di
Luciano Martinoli
Il New York Times del 18 agosto lo titola in maniera molto chiara: Le banche italiane continuano a prestare soldi ad aziende immobili (stagnant) mentre la pila dei debiti si accumula.
La notizia prende spunto dalla linea di credito concessa a Feltrinelli da Unicredit e Intesa per un totale di 50 milioni di euro (alle migliori condizioni di mercato). ricordando che l'azienda ha messo in fila tre anni di seguito di perdite per un totale di quasi 11 milioni di euro. Pare che lo stesso trattamento di favore sia stato riservato a Benetton.
Da tempo indicavamo ripetutamente che il problema dei crediti deteriorati doveva essere affrontato a monte, altrimenti una volta smaltiti si sarebbe ripresentato. Ora se ne è accorto anche il prestigioso quotidiano americano che cita uno recente studio dal quale si evince che le principali banche italiane, "note per essere le più deboli dell'eurozona in termini di riserve di denaro" cita testualmente l'articolo, hanno incrementato i loro prestiti alle aziende più in difficoltà del paese.
A rincarare la dose viene citato anche il Fondo Monetario Internazionale che stima la dimensione dell'ammontare dei cattivi prestiti italiani in 360 miliardi di euro, cioè circa un terzo del totale dell'eurozona, affermando che qualsiasi miglioramento della situazione debitoria sarà di breve durata.
La ricerca conclude che "al cuore del problema vi è un legame del credito bancario inerte ad aziende inerti che ha "tenuto il coperchio" sulla ripresa della economia italiana". Il fenomeno richiama alla mente il ciclo di prestiti zombie giapponese iniziato nel 1990, così chiamato perchè teneva in vita aziende che, in assenza del sostegno bancario, sarebbero morte (dunque senza capacità autonome di sopravvivenza; situazione che avevamo già evidenziato in un nostro post precedente).
Che dire di più se non ripetere ciò che da sempre sosteniamo (e che recentemente abbiamo riassunto in uno scenario di sviluppo del sistema bancario)?
Le banche, e non solo quelle italiane, devono imparare a capire se i loro soldi produrranno quei flussi di cassa che consentiranno sia di remunerare il loro servizio sia di sviluppare le aziende. E' lì che si annida il nodo gorghiano da sciogliere per risolvere tutti i loro problemi; npl, redditività, valutazione di borsa, esuberi personale, ecc.
Il loro business, di limitarsi a valutare merito di credito passivamente, è lo stesso del millennio scorso: obsoleto e dunque inadeguato al nuovo contesto economico, come d'altronde le loro prestazioni dimostrano. Esse devono passare a stimolare e giudicare in autonomia, non attraverso relazioni o agenzie di rating, quella progettualità strategica che è l'unica strada per valutare il possibile sviluppo di chi prende i loro soldi (che poi, alla fine, sono pure i nostri).
Parlare di altro, come colpevolmente si ostinano a fare la politica, il sistema bancario stesso e i media, è solo un modo per rimandare i veri problemi alla radice della nostra situazione economica e tenere il coperchio su questa vergognosa non volontà, o incapacità, di affrontarli.
Le radici del male sono ben più profonde e chiamano in causa la cultura bancaria. Partiamo da qualche decennio addietro, l'epoca dei bot people e delle obbligazioni che le banche hanno sottoscritto a miliardi perchè garantivano rendimenti elevati senza rischio. Nel ricorrere della circostanza (anni settanta-ottaanta ) fare il banchiere era facile. Ma è anche vero che in questo modo la valuatazione del rischio - project financing - non è mai entrata nel quotidiano del banchiere: la concessione di prestiti era subordinata al deposito di una congrua somma per garanzia. Parallelamente, la banca è stata sottoposta a pressioni, interferenze, lobbies per "tenere in vita" complessi industriali fuori da ogni logica economica. A quell'epoca io ero in banca e ho vissuto "Italian banking way of doing"
RispondiEliminaAscanio Graziosi
Autore, FINANCIAL INCLUSION, Give people a job not a loan
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Grazie del commento.
RispondiEliminaCertamente vi sono anche queste componenti, ma nel frattempo il mondo è cambiato, la stessa banca è cambiata. Essa è diventata azienda ma senza averne "l'anima" che è costituita dall'imprenditore o da uno spirito imprenditoriale. Quale azienda accetterebbe mai di essere "sottoposta a pressioni, interferenze, lobbies per "tenere in vita" complessi industriali fuori da ogni logica economica" ? Ad oggi dunque, fermo restando ciò che afferma, il male è proprio il legame perverso basato sull'inerzia che l'articolo del NYT evidenzia
Il nodo è proprio gordiano, quindi, ovvero non da sciogliere ma da recidere. Indirizzare le risorse sulle idee e sulle imprese impegnate a farle crescere, e non nella sussistenza di imprese fallimentari. È troppo drastica la mia interpretazione?
RispondiEliminaLa banca deve trasformare le scadenze. Oggi ho bisogno 10 per creare 15 tra 3 anni. Se questo funziona ok viceversa non c'è e non dovrebbe esserci mai stata storia diversa.
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