"Se gli uomini non nutrono un ideale in un mondo migliore perdono qualcosa.
L'umanità non potrebbe funzionare senza le grandi speranze, le passioni assolute."
Eric J. Hobsbawm

giovedì 25 aprile 2013

La schiavitù delle statistiche


di
Cesare Sacerdoti


Disoccupati, l'aumento è senza fine. Istat: dal 1977 sono 1,5 milioni in più, titola repubblica.it di oggi 
L’Istat: in 35 anni oltre un milione e 400 mila disoccupati in più, titola ilsole24ore.com
e sullo stesso tono anche altre testate nazionali riprendono la ricostruzione da parte di Istat delle serie storiche dei principali aggregati del mondo del lavoro in Italia dal 1997 a oggi. Lo stesso Istat nel Statistiche report scaricabile dal sito http://www.istat.it/it/archivio/88827 focalizza nei grafici l’andamento della disoccupazione.
Il dato è, in ogni caso, molto preoccupante, ma va letto con attenzione. Istat infatti sottolinea (e le testate sopra citate, riportano nel corso dei rispettivi articoli) che “tra il 1977 e il 2012 il numero medio annuo di occupati è passato da 19 milioni 511 mila a 22 milioni 899 mila” , con un aumento, quindi, di più di 3,3 milioni di lavoratori attivi.
Il  misunderstanding sta nel valore della parola “disoccupazione”: prendo da Wikipedia: “La disoccupazione è la condizione di mancanza di un lavoro per una persona in età da lavoro (da 16 a 60 anni) che lo cerchi attivamente, sia perché ha perso il lavoro che svolgeva (disoccupato in senso stretto), sia perché è in cerca della prima occupazione (inoccupato)”: il disoccupato è colui che è iscritto alle liste di disoccupazione, non colui che non ha un lavoro.
Allora la situazione reale è che, malgrado la crisi, malgrado la perdita o la forte contrazione di interi settori industriali (chimica, farmaceutica, elettronica, auto, siderurgia ecc.) e malgrado l’introduzione dell’informatica nelle aziende (nel 1977 non era ancora diffuso nemmeno il fax!), in Italia si hanno oggi 3,3 milioni di posti di lavoro in più rispetto a 30 anni fa.
Ma nel frattempo si sono affacciati al mondo del lavoro milioni di “nuovi” lavoratori: in primis le donne, il cui tasso di occupazione è passato  (sempre da dati Istat) dal 33% al 48%  (pur sempre lontano dalla media europea e dagli obiettivi di Lisbona): vuol dire che è cresciuto del 50%!
E poi la popolazione italiana è cresciuta da 55,8 milioni di persone nel 1977 a 60,6 milioni nel 2012! 5 milioni di persone in più! E’ vero dovremmo confrontare i dati delle sole persone in età lavorativa e, con l’invecchiamento della popolazione, i 5 milioni si riducono significativamente, ma in ogni caso è decisamente superiore a quella del 1977.
Da quanto sopra traggo alcune considerazioni.

Siamo troppo schiavi di statistiche che ci vengono presentate sotto chiavi di lettura predeterminate (in altri momenti storici la stessa fonte sarebbe stata citata con un “creati 3,3 milioni di posti di lavoro!”) e siamo schiavi di termini utilizzati in modo inappropriato (in questo caso “disoccupazione”).

L’Italia è stata in grado in questi anni di creare posti di lavoro, molti (anche se non abbastanza) ben più dei sopra citati 3,3 milioni che sono solo il risultato netto tra posti creati e posti persi. Dobbiamo riprendere a generare imprenditorialità, in settori nuovi, probabilmente diversi da quelli tradizionali. E dobbiamo favorire la creazione di imprese capaci di affacciarsi ai mercati esteri. Per fare questo dobbiamo diffondere nuove conoscenze; dobbiamo, tutti, a partire dalle Istituzioni e dalle banche favorire la nascita di nuovi progetti che si reggano su piani strategici credibili, forti anche quando visionari.

La popolazione italiana continuerà ad aumentare; i giovani, le donne hanno il diritto di avere la possibilità di lavorare; i meno giovani vedono allontanarsi l’età della pensione e, nel contempo, hanno spesso energie, interesse, competenze per dare un proprio contributo allo sviluppo delle aziende e quindi del Paese. Tutti quegli interventi legislativi volti a favorire una categoria rispetto ad un’altra, ancorchè attualmente discriminata, non potranno dare risposte esaustive, ma rischiano di creare nuovi conflitti sociali.
E, infine, cerchiamo di ridare fiducia agli italiani, con qualche segnale positivo, pur nella consapevolezza della gravità della situazione.

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