di
Francesco Zanotti
Oggi sul Corriere della Sera Francesco Giavazzi sostiene che il sistema bancario nel suo complesso deve essere sostenuto con un’iniezione di 40 Mld.
George Soros sostiene che il nostro sistema
bancario è in crisi conclamata. A Bruxelles si scommette sul fatto che l’Italia prima o poi dovrà chiedere aiuto al
meccanismo Europeo di stabilità.
Io ho appena finito il disegno di uno scenario
possibile di sviluppo del sistema bancario del quale pubblico l’introduzione.
Vi sono argomenti forti per dare ragione ai pessimisti forti …
Le banche: intermediari di sviluppo o di guai?
Tutti gli Attori
Istituzionali (Governo e Authority) e
tutti i manager della banche sostengono
che il sistema bancario italiano è solido.
La BCE sta
operando uno sforzo straordinario perché le banche possano diventare i
fondamentali intermediari del futuro sviluppo economico e sociale fornendo, in
modo efficiente ed efficace, all’economia reale le risorse necessarie a
costruire un nuovo sviluppo. Del quale ovviamente anch’esse beneficeranno.
Le banche hanno
varato, grazie alla moral suasion del
Governo, il Fondo Atlante come strumento di stabilizzazione del sistema
bancario.
Si sta avviando
una profonda ristrutturazione del sistema bancario italiano che inizierà con la
fusione BPM e Banco Popolare.
Ci si attende
una diminuzione degli NPL conseguente ad un miglioramento complessivo
dell’economia.
La
preoccupazione sociale
Nonostante rassicurazioni
e ottimismo, però, aumenta la
preoccupazione sociale a fronte di fatti che non solo non tranquillizzano né sulla capacità del sistema bancario di
essere, nel concreto, intermediario di sviluppo, né sulla sua solidità.
Il caso delle
quattro piccole banche locali, che hanno concesso prestiti clientelari e, poi,
per riparare alle perdite su questi prestiti, hanno messo nei guai moltitudini “locali”
di risparmiatori inducendoli “spintaneamente” (al di là anche dei limiti di
legge) ad investire in esse, non è rimasto isolato.
Seppur con esiti
formalmente diversi, la sostanza è che anche
la decima banca del nostro Paese, la Banca Popolare di Vicenza, ha fatto
perdere quasi tutto il capitale ai risparmiatori che aveva, forse ancora più “spintaneamente”,
indotto ad investire in essa. In forme forse più lievi gli stessi problemi li
sta vivendo Veneto Banca.
Per quanto
riguarda l’assetto futuro di queste due banche l’incertezza regna sovrana. In entrambi i casi si è proceduto con
successo alla trasformazione delle banche suddette in SpA e a deliberare
aumenti di capitale che sono garantiti da Consorzi di collocamento.
Ma, almeno nel
caso della Popolare di Vicenza, non è intervenuto il Consorzio di Garanzia: si
è girato e brigato perché l’aumento di capitale fosse sottoscritto quasi
integralmente dal Fondo Atlante. E, per di più, non è stato possibile quotare
la banca perché ne mancavano le condizioni.
Anche Veneto
Banca non lascia tranquilli. L’ultima Assemblea ha cambiato il Presidente e il
Consiglio di Amministrazione. E su aumento di capitale (chi lo sottoscriverà) e
quotazione si è ancora nell’incertezza.
La stessa fusione
tra Banco Popolare e BPM ha poi le sue ombre: è stata approvata dalla BCE alla
condizione che Banco Popolare faccia un consistente aumento di capitale,
lasciando aperte incertezze sulla sua solidità. Rimane viva e crescente la preoccupazione sugli NPL. Secondo
uno studio di Finanza Internazionale, ripreso da Morya Longo sul Sole 24 Ore
del 1 aprile 2016[1], negli ultimi tre anni le
banche italiane hanno venduto 29 Mld di NPL al 13,7 % del loro valore nominale.
Se questa percentuale diventasse il riferimento per il mercato degli NPL, le
banche italiane dovrebbero effettuare pesanti svalutazioni con conseguenti ricapitalizzazioni.
Per dare un’idea
della problematicità di questa valutazione, è stato calcolato che se gli NPL di
Banco Popolare fossero valutati anche al 20%, la banca dovrebbe fare ulteriori
svalutazioni per circa quattro miliardi con le inevitabili conseguenze
sull’aumento di capitale. Fonti autorevoli (Bernstein, ad esempio) confermano
che si sta innescando un mercato degli NPL a valori molto inferiori al loro book value. In sintesi, sugli NPL sembra
emergere una situazione di stallo. La convinzione di tutti, ancora solo
sussurrata, ma forte e chiara, è che il problema non possa essere risolto dalle
singole banche in autonomia. E’ considerato indispensabile un intervento
pubblico, anche se le norme attuali costringeranno a mascherarlo.
Aggiungerei una
preoccupazione ulteriore: gli NPL
prossimi venturi. Ne parlerò più avanti, ma posso anticipare che di quelli
che si stanno formando nessuno sa alcunché. Solo sappiamo, come sostiene Banca
d’Italia, che la percentuale di sofferenze sui crediti sta continuamente
aumentando. Dal Rapporto sulla Stabilità finanziaria di Banca d’Italia 2016[2] si apprende che gli NPL da
imprese sono passati dal 29,4% del giugno 2015 al 29,9% del dicembre 2015.
Anche l’ottimismo (seppure molto pacato) non convince molto. E’ vero che un
miglioramento dell’economia permetterebbe lo smaltimento degli NPL e ne
frenerebbe la formazione di nuovi, ma occorre essere realistici. A metà degli
anni 90’ è stato possibile abbattere lo stock degli NPL solo a fronte di una
crescita economica del 2% annuo. Oggi nessuno può prevedere questo tipo di
crescita nei prossimi anni.
Sullo sfondo,
infine, emergono le problematicità non risolte di Banche come Carige e Gruppo
MPS.
Dal punto di vista
del macroscenario, non cala la preoccupazione di possibili eventi sistemici problematici
come la inevitabile riduzione dei ricavi da intermediazione e le probabili
richieste di innalzamento dei requisiti di capitale da parte della BCE, oppure
come l’emergere del problema dei titoli
del debito pubblico detenuti dalle banche. Se si abbandona (come Olanda e
Germania sostengono sia necessario fare) l’ipotesi che siano titoli a rischio
zero e si introducono vincoli al loro possesso (come percentuale sull’attivo)
le banche italiane ne saranno certamente penalizzate.
Questa diatriba
si inserisce in una scarsa fiducia europea
verso l’Italia che porta a trattare le banche italiane in modo disomogeneo
(due pesi e due misure) rispetto alle banche di altri Paesi. Consideriamo, a
mo’ di esempio, la HDH Nordbank. Innanzitutto per essa Bruxelles non ha ancora
annunciato di quanto abbatterà i crediti in default,
mentre nel caso delle quattro banche locali, salvate alla fine dell’anno scorso,
quella informazione fu data subito. E poi, sempre Bruxelles, ha dato un anno di
tempo per cedere la banca mentre ha concesso solo quattro mesi (anche se
inevitabilmente prorogati) per cedere le nuove banche nate dalle banche locali in
crisi.
E’ necessario
fare qualche osservazione anche sul Fondo
Atlante. Innanzitutto corre l’obbligo di riconoscere che, certamente, è
servito ad evitare i rischi estremi, ma non a risolvere definitivamente i
problemi. E, poi, non si può negare che esso rappresenti una deriva di
istituzionalizzazione del sistema bancario perché attiva pratiche di mutuo
soccorso tra concorrenti, invece di spingere le banche in crisi ad attivare
cambiamenti che facciano produrre loro maggior ricchezza. Non ci sono storie: ogni
politica di aiuti, sotto qualunque forma, porta verso una istituzionalizzazione
del sistema bancario che finisce per perdere sempre più il connotato di
intrapresa.
Un ultimo
elemento da considerare: la politica dei tassi bassi in qualche modo aiuta lo
sviluppo, ma anche aumenta le incertezze e le turbolenze dei mercati
finanziari.
A conferma della preoccupazione sociale, fondata sui
fatti di cui ho appena riferito, vi sono i corsi di Borsa dei titoli bancari
che da novembre 2015 sono diminuiti del 41% (contro il 22% delle banche
europee) e la loro volatilità è aumentata con picchi di oltre il 40%[3]. In questo quadro è
difficile escludere il timore che altre crisi appaiano all’orizzonte. L’esperienza
insegna che, all’inizio, i guai di un settore economico appaiono come problemi
“locali” (apparentemente solo frutto di malversazioni o incompetenza), ma poi
rivelano la loro natura strutturale.
Uscire
dall’incertezza
In realtà,
stiamo vivendo un continuo oscillare quasi giornaliero tra rassicurazioni ed
ottimismo. E il sistema dei media fa solo da moltiplicatore di questo
oscillare. Spesso nello stesso numero di un giornale qualcuno racconta di
ottimismo e qualcun altro giustifica la preoccupazione sociale. Sarebbe
necessario approfondire il ruolo del sistema dei media perché esso oggi in
realtà non solo non aiuta a sciogliere i dubbi, ma costituisce uno
“stabilizzatore di conservazione”. Ma non mi è possibile farlo in questa sede. Non
possiamo, però, rimanere sulle montagne russe di ottimismo e preoccupazione. Come scenderne? Per cercare di rispondere
“profondamente” (cioè senza cadere in banali luoghi comuni) a questa domanda
pensiamo sia necessario utilizzare una prospettiva
strategica, fondata su di una solida prospettiva
cognitiva.
La
prospettiva strategica
Il fatto che le
banche riescano o meno a svolgere il ruolo di intermediari di sviluppo non
dipende dal Fato. Dipende dalle scelte strategiche che operano e dai loro comportamenti.
Dipende, cioè, dai Piani Strategici che mettono in atto. Allora abbiamo analizzato
i Piani Strategici delle Banche. Le fonti che abbiamo utilizzato
sono i Business Plan delle banche,
che costituiscono i Piani Strategici formalizzati. Li abbiamo integrati con documenti
di fonte autorevole come Banca d’Italia, con le notizie e le analisi che
appaiono sul sistema dei media e con le dichiarazioni dei top manager bancari.
La
prospettiva cognitiva
Per valutare i
Piani Strategici delle banche ci siamo seduti sulle spalle dei giganti.
Intendiamo dire che abbiamo utilizzato un sistema di risorse cognitive che non
sono mai state utilizzate e che hanno l’autorevolezza dei giganti che le hanno
generate. Queste stesse risorse cognitive ci hanno permesso di sviluppare il
presente scenario e le proposte che contiene. Di quali risorse cognitive si
tratti, dirò in seguito.
La via
dell’agire strategico
Anticipando le conclusioni
che abbiamo tratto seguendo queste due prospettive, ci siamo resi conto che i
Piani Strategici messi in atto dalle banche sono sostanzialmente conservativi (non prevedono alcuna
innovazione sostanziale nel fare banca) e difensivi:
(considerano l’ambiente in cui vivono popolato di minacce e non di grandi
potenzialità di sviluppo). Piani Strategici di questo tipo non possono
permettere alle banche di diventare intermediari di sviluppo. Portano anche
lontano dai comportamenti tipici dell’impresa. Chiarisco cosa intendo dire con
un esempio. Una banca che si sentisse antropologicamente impresa dovrebbe farsi
un punto d’onore di risolvere da sola, in autonomia, il problema degli NPL. Il
guaio è che non sa proprio come fare. E, tristemente, pensa che non sia
possibile farlo.
Allora emerge un
imperativo categorico, inevitabile per affrontare una vera e propria urgenza sociale:
le banche devono costruire Piani Strategici (che abbiamo definito
imprenditorial-generativi) che si prefiggano di immaginare e realizzare
cambiamenti profondi nel modo di fare banca. Ma, quali cambiamenti?
Proprio solo
perché solidamente assisi sulle spalle dei giganti e non per qualche nostro
merito particolare, ci sono apparse vive, alte e forti alcune direzioni di
futuro verso le quali proponiamo di indirizzare lo sviluppo del sistema
bancario italiano.
Obiettivo di
questo documento è di descriverle fino alla operatività più concreta. Quasi un
libretto di istruzioni perché le banche davvero riescano a svolgere il ruolo di
intermediari di sviluppo. Per riprendere l’esempio precedente, tra queste
“istruzioni” vi sarà anche il modo per far sì che le banche riescano a risolvere
il problema degli NPL in autonomia.
https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/rapporto-stabilita/2016-1/RSF-1-2016.pdf
Seguo da tempo il suo blog e rinnovo i complimenti per le sue lucide e concrete analisi. Vivo ed opero nel territorio nativo della Veneto Banca e non nego che sia stata per me una amara sorpresa vedere la capitolazione di un istituto storico della nostra terra. Ma ora ho sinceramente timore che se questo è accaduto in una terra ricca di capitale e lavoro questo possa accadare a tutte le "piccole" banche nazionali con una ricaduta sul territorio devastante per le piccole imprese e le famiglie.
RispondiEliminaLa ringrazio per i complimenti. Mi permetto di aggiungere che i territori possono fare molto per le loro banche. Non tanto in termini finanziari, ma chiedendo loro progetti di sviluppo alti e forti. E' insopportabile che le banche continuano a dire:prima mi date i soldi e poi vi dico cosa ne farò. Non permetteteglielo più.
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