di
Luciano Martinoli
Dall'assemblea di un'associazione di industriali, alcune considerazioni sulle strategie perseguite a partire dalle dichiarazioni degli interventi. I mali del tessuto economico nazionale non sono nascosti ma autodichiarati.
C’è stato qualche giorno fa l’assemblea annuale dell’associazione
degli industriali costruttori di macchine, non è importante quali in particolare.
Ad essa è seguito un convegno sull’argomento del giorno: Industria 4.0.
E’ stata
presentata un’indagine, eseguita presso alcuni associati, sul grado di
conoscenza di queste tecnologie e sul loro uso. E’ seguito un dibattito di
esperti, professori universitari e un solo imprenditore, coordinato dal
giornalista di grido del momento.
Cosa si è detto di tanto importante e indicativo sullo stato generale delle nostre industrie?
Cosa si è detto di tanto importante e indicativo sullo stato generale delle nostre industrie?
A differenza di quanto ci propone la narrazione mediatica,
ovvero che questa opzione tecnologica, come altre, è un obbligo e
costituisce la panacea per tutti i mali delle aziende, un qualche livello di attenzione è stato sollevato.
Fatto l’investimento come e
quanto ritornerà? Quale sarà l’impatto organizzativo? Quali tecnologie
scegliere e, soprattutto (madre di tutte le domande), per farci cosa?
Quest’ultimo interrogativo è il più emblematico. Infatti,
come già scritto più volte in passato da questo blog, la tecnologia non è una
strategia, ma un fattore abilitante di essa. Purtroppo tra le possibili strategie
che Industria 4.0 può aiutare a realizzare, sono stati identificati solo un
miglior servizio al cliente, un abbassamento dei costi, una maggiore
flessibilità.
Nessuno, ahinoi, ha citato la strada maestra, la strategia
regina che ogni impresa dovrebbe cercare di perseguire sempre: quella “genesi
imprenditoriale” che si realizza creando mercati che prima non esistevano. E se l’Industria 4.0 viene percepita solo come un modo per
servire meglio il cliente, ne siamo ben lontani.
Come giustamente ricordava il
pluricitato Steve Jobs “non è mestiere del cliente sapere ciò che vuole”. Non è
una dichiarazione di arroganza ma, al contrario, di umiltà e responsabilità. Di
umiltà perché mantiene lo spirito di servizio dell’impresa in una dimensione
più profonda (e feconda per tutti): non chiedo al cliente cosa vorrebbe ma propongo nuovi modi di
intendere la realtà, di qualsiasi spicchio di essa stiamo parlando, attraverso la creazione di nuovi significati anche attraverso prodotti, o servizi, esistenti. Di esempio,
a tal proposito, l’affermazione di Enzo Ferrari, la cui intervista è disponibile, che umilmente affermava: “mi sono permesso di giudicare l’automobile come una conquista di libertà per l’uomo”.
Ferrari non inventò l’auto
e nemmeno quella sportiva, ma certamente è stato capace di trovargli un
significato nuovo che è stato talmente profondo da sopravvivere al suo
inventore. Ci sono molte auto di lusso, Porsche, Aston Martin, Bugatti, ecc., ma
volete mettere il senso di libertà che ispira una Ferrari?
Ferrari non è andato in giro a chiedere quale auto sportiva i clienti volevano, ha fatto quella che piaceva a lui. I clienti non hanno idea di cosa è un'auto sportiva, lui si è permesso di proporla.
Ferrari non è andato in giro a chiedere quale auto sportiva i clienti volevano, ha fatto quella che piaceva a lui. I clienti non hanno idea di cosa è un'auto sportiva, lui si è permesso di proporla.
La dichiarazione di Jobs inoltre è di responsabilità perché,
indirettamente, ricorda che il rischio, in questa attività di proposta e
costruzione del “nuovo mondo”, è tutto dell’imprenditore.
Dunque le caratteristiche dell'imprenditorialità rigeneratrice sono “servizio e rischio”. Invece si è parlato di supporto
agli investimenti, di “cultura dei fatti”, di “concretezza”, di “pratica”,
tutte cose che hanno portato il sistema industriale italiano, come ricorda una semplice
statistica citata il cui autore è Vincenzo Boccia presidente di Confindustria,
ad avere il 20% di aziende che vanno bene, il 60% così e così, il 20% male. Detto in
altri termini l’80% delle aziende ha urgente bisogno di ritornare ad una strategia
di genesi imprenditoriale.
Forse è ora, per quell’80%, di smettere di “fare” cose inutili
o che interessano sempre meno, producendo risultati scadenti e chiedendo il
supporto delle comunità (banche, stato, lavoratori, ecc.), e di fermarsi a
pensare come tornare a fare gli imprenditori, quelli veri, come certamente sono
stati i loro padri e nonni che hanno costruito quelle aziende che, all’epoca,
andavano tutte bene.
E che oggi, nella stragrande maggioranza dei casi, vanno “così
e così”!
Non è solo questo il problema. Ferrari oltre che le idee e la voglia di rischiare, aveva un sistema che poteva investire sulla sua impresa.
RispondiEliminaCaro Luciano, ti segnalo che ho preso spunto dal tuo articolo per un post che ho appena pubblicato: https://stefanopollini.com/2017/07/24/passare-dai-fatti-alle-parole/#more-584 . L'idea mi è venuta anche dopo aver letto un post di Osvaldo Danzi in cui scriveva che se eliminassimo dal vocabolario le parole “tradizione”, “innovazione” e “leader di mercato” il 90% delle aziende non saprebbero più cosa dire”. Mi pare proprio che è’ il sintomo che nella maggioranza dei casi le aziende non sanno cosa dire! Hanno pensieri poveri e linguaggi poveri e quindi usano parole vuote, alla moda ma che ormai non significano più niente. Il problema non è più quello di dare sostanza alle dichiarazione d’intenti. Il problema sono proprio le dichiarazioni d’intenti che sono ripetitive, banali, poco stimolanti. E' proprio vero - come scrivi tu - che i mali del tessuto economico nazionale non sono affatto nascosti ma autodichiarati!!!
RispondiEliminaCentrato e affondato.complimenti
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