Primo contributo
intervista
Sebastiano Renna
Premessa: sull'orlo del domani di Francesco Zanotti
Oggi viviamo in una società che deve diventare radicalmente diversa.
Diversa nei modi di produrre ricchezza, nel modo di intendere la qualità della
vita, nel modo di fare politica e costruire socialità. Nella visione del mondo
soprattutto!
Chi progetta e costruisce una nuova società?
Essa non nasce per progetto divino o, spontaneamente, grazie allo
svilupparsi caotico e casuale di processi emergenti. Essa nasce dall'azione comune e solidale di tutti gli attori che, appunto, costituiscono la società.
In particolare una nuova società nasce dall'azione delle imprese: esse
creano nuovi prodotti e nuovi sistemi di servizi che sono concretizzazioni
tangibili di un nuovo modo di vivere. Intorno a loro gli altri attori sociali
creano le condizioni perché l’impresa possa svolgere il proprio ruolo di
creazione del futuro. E completano questa creazione generando lo Stato ed
esplicitando la visione del mondo che questo nuovo modo di vivere rappresenta.
Se mi si permette di dire le cose in modo diverso, una società nasce per una
diffusa e solidale imprenditorialità economica, sociale, politica,
istituzionale e culturale. Nasce quasi dal fare arte sociale insieme.
Se si vogliono dire le cose in modo più scientifico, una nuova società
nasce da un processo di creazione sociale.
Solo un breve esempio: il formarsi della nuova società italiana nel
dopoguerra.
Essa è nata, appunto, da una diffusa e solidale imprenditorialità
economica, sociale, politica, istituzionale e culturale, stimolata dal
desiderio diffuso ed intenso di abbandonare una società passata che aveva
costruito macerie e di costruirne una nuova dove la parola valorialmente più
intensa era “benessere”. Detto più semplicemente: tutti si sono rimboccati le
maniche e le idee per vivere meglio.
Allora se è vero che è necessario costruire una nuova
società, che questa costruzione è solo e soltanto sociale, cioè con la
partecipazione attiva di tutti, e che le imprese sono gli attori sociali che
possono/devono guidare questo processo, allora responsabilità sociale
significa una cosa molto precisa.
Significa, da un lato, che le imprese hanno il dovere sociale di far
evolvere la loro identità proponendo nuovi sistemi d’offerta che rappresentano
un ologramma della nuova società. E, dall'altro, significa che la progettazione
di questo sistema d’offerta può essere fatto solo in stretta sinergia
con un sociale che è la vera fonte di innovazione e consenso.
Voglio dire che una impresa non si può rifiutare di diventare protagonista
del sociale non solo perché non sarebbe etico farlo, ma perché non è possibile
fare in altro modo se vuole perseguire davvero l’aumento del valore per gli
azionisti!
Detto diversamente, l’obiettivo etico e l’obiettivo del valore per gli
azionisti non sono contrapposti, non è necessario mediare tra di loro, ma sono
profondamente sinergici. Insistiamo: oggi il valore per gli azionisti è creato
solo da profonde innovazioni imprenditoriali e queste non possono che nascere
da una alleanza profonda con il sociale.
Se tutto questo è vero, allora, pensando alla CSR emergono spontaneamente
alcune domande chiave.
Intendiamo porle ad alcuni CSR manager, considerati leader per esperienza e
conoscenza, e provocare un dibattito sul senso e sul ruolo della CSR nello
sviluppo di una nuova generazione di imprese che sentono la responsabilità di
costruire una nuova società.
La prima persona a cui abbiamo pensato è Sebastiano Renna, CSR
Manager di SEA e, indiscutibilmente, da annoverare tra i protagonisti
riconosciuti dell’evoluzione della CSR.
Le sue risposte sono una vera e propria proposta di “manifesto” per
costruire una rivoluzione nella teoria e nella pratica della CSR.
Ringrazio il Dott. Renna per la sua disponibilità e il suo contributo che,
siamo certi, non rimarrà senza risposta.
Intervista a Sebastiano Renna
D: Perché la CSR è strategica?
Tutti affermano che la CSR è “strategica”. Come si declina questa
strategicità? Si dice che la CSR è un fattore di competitività. Ma, oramai, il
paradigma della competizione è stato giudicato inadeguato dagli esperti di
strategia, almeno dai primi anni 2000. Oggi viene criticato ferocemente anche
dalle riviste di opinione (es. Forbes). E l’obiettivo di acquisire un vantaggio
competitivo sostenibile viene giudicato sempre più irrealizzabile. Allora il
proporre la CSR come fattore di competitività rischia di essere solo una modalità
retorica per dire che la CSR è importante e chi la pratica ha diritto a stare
“alla destra del Grande Capo”.
R: Sebastiano Renna
Non bisogna fare ricorso a sofisticati ragionamenti o
sottili argomentazioni per dimostrare che la CSR è tutt’altro che strategica
nel sistema economico corrente. E’ piuttosto la foglia di fico di un modello manageriale
svuotato di senso e inadatto ad offrire metodi di lavoro adeguati alle
complessità dei nostri tempi. Potremmo forse dire che “la CSR dovrebbe essere
strategica”, nel senso che dovrebbe guidare i manager nella riformulazione
della loro visione del business e, di conseguenza, del modo in cui prendono le
relative decisioni. Ma anche in questo caso si tratta più di un mantra di cui
si riempiono la bocca accademici e consulenti desiderosi di ritagliarsi un
ruolo di lucrosa visibilità presso le aziende, che di una reale convinzione
perseguita con coerenza e nei fatti. Perché allora tutti parlano di CSR strategica?
Perché fa comodo.
Dopo una prima fase, negli anni ’90 e all'inizio del
secolo, in cui la CSR era apertamente praticata come un più evoluto strumento
di corporate image e di public affairs, è subentrata una “revisione critica”,
resasi necessaria per correggere le contraddizioni più laceranti, che vedevano
multinazionali e grandi aziende continuare a perpetrare bellamente indebite
“estrazioni di valore” dagli stakeholder (inquinamento, distorsioni della
concorrenza, frodi e inganni verso i consumatori, atteggiamento predatorio
verso i fornitori, elusioni fiscali, riduzioni ingiustificate degli organici,
ecc.) dietro il paravento delle sponsorizzazioni e delle liberalità.
La crisi dei subprime del 2008 ha smorzato gli eccessi,
ridotto i budget a disposizione dei CSR manager, spinto il grande baraccone
della business ethics a cercare un nuovo e più credibile assetto, dopo che era
emerso come i più munifici donors e sostenitori di buone cause erano anche
coloro che avevano le maggiori responsabilità nell’affaire dei derivati. Venne
quindi tenuto a battesimo il nuovo slogan: “non lo fo per piacere a Dio ma per
interesse mio”.
Le major della consulenza (McKinsey, BCG, Accenture, Pwc,
Kpmg) e dell’accademia (Harvard, MIT, Bocconi) inondano il settore di report,
paper, indagini, analisi la cui architrave concettuale è che la CSR migliora la
competitività ed è funzionale alla creazione di valore. I CSR manager restano
affascinati da questo “new deal” ed eleggono a loro testi sacri di riferimento
due studi harvardiani: “Strategy &
Society” di Porter e Kramer del 2006 e “The
Impact of a Corporate Culture of Sustainability on Corporate Behavior and
Performance” di Eccles, Ioannou e Serafeim del 2012. Ed è tutto un fiorire
di schemi, modelli e case histories pronti alluso per coloro che vogliono
lasciar intendere al mondo che sono partiti lancia in resta alla conquista dei
mercati con l’armatura della CSR. In realtà tutta questa ponderosa letteratura
non riesce a dimostrare niente, se non che in alcuni casi è riscontrabile una
correlazione tra adozione di strumenti di CSR e performances di borsa superiori
alla media, ma resta il dubbio che tale correlazione vada letta in senso
contrario a come viene spacciata: sono forse le aziende che ottengono migliori
risultati a mettere in campo un più ampio armamentario di CSR, non viceversa.
La verità è che la CSR ha certamente contribuito alla crescita di fatturati e
margini, ma soprattutto di coloro che su questa tesi ben confezionata ci hanno
costruito sopra ricche consulenze. Oggi, ad esempio, il trend topic degli
addetti ai lavori è costituito dal bilancio integrato. Tutti da anni affannati
a ricercare la formula magica per la “unique bottom line”, ma quello che sinora
si vede è nulla più che un espediente editoriale che rilega nello stesso volume
le pagine del bilancio d’esercizio e quelle del bilancio di sostenibilità. Il
problema è che non puoi rifare daccapo un edificio partendo dal tetto, ovvero
dalla rendicontazione. Raffinare le tecnicalità per raccontare in che modo il
tuo processo di generazione del valore economico abbia beneficiato dell’apporto
di determinate decisioni “CSR-oriented” non è possibile senza aver definito a
monte il modello di business che incorpora questa filosofia, i pilastri
strategici che la sorreggono e i driver del valore che vanno monitorati per
verificarne i risultati nel medio-lungo periodo. Ci sono ancora molte
incrostazioni di pensiero meccanicistico nell'approccio alla CSR. Si dedica la
massima concentrazione e la fetta principale delle risorse per mettere a punto
la cassetta degli attrezzi, nell'illusione che l’agognato salto di qualità
verso la CSR strategica sia un fatto di perfezionamento delle tecnicalità
piuttosto che di ripensamento radicale dei piani industriali.
La verità è che rendere la CSR realmente strategica per
una azienda è un lavoro drammaticamente lungo e complesso. Non procede per
linea retta ed è caratterizzato da frequenti stop & go. E’ un processo
tanto più vischioso quanto più si addentra nel cuore del decision making manageriale,
chiedendo all’azienda di investire parte delle proprie risorse e del tempo dei
suoi manager in attività che sembrano spesso spingerla in direzione contraria
rispetto alle sue intuitive esigenze primarie: invece di accorciare, allungano
l’iter delle decisioni; invece di semplificare, articolano ulteriormente il set
di variabili da considerare e monitorare; invece di mettere a portata di mano
celermente qualche soluzione aggiuntiva, estendono la lista delle problematiche
di cui occuparsi. Se la CSR non fa questo non è realmente un processo
strategico. Per questo sono davvero poche le realtà che possono dire di averlo
davvero avviato.
D: Chi sono gli stakeholder?
Ogni azienda che si rispetti ha costruito la mappa dei suoi stakeholder. Ma
ha utilizzato mappe di riferimento troppo semplici. Si considerano gli
stakeholder come decisori razionali, sociologicamente tutti uguali, che
reagiscono in base alla loro convenienza. Quindi si organizza un dialogo che è fatto
di ascolto (dei loro interessi) e poi di comunicazione per convincere (quando
non manipolare) e negoziare il compromesso migliore tra l’interesse
dell’impresa gli interessi degli stakeholder. Sarebbe necessario distinguere
gli stakeholder in base allo scambio specifico che intrattengono con l’impresa.
Distinguere, quindi, tra stakeholder finanziari, economici, sociali, politici,
istituzionali, mediatici e “naturali” perché ognuno di essi intrattiene uno
scambio diverso. Ed attivare strategia di engagement che corrispondano al tipo
di scambio che li caratterizza. E non saranno mai strategie comunicative.
R: Sebastiano Renna
Condivido. La rappresentazione che buona parte delle
aziende danno dei propri stakeholder e delle modalità di relazione con essi è
piuttosto elementare. In questo, purtroppo, non sono stati fatti significativi
passi avanti rispetto alla semplicistica formulazione di Freeman della “teoria
degli stakeholder”, in cui l’azienda è descritta come il baricentro della
propria trama di relazioni socio-economiche con gli attori del suo contesto di
riferimento. L’azienda, secondo Freeman, si dovrebbe confrontare con gli stakeholder
per acquisire contezza delle loro esigenze e, quindi, per operare in direzione
di un loro ragionevole soddisfacimento. Lo scopo dello stakeholder management,
diceva Freeman 30 anni fa, era di trovare metodi per governare le relazioni tra
l’azienda e i molteplici gruppi di stakeholder di cui essa doveva tener conto
nel perseguimento dei propri obiettivi. Si considerava necessario che i manager
comprendessero le aspettative che i principali pubblici aziendali avevano
maturato, al fine di sviluppare obiettivi che gli stakeholder stessi avrebbero
supportato, o quantomeno non avversato. Ma l’uso che viene fatto del concetto
di stakeholder, nel successivo sviluppo della teoria che ha raggiunto
sostanzialmente immutato i nostri giorni, non è strategico ma normativo. La
teoria degli stakeholder non viene messa al servizio del processo di
generazione del valore aziendale, ma viene considerata invece la base della
legittimità dell‘esercizio dell‘autorità manageriale nell'impresa, che discende dall'adempimento dei doveri fiduciari e dal contratto sociale. Da questa
visione scaturiscono ulteriori semplificazioni, frutto di un pensiero non
complesso, tra le quali spicca la convinzione che il governo delle relazioni
con gli stakeholder abbia come obiettivo la prevenzione dei conflitti. Se
l’azienda battezza la CSR come strumento di preservazione da potenziali
conflitti con i suoi pubblici compie un errore d’impostazione strategica. La
CSR non deve avere la funzione di anestetizzare e disinnescare i potenziali
conflitti, ma deve invece individuarli, portarli ad emersione, farci i conti e
metabolizzarli, ovvero trasformarli nella spinta propulsiva verso il
superamento dei propri limiti e delle proprie inadeguatezze. In questo si
inserisce la logica dell’ascolto e del confronto. La fase dell’ascolto degli
stakeholder diventa un elemento davvero qualitativo quando – piuttosto che porsi
come un elegante rituale di censimento dei “desiderata” dei vari soggetti da
ammansire – diviene un momento di confronto aperto, a tutto campo, sulle
condizioni di sopravvivenza e sviluppo dell’impresa, sulle ragioni dei suoi
indirizzi strategici, sui presupposti che stanno alla base delle sue scelte. E
in questa fase di confronto il conflitto non può restare latente, deve venir
fuori per mettere alla prova la reale tenuta delle decisioni di governance
dell’impresa. L’ascolto degli stakeholder non va inteso come un favore che
l’azienda fa ai propri pubblici, ma come un regalo che in realtà fa a se
stessa, poiché questo confronto rappresenta uno straordinario setaccio
attraverso cui far passare la propria visione di sviluppo. L’azienda che
considera i propri stakeholder come terminali passivi di un esercizio di
proiezione di sé stessa e delle proprie logiche – e che li immagina come
destinatari da coinvolgere unicamente in uno sforzo di rappresentazione della
propria dimensione sociale - non è un’azienda capace di coniugare realmente la
propria responsabilità. L’azienda responsabile è un’azienda che progetta con
gli stakeholder, che assegna loro dignità di interlocutori competenti. Quando la
dimensione del “progettare”, del sedersi a tavolino in posizione paritaria con
gli altri attori del contesto per guardare a ciò che è possibile fare insieme
per migliorare un destino comune, sostituirà quella del “proiettare”, ovvero
della ricerca del compromesso al ribasso, della normalizzazione delle visioni
“altre” dello sviluppo rispetto a quella prodotta autoreferenzialmente, allora l’interlocuzione
con gli stakeholder avrà davvero un senso. Fino a quel momento sarà solo
teatro.
D: Perché solo Responsabilità Sociale?
Le dimensioni non economiche dell’attività di impresa non sono accessorie,
complementari. Sono, invece, costitutive della strategia dell’impresa. Come ho
anticipato, le imprese che hanno costruito il nostro miracolo economico sono riuscite
in quel compito non perché le cose che producevano e vendevano erano
competitive, ma perché erano, in diverse e complementari modalità, ologrammi di
una nuova società. La progettazione della loro dimensione culturale veniva
prima della progettazione delle prestazioni di questi prodotti. Detto
diversamente, la progettazione della dimensione culturale dell’attività di
impresa precede e dà significato alla progettazione tecnica. La progettualità
culturale precede e dà senso alla progettualità economica. Una cosa analogo
avviene oggi, ad esempio, nei servizi finanziari.
Due delle aree di sviluppo fondamentale di una compagnia di assicurazione
sono costituite dalla previdenza e dalla sanità. Si tratta di due aree di
business che possono essere progettate ed avviate solo in profonda sinergia con
il modello di Stato Sociale che viene adottato. In particolare, in sinergia con
le scelte che riguardano il rapporto tra pubblico e privato. Occorrerebbe che
le compagnie attivassero un nuovo tipo di imprenditorialità che non si limita a
immaginare i servizi da erogare, ma si pone anche l’obiettivo di creare il
contesto in cui questi servizi diventano desiderati e possibili. Detto più
precisamente: sarebbe necessario che le compagnie di assicurazione attivassero una
nuova “imprenditorialità sociale” che si facesse carico di trasformare
le attuali relazioni conflittuali in un dialogo progettuale fecondo che
potrebbe generare un nuovo modello di Stato Sociale.
R: Sebastiano Renna
E’ una considerazione in cui mi ritrovo, ma con una
precisazione: non è un ruolo ad appannaggio di tutti, quello di “game rules
changemaker”. Sono poche le aziende capaci di elaborare un’idea così alta della
loro missione (Apple, Google, Amazon, Toyota ne rappresentano alcuni esempi)
per non doversi accontentare di esistere solo per contendere fette di mercato
ai propri competitor. L’ecosistema imprenditoriale a mio avviso sarà sempre
costituito da un manipolo di visionari che intendono il loro ruolo
schumpeterianamente – e quindi quando operano nell'industria dell’auto
proiettano nel futuro la loro idea di mobilità, quando operano nell’oil&gas
investono sulla ricerca di nuove forme di energia, quando operano nel settore
bancario si considerano un motore dello sviluppo del territorio e agganciano la
generazione del profitto alla crescita economica del contesto in cui sono
inserite – da una piccola fetta di imprese vitali e dinamiche, brave a
costruirsi una nicchia in cui eccellere, da una grande maggioranza di aziende
poco propense all'innovazione e capaci di mantenersi in linea di galleggiamento
attraverso espedienti di contenimento dei costi e ammorbidimento delle asperità
competitive e da una ultima categoria di organizzazioni parassitarie, costruite
totalmente sull'estrazione di valore dai propri stakeholder. Per alimentare l’idea di imprenditorialità sociale come da te descritta, è necessario che si
abbia una interpretazione molto evoluta della CSR, che ridefinisca ad esempio il
ruolo degli stakeholder (non più terminali passivi di azioni redistributive, né
“forche caudine” sotto le quali transitare per ottenere l’agognata “licenza di
operare”, bensì controparti attive dei processi di generazione del valore) e
che introduca un salto d’orizzonte operativo capace di spostare le dinamiche di
analisi e alimentazione della competitività al di fuori della singola impresa,
per abbracciare un network più articolato, all’interno del quale operatori
economici, soggetti pubblici e forze sociali interagiscono sinergicamente.
Invece le tesi dominanti nel mondo della CSR sono, ciascuna con le proprie
specificità, centrate sulla creazione di un tipo di vantaggio competitivo
perfettamente ascrivibile, di volta in volta, alle categorie “porteriane” della
leadership di costo, della differenziazione o della segmentazione. Sono
vantaggi competitivi che derivano anche da innovativi modi di formulare le
politiche gestionali dell’impresa disposte lungo la “porteriana” catena del
valore, ma sempre all'interno del medesimo modello di business. Come altro, infatti, si potrebbero classificare le rimodulazioni dei rapporti con i
fornitori o l’introduzione di tecnologie “environmental saving” che
corrispondono anche a riduzione di costi, piuttosto che la realizzazione di
politiche di enforcing delle risorse umane che diano luogo ad aumenti di
produttività o forme di dialogo con i consumatori che aprano la porta a
innovazioni di prodotto capaci di penetrare nuovi segmenti di mercato? Sarebbe
come cambiare i componenti di un’orchestra per continuare comunque a suonare la
stessa musica. C’è naturalmente modo e modo di interpretare una partitura, che
può risultare più o meno apprezzato dal pubblico; ma quando quest’ultimo
diventa molto esigente, raffinare le tecniche di esecuzione può aiutare fino ad
un certo punto. Ed è quello che sta succedendo alle imprese dell’era
post-industriale: la complessità del sistema equivale ad un pubblico che si
annoia facilmente, quindi lo spartito (il modello di business) va ripensato con
cadenze temporali sempre più serrate.
D: Perché due documenti staccati?
Se le dimensioni non economiche non sono accessorie, ma costitutive
dell’attività di impresa, perché si producono due documenti staccati come il
Bilancio sociale e il Business Plan? E’ necessario disegnare un Progetto
Strategico che si sviluppi in tutte le dimensioni dell’attività d’impresa.
Soprattutto il “sociale”, cioè tutte le dimensioni non economiche dell’attività
d’impresa non deve essere oggetto di “bilancio”, ma di progetto. Detto
diversamente, è necessario un progetto strategico che si sviluppi, prima nelle
dimensioni non economiche e, poi, in quelle economiche. Per far questo è necessario
usare modelli di business Plan molto più avanzati di quelli oggi utilizzati.
R: Sebastiano Renna
Vero, ma non mi fermerei solo a questo. Migliorare la
qualità della pianificazione strategica non è a mio avviso solo un fatto di
estensione dei suoi contenuti. Limitarsi ad incorporare nel Business Plan le
dimensioni non economiche dell’attività d’impresa può certamente aiutare a
migliorare il problem setting, ovvero la lettura delle dinamiche di creazione
del valore, ma il più delle volte lascerebbe immutato il problem solving,
ovvero l’efficace generazione di quelle dinamiche. Il vero grande limite di cui
soffre oggi la pianificazione strategica è la sua ottusa autoreferenzialità.
Nelle aziende il tempo e le competenze delle persone sono periodicamente
sequestrate, a volte sotto l’egida di consulenti detentori di conoscenze
pletoriche, per dare luogo ad attività previsionali tanto rituali quanto
totalmente inutili. I piani industriali sono documenti rigidi e imbevuti di
logica lineare, incapaci di metabolizzare la complessità del contesto esterno.
Oggi le imprese investono molto in business intelligence e acquisizione di dati
nella speranza di poter amplificare i loro poteri previsionali, ma con
risultati piuttosto limitati. Il fatto è che, trovandoci tutti immersi in
scenari impredicibili e dagli impatti pervasivi, l’esercizio della
pianificazione strategica dovrebbe essere sostituito da strategie adattive
costruite attraverso una interazione continua con gli stakeholder. E’ in questo
senso che va inteso “il sociale”: non tanto in termini di contenuto quanto di
metodo. Ha sempre meno senso che la pianificazione strategica nasca da una
progettualità di vertice che, per definizione, è conservativa. Bisogna far
avanzare un nuovo modello di progettualità, che coinvolga tutti gli
stakeholders interni ed esterni dell’impresa e che abbia come output non più la
(presunta) migliore strategia possibile, bensì un set di possibili strategie
attuabili in risposta ai possibili scenari individuati. Si capisce allora come l’asset
intangibile più importante dell’azienda sia la corretta interpretazione dello
scenario e la capacità di individuare le risorse e le competenze da mobilitare
in risposta alle opportunità e alle minacce provenienti dal contesto.
D: Perché tanta conoscenza dimenticata?
E’ straordinario il patrimonio di conoscenze pertinenti che non vengono
considerate. I discorsi precedenti hanno implicitamente indicato quali sono
queste conoscenze. Sono le conoscenze e le metodologie d’impresa che esulano
dal modello delle forze competitive di Porter. Sono le conoscenze relative alle
scienze cognitive ed alla sociologia che permettono di comprendere le diversità
di scambi in cui sono impegnati i diversi tipi di stakeholder e mettono in
crisi il modello Shannoniano dei processi di comunicazione.
R: Sebastiano Renna
Da tempo sostengo che l’essenza della CSR è
prevalentemente collegata a fattori cognitivi dell’approccio manageriale, più
che ad aspetti etico-morali. Sono convinto che il deragliamento etico delle
organizzazioni avvenga soprattutto per l’incapacità del management di reagire
cognitivamente alle pressioni dell’ecosistema che, molto più che in passato,
mettono a rischio il risultato aziendale. Nel contesto iperconnesso ad alta
volatilità di oggi, il successo imprenditoriale è basato sulla capacità
dell’impresa di creare “valore sistemico” agendo non più (o non solo) sulle
strategie competitive finalizzate a distinguere l’impresa dai rivali, ma
soprattutto su un ripensamento del suo ruolo all'interno del contesto sociale e
di business in cui opera. Gli attori del mercato e quelli del settore pubblico,
per mantenersi all'altezza delle sfide che l’attuale fase pone loro, devono
ripensare le rispettive logiche di funzionamento, attivando intensi processi di
generazione e condivisione sociale della conoscenza. Il fattore conoscenza è
l’unico in grado di emancipare i mercati dalla legge dei rendimenti decrescenti
o dai processi “a somma zero”, dove il valore creato per l’impresa dipende
principalmente da quanto valore essa è stata in grado di drenare verso di sè
attraverso la dialettica negoziale con gli agli altri soggetti disposti lungo
la catena del valore (fornitori, clienti, banche, stato, dipendenti, ecc.) e/o
da quanto valore essa è stata in grado di acquisire, attraverso le dinamiche
concorrenziali, sottraendolo ai propri competitor. Processi di partecipazione
sistematica degli stakeholder alla visione imprenditoriale consentono di
generare dinamiche economiche caratterizzate anche da situazioni di rendimenti
crescenti (incremento del valore disponibile direttamente proporzionale al
numero di soggetti che contribuiscono alla sua generazione) e di orientarsi
verso “value proposition” in grado di generare benefici sistemici. La CSR deve
imparare a compiere la rivoluzione copernicana che porti la dimensione sociale
a non rappresentare più il “fattore di resistenza” al libero dispiegarsi delle
energie del mercato. Deve essere definitivamente accantonata quella visione che
in questi ultimi decenni ha fatto scaturire una concezione della CSR
preoccupata esclusivamente di trovare forme di conciliazione tra esigenze di
profitto ed esigenze di contenimento dei danni sociali e ambientali. La Società
deve essere piuttosto intesa come luogo di accumulazione di conoscenze
assolutamente imprescindibili per un successo di lungo periodo dei progetti di
business.
D: Perché i servizi di CSR non sono un mercato?
E’ la logica conseguenza delle osservazioni precedenti. Se la conoscenza e
l’innovazione nella conoscenza non vengono considerate rilevanti, allora
l’acquisto di servizi professionali non avviene in base alla conoscenza ed alle
metodologie del fornitore, ma in base a considerazioni amicali o di
“visibilità” del fornitore. Come quando si comprava solo IBM? Peggio, perché
allora IBM si era conquistata sul campo una supremazia tecnologica. Oggi accade
come se una impresa che opera in mercato tecnologicamente avanzati dicesse che
non valuta il livello di conoscenza e di innovazione dei suoi fornitori. Peggio
ancora. Come se dicesse che non sa valutare il livello di innovazione dei suoi
fornitori.
R: Sebastiano Renna
Esattamente. Non lo sa valutare, quindi compra un brand
autorevole o strumenti di lavoro “mainstream” senza chiedersi più di tanto come
possano risultare funzionali ad una CSR strategy e, meno ancora, come
quest’ultima possa essere parte integrante e qualificante del piano strategico.
E’ la naturale conseguenza di quanto esposto in precedenza.
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