Il caso Pesenti
di
Luciano Martinoli
Sul Corriere di oggi vi è un articolo a firma Giavazzi che parla degli "Steccati da demolire (subito)" per "consolidare la ripresa della nostra economia". Leggendolo si ha l'impressione che secondo l'autore, come è tipico di tutti gli economisti che si occupano di economia da 10.000 metri d'altezza e poco dal "basso" (vedere articolo Harvard Business review a tal proposito), le prestazioni economiche sono sì frutto delle prestazioni dei singoli attori, le aziende appunto, ma che non hanno "vita propria". Come se fossero tante palline, piccole o grandi, su un piano inclinato: scendono più o meno velocemente secondo gli ostacoli che trovano (da qui il titolo dell'articolo Corsera).
Purtroppo le cose non stanno proprio così!
Ma quale è la "forza" che consente a questi oggetti-aziende di muoversi con autonomia anche in condizioni difficili?
E' una forza interna: l'imprenditorialità, che si "misura" attraverso la bontà e il "fascino" dei progetti che riesce a definire (quelli descritti nei Business Plan, per capirci).
Quale è lo stato dell'imprenditorialità nel nostro paese, dal quale possiamo comprendere la capacità di "ripresa" del movimento di tutte le particelle-aziende?
Abbiamo già scritto sul tema quando abbiamo effettuato il rating dei Business Plan delle aziende FTSE MIB e STAR, a proposito di grandi imprese, oppure, per le aziende più piccole, dalla nostra recente ricerca sui primi minibond emessi.
Questa volta desidero analizzare un campione (nel senso statistico) dell'imprenditoria italiana attraverso le sue stesse parole: la lettera aperta di Carlo Pesenti pubblicata dall'Eco di Bergamo a proposito della cessione di Italcementi.
L'esordio è una imbarazzante excusatio non petita che non trova fondamento nel ruolo che la famiglia Pesenti ha sempre avuto nella guida dell'azienda (che ci hanno fatto i Pesenti sempre ai piani alti di Italcementi se, come dice Carlo, il "valore della cessione...ricadrà interamente... sugli azionisti di Italcementi e Italmobiliare"?).
Si passa poi ad un'analisi, certamente condivisibile, del settore del cemento che è "profondamente cambiato in questi ultimi anni" (c'è qualche settore che non abbia avuto analoghi stravolgimenti?), generando nuovi attori in mercati emergenti, con grande bisogno di infrastrutture, e nuovi "colossi" che hanno realizzato giganteschi programmi di acquisizione.
Leggendo proprio la storia di Italcementi si scopre però che in un passato non proprio lontanissimo (1992) si sono realizzate importanti acquisizioni (Ciment Francais, grande più di due volte Italcementi) per presidiare mercati importanti con la giusta massa critica. Evidentemente, erano altri tempi e... altre capacità.
Dunque si è deciso di accettare l'offerta del gruppo tedesco anche per "coniugare l'operazione finanziaria con una prospettiva di sviluppo di lungo periodo per i 17.704 dipendenti del gruppo" e, così facendo, delegare la "prospettiva di sviluppo" agli interessi di altri.
Termina la lettera un generico impegno personale di attenzione, sviluppo, interesse della comunità che non sollevano il sig. Pesenti dall'accusa più grave che gli viene implicitamente rivolta: quella di aver rinunciato a fare l'imprenditore abbandonando la propria comunità agli interessi di altri (interessi certamente di sviluppo ma con priorità differenti). Perchè oggi le aziende, che non l'hanno ancora capito, sono a capo di comunità articolate e complesse che vanno ben al di là dei confini dell'azienda stessa.
Non è compito mio emettere giudizi o dare suggerimenti.
E' lecito però ricordare che altre aziende, in momenti non meno difficili, in Italia e all'Estero hanno saputo affrontare sfide epocali di trasformazione profonda: dalla Nokia, nata come segheria e diventata col tempo un gigante (poi crollato a sua volta) della telefonia, alla Peugeot, nata come acciaieria e poi diventata costruttrice di macchine da cucire, poi moto e poi auto, alla nostra Piaggio, che da gigante dell'aeronautica si trasformò in costruttore di mezzi di mobilità leggeri creando il mito della Vespa, e al lista potrebbe continuare.
Ecco allora che lo stato della nostra economia è lo stato della nostra imprenditoria: troppo pochi e troppo poveri i progetti delle grandi aziende.
Ma forse la verità è anche un'altra: all'alba del XXI secolo realizzare questa "forza" di spinta è cosa più difficile che in passato. Non è più compito umanamente sostenibile da un singolo "campione" o un pugno di essi, deve essere un atto di progettualità "sociale".
Ad oggi nessuno degli "imprenditori" sulla piazza col portafoglio gonfio di recenti dismissioni (Tronchetti Provera, Benetton, Loro Piana, Merloni, Rovati, per citare casi analoghi a Pesenti) sembra avere la voglia di "imparare" un nuovo mestiere: fare impresa nel III millennio.
In questo scenario hai voglia a "demolire steccati" o anche oliare superfici: nessuna impresa si muoverà senza "forza" imprenditoriale che la spinga.
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