di
Cesare Sacerdoti
“Grandi
opere, 21 arresti per corruzione sulla TAV” titola oggi Repubblica.
Eppure c’era
un tempo in cui le grandi opere erano un motivo di orgoglio per il nostro
Paese.
L’autostrada
del Sole ne è l’esempio più eclatante: 750 km di autostrada in 8 anni; dal
nulla.
La
rilettura, oggi, di quell’impresa,
propone vari spunti di riflessione. Ne propongo alcuni
L’opera
pubblica e il sogno
L’idea di
una moderna rete di autostrade nasce da un’iniziativa del Governo, con la legge
463 del 21 maggio 1955, detta legge Romita, dal nome del Ministro dei Trasporti
che l’aveva fortemente voluta. Anche allora non fu un’impresa facile: Pinto,
nel suo libro La strada dritta, ricorda che furono “sei mesi di scontri e
battaglie parlamentari con i partiti di sinistra furibondi per aver portato via
risorse a ferrovie e strade nazionali, accusando il governo di essere lacchè
della Fiat: quelle auto, diceva la stampa, erano la vera ragione del piano”.
Anche all’interno della maggioranza ci furono contrasti: “una delegazione
democristiana li rimprovera di non aver dato la precedenza alla ricostruzione
delle chiese”.
Non c’erano
riferimenti validi: in Europa solo la Germania aveva realizzato delle
autostrade, ma con lo scopo di trasportare rapidamente le proprie truppe. “Il
progetto italiano nasceva da tutt’altre necessità. L’autostrada era pensata per
le famiglie, che si muovevano con piccole utilitarie e per gli autotreni con
rimorchio”. L’unico riferimento erano gli Stati Uniti, da cui Autostrade prese
spunti (p.e. il concetto degli svincoli come sistema di rallentamento del
traffico in uscita, oppure l’idea che “Non è l’autostrada che si avvicina il
più possibile alle città, ma è la città che deve trovare il modo migliore per
agganciarla senza provocare rallentamenti “).
Eppure si
decise di fare da soli: “Debbono essere gli italiani a costruire la loro
autostrada: serve a unire il loro Paese”.
La società Autostrade fu creata dal nulla con un esiguo capitale
sociale. Il progetto dell’Autostrada che unisse l’Italia da Milano a Napoli era
appena abbozzato e partiva da uno studio di fattibilità (solo del tratto
padano) realizzato da “Fiat, Eni, Pirelli e Italcementi, regalato allo Stato
perché spaventati dall’enormità dell’impresa”.
C’erano
regole strette per fare le strade: Pinto narra che ANAS non riuscisse ad
accettare una strada senza paracarri e senza marciapiedi.
Non c’erano
soldi: il management dovette cercarli. Anche all’estero, da Lehman.
Non c’era
neanche la certezza di una redditività immediata dell’opera: sempre ANAS
sottolineava che al momento in Italia circolavano solo 1,8 milioni di auto (un
italiano su 27 aveva l’auto).
Ma c’era una
visione, un sogno. Un sogno che man mano che l’opera avanzava, coinvolgeva
tutti. Sempre Pinto ricorda che la gente (gli ingegneri, le imprese, i
lavoratori e i politici) avesse acquistato fiducia nell’opera, da quando ha cominciato a viaggiare sui tratti
aperti e a risparmiare tempo. E perchè, come dice un personaggio del romanzo di
Pinto, con essa “arriva la modernità”. Anche in un bel documentario di Raistoria, viene mostrata la contadina contenta della costruzione
dell’autostrada perché ne vede vantaggi per la sua attività. E le città? “tutti
i centri italiani sembravano presi dalla smania di essere toccati
dall’autostrada” e “Siena e Perugia si erano date battaglia, schierando
ciascuna convegni, esperti, piazze piene di gente, pareri, pressioni e nomi
importanti”.
Il contrario
di quanto accade oggi per ogni opera pubblica
“Mi serve Un
uomo che dal nulla sappia portare a termine un’impresa” disse, sempre nel
racconto di Pinto, Aldo Fascetti, Presidente dell’IRI, a Cova neo Amministratore
delegato di Autostrade. “Era questa la proposta: costruire il più grande
monumento del Paese non per i morti per i vivi”
Cova è “uno di quegli alti dirigenti
dell’impresa pubblica che furono definiti commis
d’état o, anche, imprenditori pubblici, a cui si deve la rinascita del
sistema industriale italiano. Questi
dirigenti pubblici mettevano la propria imprenditorialità e capacità di
“guardare lontano” al “servizio dello Stato, servizio inteso come adempimento
massimo del proprio essere cittadini” [Arena 2011].
Nel dopoguerra il settore pubblico svolse un
ruolo fondamentale, accanto agli imprenditori privati, per lo sviluppo del
Paese: “Gli imprenditori pubblici sono artefici o esecutori di programmi che
divengono elemento qualificante dell'azione di governo, gli imprenditori
privati si muovono con successo in un mercato sempre più aperto e competitivo”,
sintetizza Marco Doria [Doria 1999].
In tale
contesto, gli alti dirigenti dell’IRI realizzarono e portarono avanti il
progetto strategico di modernizzazione del paese in un ambito di economia
aperta a livello internazionale. Essi, in generale, furono animati da una
grande capacità di visione e dalla fedeltà al mandato da perseguire: “quello di
favorire lo sviluppo del paese, uno sviluppo che le sole imprese private sono
capaci di garantire” (C.Sacerdoti
Strutture di Mondo- Il Mulino 2013).
Ancora Pinto
ricorda che “Quegli uomini non stavano solo cercando il modo più razionale per
fare una nuova strada. Stavano cercando di cambiare la vita di un’intera
nazione, com’era successo in America con la ferrovia”.
E Pinto fa
dire a Lehman, dopo aver esaminato il progetto, “la mia banca finanzia nuove
imprese e può permettersi il lusso di fare piani di medio lungo periodo. Ma il
vostro mi sembrava troppo nebuloso, vago, direi: non c’era nessuno studio sullo
sviluppo del traffico e sulla redditività, non una parola sulla rete di
servizi..stavo per rifiutarlo quando mi sono fatto una domanda: Perché? Perché
vogliono farla? Mi sono detto: lascia perdere le nude cifre; immaginati gli
uomini assieme alle cose. E allora credo di aver scoperto cosa si nascondeva
tra quei fogli…ci vuole gente dura per immaginare il futuro e voi lo siete”.
Un
management che guarda lontano, che pensa all’interesse sociale (oggi diremmo
degli stakeholder) prima ancora che a quello della propria azienda e, neanche a
dirlo, quello personale. Eppure si batte duramente per garantire la redditività
delle opere (vedi scontro con ANAS sulla realizzazione di ulteriori
autostrade). Un management con spirito imprenditoriale.
Le grandi
opere come cantieri di idee e di ricerca
Anche per accelerare i
tempi, Autostrade decide di affidare le opere da realizzare (strada, viadotti e
gallerie) in toto, progetto compreso, con l’istituto “dell'appalto concorso, dividendo il
percorso in centinaia di piccoli lotti di pochi chilometri ciascuno con l'idea
che tutte le imprese italiane dovessero essere coinvolte e tutti gli ingegneri
progettisti italiani potessero disegnare il loro originale ponte per la strada
dell'Unità nazionale. In questo contesto Riccardo Morandi, Silvano Zorzi, Giulio
Krall, Arrigo Carè e Giorgio Giannelli, Carlo Cestelli Guidi, Guido Oberti e
tanti altri furono chiamati da imprese orgogliose di contribuire a questo
progetto collettivo” (Sole 24 ore 15-10-2014) . Ne deriva un’Autostrada che non usa un’unica
tecnologia per le varie opere, ma si affida all’inventiva e all’esperienza dei
singoli committenti. Vengono
così sperimentate e utilizzate tecnologie innovative come il cemento
precompresso (poi utilizzato in numerose altre opere edili, vedi ad esempio
l’auditorium della RAI a Napoli) o il sistema di costruzione del grande
viadotto dell’Aglio, in cui Dalmine sposta la centina (che aveva richiesto 4
mesi per essere montata), per realizzare la seconda carreggiata.
E con questo
si dà vita a “…un’intera generazione di architetti e ingegneri consapevoli
dell’occasione non di ricostruire qualcosa, ma di avere a che fare con qualcosa
di nuovo e possente fatto di gallerie ponti e
viadotti e dovevano fare i conti con la natura” con lo scopo, Pinto fa
dire a un suo personaggio, di “costruire una nuova opera d’arte, bella come
Venezia e poi difenderla con quel
miscuglio di fantasia e incoscienza che fa parte del nostro carattere”
Nasce così
l’Autostrada del Sole a cui il MOMA di New York dedicherà una mostra
fotografica.
L’opera
pubblica come motore di sviluppo dell’intera economia nazionale.
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