azienda che considera i propri stakeholder come terminali passivi di un esercizio di proiezione di sé stessa e delle proprie logiche – e che li immagina come destinatari da coinvolgere unicamente in uno sforzo di rappresentazione della propria dimensione sociale - non è un’azienda capace di coniugare realmente la propria responsabilità. L’azienda responsabile è un’azienda che progetta con gli stakeholder, che assegna loro dignità di interlocutori competenti. Quando la dimensione del “progettare”, del sedersi a tavolino in posizione paritaria con gli altri attori del contesto per guardare a ciò che è possibile fare insieme per migliorare un destino comune, sostituirà quella del “proiettare”, ovvero della ricerca del compromesso al ribasso, della normalizzazione delle visioni “altre” dello sviluppo rispetto a quella prodotta autoreferenzialmente, allora l’interlocuzione con gli stakeholder avrà davvero un senso. Fino a quel momento sarà solo teatro.

D: Perché solo Responsabilità Sociale?
Le dimensioni non economiche dell’attività di impresa non sono accessorie, complementari. Sono, invece, costitutive della strategia dell’impresa. Come ho anticipato, le imprese che hanno costruito il nostro miracolo economico sono riuscite in quel compito non perché le cose che producevano e vendevano erano competitive, ma perché erano, in diverse e complementari modalità, ologrammi di una nuova società. La progettazione della loro dimensione culturale veniva prima della progettazione delle prestazioni di questi prodotti. Detto diversamente, la progettazione della dimensione culturale dell’attività di impresa precede e dà significato alla progettazione tecnica. La progettualità culturale precede e dà senso alla progettualità economica. Una cosa analogo avviene oggi, ad esempio, nei servizi finanziari.
Due delle aree di sviluppo fondamentale di una compagnia di assicurazione sono costituite dalla previdenza e dalla sanità. Si tratta di due aree di business che possono essere progettate ed avviate solo in profonda sinergia con il modello di Stato Sociale che viene adottato. In particolare, in sinergia con le scelte che riguardano il rapporto tra pubblico e privato. Occorrerebbe che le compagnie attivassero un nuovo tipo di imprenditorialità che non si limita a immaginare i servizi da erogare, ma si pone anche l’obiettivo di creare il contesto in cui questi servizi diventano desiderati e possibili. Detto più precisamente: sarebbe necessario che le compagnie di assicurazione attivassero una nuova “imprenditorialità sociale” che si facesse carico di trasformare le attuali relazioni conflittuali in un dialogo progettuale fecondo che potrebbe generare un nuovo modello di Stato Sociale.

R: Sebastiano Renna
E’ una considerazione in cui mi ritrovo, ma con una precisazione: non è un ruolo ad appannaggio di tutti, quello di “game rules changemaker”. Sono poche le aziende capaci di elaborare un’idea così alta della loro missione (Apple, Google, Amazon, Toyota ne rappresentano alcuni esempi) per non doversi accontentare di esistere solo per contendere fette di mercato ai propri competitor. L’ecosistema imprenditoriale a mio avviso sarà sempre costituito da un manipolo di visionari che intendono il loro ruolo schumpeterianamente – e quindi quando operano nell'industria dell’auto proiettano nel futuro la loro idea di mobilità, quando operano nell’oil&gas investono sulla ricerca di nuove forme di energia, quando operano nel settore bancario si considerano un motore dello sviluppo del territorio e agganciano la generazione del profitto alla crescita economica del contesto in cui sono inserite – da una piccola fetta di imprese vitali e dinamiche, brave a costruirsi una nicchia in cui eccellere, da una grande maggioranza di aziende poco propense all'innovazione e capaci di mantenersi in linea di galleggiamento attraverso espedienti di contenimento dei costi e ammorbidimento delle asperità competitive e da una ultima categoria di organizzazioni parassitarie, costruite totalmente sull'estrazione di valore dai propri stakeholder. Per alimentare l’idea di imprenditorialità sociale come da te descritta, è necessario che si abbia una interpretazione molto evoluta della CSR, che ridefinisca ad esempio il ruolo degli stakeholder (non più terminali passivi di azioni redistributive, né “forche caudine” sotto le quali transitare per ottenere l’agognata “licenza di operare”, bensì controparti attive dei processi di generazione del valore) e che introduca un salto d’orizzonte operativo capace di spostare le dinamiche di analisi e alimentazione della competitività al di fuori della singola impresa, per abbracciare un network più articolato, all’interno del quale operatori economici, soggetti pubblici e forze sociali interagiscono sinergicamente. Invece le tesi dominanti nel mondo della CSR sono, ciascuna con le proprie specificità, centrate sulla creazione di un tipo di vantaggio competitivo perfettamente ascrivibile, di volta in volta, alle categorie “porteriane” della leadership di costo, della differenziazione o della segmentazione. Sono vantaggi competitivi che derivano anche da innovativi modi di formulare le politiche gestionali dell’impresa disposte lungo la “porteriana” catena del valore, ma sempre all'interno del medesimo modello di business. Come altro, infatti, si potrebbero classificare le rimodulazioni dei rapporti con i fornitori o l’introduzione di tecnologie “environmental saving” che corrispondono anche a riduzione di costi, piuttosto che la realizzazione di politiche di enforcing delle risorse umane che diano luogo ad aumenti di produttività o forme di dialogo con i consumatori che aprano la porta a innovazioni di prodotto capaci di penetrare nuovi segmenti di mercato? Sarebbe come cambiare i componenti di un’orchestra per continuare comunque a suonare la stessa musica. C’è naturalmente modo e modo di interpretare una partitura, che può risultare più o meno apprezzato dal pubblico; ma quando quest’ultimo diventa molto esigente, raffinare le tecniche di esecuzione può aiutare fino ad un certo punto. Ed è quello che sta succedendo alle imprese dell’era post-industriale: la complessità del sistema equivale ad un pubblico che si annoia facilmente, quindi lo spartito (il modello di business) va ripensato con cadenze temporali sempre più serrate.

D: Perché due documenti staccati?
Se le dimensioni non economiche non sono accessorie, ma costitutive dell’attività di impresa, perché si producono due documenti staccati come il Bilancio sociale e il Business Plan? E’ necessario disegnare un Progetto Strategico che si sviluppi in tutte le dimensioni dell’attività d’impresa. Soprattutto il “sociale”, cioè tutte le dimensioni non economiche dell’attività d’impresa non deve essere oggetto di “bilancio”, ma di progetto. Detto diversamente, è necessario un progetto strategico che si sviluppi, prima nelle dimensioni non economiche e, poi, in quelle economiche. Per far questo è necessario usare modelli di business Plan molto più avanzati di quelli oggi utilizzati.

R: Sebastiano Renna
Vero, ma non mi fermerei solo a questo. Migliorare la qualità della pianificazione strategica non è a mio avviso solo un fatto di estensione dei suoi contenuti. Limitarsi ad incorporare nel Business Plan le dimensioni non economiche dell’attività d’impresa può certamente aiutare a migliorare il problem setting, ovvero la lettura delle dinamiche di creazione del valore, ma il più delle volte lascerebbe immutato il problem solving, ovvero l’efficace generazione di quelle dinamiche. Il vero grande limite di cui soffre oggi la pianificazione strategica è la sua ottusa autoreferenzialità. Nelle aziende il tempo e le competenze delle persone sono periodicamente sequestrate, a volte sotto l’egida di consulenti detentori di conoscenze pletoriche, per dare luogo ad attività previsionali tanto rituali quanto totalmente inutili. I piani industriali sono documenti rigidi e imbevuti di logica lineare, incapaci di metabolizzare la complessità del contesto esterno. Oggi le imprese investono molto in business intelligence e acquisizione di dati nella speranza di poter amplificare i loro poteri previsionali, ma con risultati piuttosto limitati. Il fatto è che, trovandoci tutti immersi in scenari impredicibili e dagli impatti pervasivi, l’esercizio della pianificazione strategica dovrebbe essere sostituito da strategie adattive costruite attraverso una interazione continua con gli stakeholder. E’ in questo senso che va inteso “il sociale”: non tanto in termini di contenuto quanto di metodo. Ha sempre meno senso che la pianificazione strategica nasca da una progettualità di vertice che, per definizione, è conservativa. Bisogna far avanzare un nuovo modello di progettualità, che coinvolga tutti gli stakeholders interni ed esterni dell’impresa e che abbia come output non più la (presunta) migliore strategia possibile, bensì un set di possibili strategie attuabili in risposta ai possibili scenari individuati. Si capisce allora come l’asset intangibile più importante dell’azienda sia la corretta interpretazione dello scenario e la capacità di individuare le risorse e le competenze da mobilitare in risposta alle opportunità e alle minacce provenienti dal contesto.

D: Perché tanta conoscenza dimenticata?
E’ straordinario il patrimonio di conoscenze pertinenti che non vengono considerate. I discorsi precedenti hanno implicitamente indicato quali sono queste conoscenze. Sono le conoscenze e le metodologie d’impresa che esulano dal modello delle forze competitive di Porter. Sono le conoscenze relative alle scienze cognitive ed alla sociologia che permettono di comprendere le diversità di scambi in cui sono impegnati i diversi tipi di stakeholder e mettono in crisi il modello Shannoniano dei processi di comunicazione.

R: Sebastiano Renna
Da tempo sostengo che l’essenza della CSR è prevalentemente collegata a fattori cognitivi dell’approccio manageriale, più che ad aspetti etico-morali. Sono convinto che il deragliamento etico delle organizzazioni avvenga soprattutto per l’incapacità del management di reagire cognitivamente alle pressioni dell’ecosistema che, molto più che in passato, mettono a rischio il risultato aziendale. Nel contesto iperconnesso ad alta volatilità di oggi, il successo imprenditoriale è basato sulla capacità dell’impresa di creare “valore sistemico” agendo non più (o non solo) sulle strategie competitive finalizzate a distinguere l’impresa dai rivali, ma soprattutto su un ripensamento del suo ruolo all'interno del contesto sociale e di business in cui opera. Gli attori del mercato e quelli del settore pubblico, per mantenersi all'altezza delle sfide che l’attuale fase pone loro, devono ripensare le rispettive logiche di funzionamento, attivando intensi processi di generazione e condivisione sociale della conoscenza. Il fattore conoscenza è l’unico in grado di emancipare i mercati dalla legge dei rendimenti decrescenti o dai processi “a somma zero”, dove il valore creato per l’impresa dipende principalmente da quanto valore essa è stata in grado di drenare verso di sè attraverso la dialettica negoziale con gli agli altri soggetti disposti lungo la catena del valore (fornitori, clienti, banche, stato, dipendenti, ecc.) e/o da quanto valore essa è stata in grado di acquisire, attraverso le dinamiche concorrenziali, sottraendolo ai propri competitor. Processi di partecipazione sistematica degli stakeholder alla visione imprenditoriale consentono di generare dinamiche economiche caratterizzate anche da situazioni di rendimenti crescenti (incremento del valore disponibile direttamente proporzionale al numero di soggetti che contribuiscono alla sua generazione) e di orientarsi verso “value proposition” in grado di generare benefici sistemici. La CSR deve imparare a compiere la rivoluzione copernicana che porti la dimensione sociale a non rappresentare più il “fattore di resistenza” al libero dispiegarsi delle energie del mercato. Deve essere definitivamente accantonata quella visione che in questi ultimi decenni ha fatto scaturire una concezione della CSR preoccupata esclusivamente di trovare forme di conciliazione tra esigenze di profitto ed esigenze di contenimento dei danni sociali e ambientali. La Società deve essere piuttosto intesa come luogo di accumulazione di conoscenze assolutamente imprescindibili per un successo di lungo periodo dei progetti di business.

D: Perché i servizi di CSR non sono un mercato?
E’ la logica conseguenza delle osservazioni precedenti. Se la conoscenza e l’innovazione nella conoscenza non vengono considerate rilevanti, allora l’acquisto di servizi professionali non avviene in base alla conoscenza ed alle metodologie del fornitore, ma in base a considerazioni amicali o di “visibilità” del fornitore. Come quando si comprava solo IBM? Peggio, perché allora IBM si era conquistata sul campo una supremazia tecnologica. Oggi accade come se una impresa che opera in mercato tecnologicamente avanzati dicesse che non valuta il livello di conoscenza e di innovazione dei suoi fornitori. Peggio ancora. Come se dicesse che non sa valutare il livello di innovazione dei suoi fornitori.

R: Sebastiano Renna
Esattamente. Non lo sa valutare, quindi compra un brand autorevole o strumenti di lavoro “mainstream” senza chiedersi più di tanto come possano risultare funzionali ad una CSR strategy e, meno ancora, come quest’ultima possa essere parte integrante e qualificante del piano strategico. E’ la naturale conseguenza di quanto esposto in precedenza. 

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