di
Francesco Zanotti
La tesi che voglio illustrare è che l’attuale
sistema delle imprese è in affanno esistenziale. Sta perdendo inesorabilmente
la sua funzione, sia esistenziale che funzionale. Le alternative sono: mantenerlo
vivo artificialmente o attivare un processo di trasformazione profonda. Purtroppo
oggi tutte le politiche che si stanno immaginando (ma non attuando) mirano a
mantenerlo vivo artificialmente.
Ecco la tesi … prossimamente proverò a indicare
cosa si può fare subito ed efficacemente sul breve.
Innanzitutto, nelle società avanzate, sta emergendo
una nuova antropologia (il desiderio di una modalità di vita e di socialità
diverse) che sta, sempre di più, facendo
perdere di significato, sia esistenziale che funzionale, ai prodotti attuali
delle imprese manifatturiere. Il prototipo di questa perdita di significato e
funzionalità è costituito proprio dall'auto. Nell'immaginario soprattutto
delle nuove generazioni, non è certo lo strumento di auto-realizzazione (significato esistenziale) che aveva la 500 per la mia generazione. Di più: il
tipo di auto che si produce ha ancora struttura e prestazioni (significato
funzionale) che non sono adatte alle densità attuale di veicoli, alla struttura
delle città, alle condizioni complessive del traffico. L’auto rimane mito, forse, nelle generazioni
adulte, ma questo non basta a frenarne la perdita complessiva di significato e
funzionalità.
La perdita di significato esistenziale e funzionale
dell’auto si riproduce nella stessa perdita di significato di molti altri
oggetti costruiti dalle attuali imprese manifatturiere.
Si sono aperti certamente nuovi mercati. Ma non
attendiamoci che in essi si aprano, per le nostre imprese, le prospettive che
si stanno chiudendo da noi. Innanzitutto
quei mercati non potranno essere, strutturalmente, cioè per motivi storici,
antropologici e politico-sociali, cloni dei mercati passati delle società
avanzate. E non si svilupperanno con le stesse dinamiche. Non illudiamoci,
insomma, di vedere in tutto il mondo dinamiche di crescita, sia quantitative che
qualitative, simili a quelle del boom economico italiano.
Quei mercati sono e saranno sempre di più luogo di
sviluppo di una nuova concorrenza che tenderà non solo a vendere nei loro
mercati specifici, ma ad attaccare i nostri mercati. Innanzitutto giocando
proprio sulla variabile che diventa decisiva quando i prodotti perdono il loro
significato esistenziale e funzionale: il prezzo. Poi, sviluppando anche una
nuova creatività che non avrà la funzione accessoria, quasi una protesi di
identità, che ha la nostra creatività sui nostri prodotti. Svolgerà un ruolo
“rivoluzionario” sul significato e sulle prestazioni dei prodotti frutto della
loro specificità storica, antropologica e politico-sociale. Più semplicemente,
se noi puntiamo sul Made in Italy, attendiamoci che altri svilupperanno altri
“Made”.
Ma i guai
non si fermano qui
Il contrarsi dei mercati nelle società avanzate, la
crescita certamente problematica nel resto del mondo del fabbisogno di questa
tipologia di prodotti e la nascita, in quelle contrade, di nuove imprese
genereranno un aumento della competizione che costringerà le nostre imprese a
ridurre il fabbisogno di manodopera, a peggiorare le condizioni complessive di
lavoro. Ciononostante non saranno in grado di aumentare in modo significativo
la capacità di produrre cassa. Tutto questo genererà una crescente ostilità
sociale verso il concetto stesso di impresa, facendo dimenticare che la crisi
non è del concetto di impresa come tale, ma solo di questo tipo di imprese
manifatturiere.
L’affanno della Natura
Da ultimo, arriviamo alla Natura. Anche se tutti
desiderassero i prodotti delle imprese del mondo avanzato, li comprassero senza
provare anche a costruirli (ma dove prenderebbero i soldi per pagarli?), ci si
scontrerebbe con la Natura. Essa non sopporta più un aumento ulteriore di
questo tipo di prodotti, dei sistemi attuali di produzione. Essi, infatti, la
considerano non un sistema complesso in evoluzione, ma una fonte (inerte) di
energia e materie prime ed un deposito (altrettanto inerte) di rifiuti pressoché infiniti.
Affanno, noia e tragedia
La conclusione è semplice: questo tipo di
manifattura (per il tipo di prodotti e di processi produttivi) non può
ulteriormente svilupparsi nel modo che servirebbe per aumentare, ad esempio, la
quantità e la qualità dell’occupazione.
Possiamo anche guardare la situazione in positivo:
l’emergere del desiderio di una nuova qualità della vita, sia lavorativa che
non, di un nuovo rapporto con la Natura, la disponibilità di nuove tecnologie e
di nuovi sistemi di produzione di oggetti (si pensi solo alle stampanti 3D) di
energia sono fonte di ispirazione per nuovi prodotti e nuove modalità di
produzione.
Possiamo anche essere positivissmi: un intero nuovo
mondo bussa alle porte.
Ma questo guardare in positivo fa vedere ancora più
in negativo le prospettive per l’attuale sistema manifatturiero.
Anche tutto
il resto è affanno, noia e tragedia
La crisi dell’impresa manifatturiera, questa crisi
di significato, di funzionalità e di incompatibilità crescente con l’Uomo e la
Natura, genera, poi, la crisi di tutto il sistema dei servizi e della finanza.
Si pensi solo ai trasporti: anch'essi inevitabilmente rallenteranno il loro
ritmo di crescita sia a causa della riduzione degli scambi dei prodotti
attuali, sia a causa della nuova localizzazione di produzioni di beni e di
energia. Si pensi a tutte le istituzioni finanziarie che hanno “bloccato”
(oramai è un blocco e non un investimento) le risorse finanziarie che sono
state loro affidate in questo tipo di imprese.
Da noi, in Italia (perché questo rapporto
dell’Italia parla) la situazione è negativamente profetica: si avvertirà prima
e più intensamente che in ogni altra parte del mondo la dimensione
profondamente antropologica di questa crisi.
Una grande parte della nostra manifattura è fatta,
come tutti sanno da piccole e medie imprese (PMI). Ma questa descrizione va
completata: queste PMI sono per la maggior parte ancillari a qualche media o
grande impresa. Non hanno una autonomia di mercato. Le imprese, poche, che
sono riuscite ad avere e che mantengono sbocchi in mercati ancora positivi (circa
4000 valuta Aldo Bonomi) non riescono a trainare il sistema delle PMI e la
nostra economia. Tanto meno ci riescono i pochi grandi Gruppi che (sempre Aldo
Bonomi) definisce il “capitalismo delle reti”.
A questo punto mi viene voglia di dare ragione alle
banche più attente: non è certo utile chiedere alle banche di supportare
imprese che non riescono, e sempre meno riusciranno, a stare sul mercato.
Riassumendo, il nostro sistema economico (produttivo e
finanziario nel suo complesso) sta vivendo una crisi di quantità e di valore
che è frutto della sua perdita di significato esistenziale e funzionale e di una
crescente incompatibilità ambientale.
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