...il gusto, l'orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, abbellire le sedi, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno.
…la cultura dell’impresa, ossia quella dell’ imprenditore- sia esso individuale famigliare o manageriale- che si comporta come classe dirigente,che lavora come se il destino del mondo dipendesse dal suo agire e così facendo sceglie di lavorare nell’ impresa perché vive l’ impresa come libertà dei moderni.
Come comunicato da queste pagine virtuali, una nostra ricerca sul “Rating dei Business Plan” delle aziende dell’indice FTSE MIB della Borsa di Milano, è stato pubblicato sulla rivista “Il Mondo” qualche settimana fa.
L’attività, condotta sui documenti ufficiali e pubblicamente disponibili sui siti web aziendali, ci ha consentito di classificare, censire, valutare ogni singola affermazione contenuta nei piani. Conseguentemente ci siamo formati un giudizio complessivo, sui valori che esprime e sulla mentalità e cultura che li hanno ispirati.
Giudizio non esaltante...
Le aziende in questione vengono considerate dai propri manager come enormi oggetti complicati, ovvero non semplici e lineari, ma non complessi.
La cultura di fondo è chiaramente quella “classica”, che vede il mondo, e dunque anche l’azienda che vive in esso, come fatto di parti, identificabili e separabili.
Vi è la ricerca spasmodica del rapporto causa-effetto, con la convinzione che esso stia dietro ad ogni fenomeno aziendale, ed è sconosciuto il fenomeno della “emergenza” rispetto al quale alcune evidenze non sono riconoscibili ex-ante dall’analisi dei singoli componenti che pure hanno contribuito al suo apparire.
L’incapacità di cogliere la complessità dell’azienda è dimostrata anche dalla vista esclusivamente unidimensionale della sua natura: quella economica. La società, la finanza, la cultura, i media, le istituzioni, gli attori politici, sono visti come un disturbo; soggetti alle cui insistenti e fastidiose sollecitazioni rispondere con un “obolo”, un “di più” che nulla ha a che vedere con l’attività di base e fondamentale dell’impresa.
In nessun luogo di questi piani si percepisce la concezione dell’ambiente circostante come fonte di opportunità, stimolo e sostegno alla propria azione. Men che meno ci si riferisce ad esso come contesto da migliorare, cambiandolo con l’azione proficua e feconda dell’azienda stessa.
In totale mancanza di indicazioni “algoritmiche” sulle modalità di calcolo dei risultati futuri, senza nessuna passione e pulsione mobilitante verso magnifiche sorti e progressive, appaiono velleitarie anche le previsioni sui fondamentali economici: desideri fondati su infondate presunzioni di stabilità del domani e di continuità con l’oggi.
Il mondo dei signori che hanno sottoscritto questi piani è una triste landa, dove tutto è già scritto e leggibile; ad eccezione di catastrofi esterne, sempre giudicate naturali e per questo imprevedibili che, come tali, val la pena di registrare solo dopo che sono accadute.
Rimane il dubbio che invece di una incapacità strutturale delle nostre classi dirigenti vi sia una mancanza di cultura e schemi cognitivi adeguati a fronteggiare l'attuale situazione. Ma allora perchè non chiederli, ricercarli?
Insomma quel “gusto e orgoglio di vedere la propria azienda prosperare”, che rilevava Einaudi più di mezzo secolo fa, e quella cultura d’impresa da “classe dirigente, che lavora come se il destino del mondo dipendesse dal suo agire”, come registra più recentemente il Professor Sapelli, sembrano non albergare più nelle aziende italiane del XXI secolo (e forse anche in quasi tutte le altre del mondo occidentale… e non solo!).
E non dipenderà anche da tutto questo la crisi globale del nostro mondo?
Luciano Martinoli
l.martinoli@cse-crescendo.com
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