di
Luciano Martinoli
La rivista Harvard Business Review ha pubblicato, come ogni anno, la lista dei migliori CEO al mondo.
Come sono stati valutati questi signori per entrare nella classifica? Attraverso tre parametri che hanno a che fare con le azioni: il ritorno per gli azionisti sul valore di borsa, sul valore rispetto al settore industriale e l'incremento della capitalizzazione globale. Dunque, in sintesi, come hanno arricchito i "soci" delle aziende che gestiscono.
Ma chi sono questi maghi del management?
Al di là dei nomi sono "talenti", ovvero, come specifica la stessa rivista in un articolo del numero di Ottobre 2014 dal paradigmatico titolo "The rise (and likely fall) of the talent economy", persone il cui lavoro è creativity-intensive (maggiore richiesta di giudizio indipendente e di prendere decisioni), rispetto a quello routine-intensive di tutti gli altri. Seguiamo, allora, come i "talenti" in questione, riconosciuti come i CEO delle corporations, svolgono il loro lavoro. Lo stesso articolo cita l'origine della necessità delle aziende, sentita a metà degli anni '70 del secolo scorso, di allineare gli interessi dei manager e degli shareholder, talenti e capitale, per evitare danni ai soci e all'economia in generale. Il meccanismo trovato fu quello dell'incentivazioni sulle azioni che ha scongiurato, forse, il pericolo temuto ma ne ha creato un altro ben più grave. Infatti la retribuzione dei CEO è aumentata esponenzialmente negli anni portando questi signori ad occuparsi della "gestione del valore percepita " invece della "creazione del valore reale". Infatti, grazie alla gestione delle aspettative dei mercati finanziari vi è la possibilità di diventare miliardari sfruttando la volatilità dei mercati, la quale è altamente desiderata per realizzare importanti guadagni nel breve come nel medio periodo.
Al di là dei nomi sono "talenti", ovvero, come specifica la stessa rivista in un articolo del numero di Ottobre 2014 dal paradigmatico titolo "The rise (and likely fall) of the talent economy", persone il cui lavoro è creativity-intensive (maggiore richiesta di giudizio indipendente e di prendere decisioni), rispetto a quello routine-intensive di tutti gli altri. Seguiamo, allora, come i "talenti" in questione, riconosciuti come i CEO delle corporations, svolgono il loro lavoro. Lo stesso articolo cita l'origine della necessità delle aziende, sentita a metà degli anni '70 del secolo scorso, di allineare gli interessi dei manager e degli shareholder, talenti e capitale, per evitare danni ai soci e all'economia in generale. Il meccanismo trovato fu quello dell'incentivazioni sulle azioni che ha scongiurato, forse, il pericolo temuto ma ne ha creato un altro ben più grave. Infatti la retribuzione dei CEO è aumentata esponenzialmente negli anni portando questi signori ad occuparsi della "gestione del valore percepita " invece della "creazione del valore reale". Infatti, grazie alla gestione delle aspettative dei mercati finanziari vi è la possibilità di diventare miliardari sfruttando la volatilità dei mercati, la quale è altamente desiderata per realizzare importanti guadagni nel breve come nel medio periodo.
Una delle tecniche è senz'altro la pratica del taglio costi, sopratutto dei lavoratori. Immediata, facilmente comprensibile, e conseguentemente ben accolta dalla comunità finanziaria, ha in genere un buon effetto sul valore di borsa. Che poi distrugga valore aziendale nel lungo termine, perchè il valore di quelle conoscenze sarà perso per sempre, sembra non interessare nessuno.
Un'altra devastante pratica per la gestione delle aspettative dei mercati finanziari da parte dei CEO è ben documentata da un altro articolo di HBR, questa volta del Settembre 2014, dal titolo "Profits without prosperity" dove si racconta le cause e gli effetti del riacquisto di azioni proprie. Lo scopo è proprio quello di condizionare il titolo della propria azienda, con costi sostenuti dall'azienda ovviamente, in occasioni di scadenze "opportune" per il management.
Un esempio di tutto questo ci viene dal numero 4 della classifica dei migliori CEO: John Chambers di Cisco. Nei precedenti articoli citati vengono illustrati propri alcuni esempi di queste pratiche nel caso di Cisco. In particolare su "Profits without prosperity", pag. 54, si cita in un box che a fronte di un fatturato di 64 miliardi di dollari annui, nei passati 10 anni tra riacquisti e dividendi Cisco ha speso 77 miliardi di dollari. A scapito evidentemente di altre attività di lungo termine quali la ricerca o il mantenimento, in momenti difficili, di know how. Guarda caso lo stipendio di Chambers è basato al 92% sull'andamento delle azioni, di cosa volete allora che si occupi?
E, nel caso specifico, voci sulla inadeguatezza di questo signore si sono levate anche da altre parti, ad esempio Forbes che in un articolo di Adam Hartung si spinge a chiedere, motivandole, le dimissioni.
HBR nel pubblicare la classifica è impazzita? I CEO sono tutti cattivi e pensano solo a loro stessi? Troppo banale e affrettato come giudizio complessivo ma sopratutto ingiusto nei confronti dei CEO fondatori che hanno comportamenti e interessi molto diversi, come dimostra la presenza al numero 1 di Jeff Bezos di Amazon e al 20 di Paolo Rocca, unico italiano, di Tenaris.
Spero sarete daccordo nel valutare questo puzzle che ho composto come una dimostrazione, ennesima, della perdita di significato progressiva, e sempre più drammatica, del nostro sistema industriale.
La soluzione non è un invito ad essere più buoni o le minacce di pesanti sanzioni, come pure in qualche modo invoca l'autore di uno degli articoli sorpa citati.
Questi signori fanno ciò che sono in grado di pensare, non altro. Fare altro allora è possibile solo se saranno in grado di pensare altro.
Nel caso di Cisco, come di tante altre aziende, la prosperità futura di lungo termine non passa dall'allineamento degli interessi degli shareholder e dei manager, ma dalla capacità globale dell'azienda di creare un suo futuro migliore. Farlo non è esercizio di "command & control" ma di progettazione strategica con i migliori strumenti disponibili al mondo. La rappresentazione di tale processo, sempre in itinere, dovrebbe essere nel Business Plan, documento entusiasmante e non burocratico. Ma a vedere i documenti a tal proposito disponibili sul sito di Cisco c'è ben poco da entusiasmarsi.
Dunque tutto il mondo è paese? No, direi che la deriva sistemica, che si manifesta con la "crisi", del mondo industriale appare in modo sempre più drammatico in ogni paese. Anche, forse sopratutto, in quello che ne ha beneficiato di più finora.
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