di
Luciano Martinoli
Il Corriere Economia del 9 novembre scorso ha pubblicato i risultati di una nostra ricerca sui primi minibond emessi a quasi un anno dall’utilizzo dei proventi incassati dall’emissione dei titoli.
Perdurando l’assenza del Business Plan, documento “principe” che dovrebbe descrivere il progetto di sviluppo oggetto del minibond e di cui avevamo già rilevato la mancanza in una nostra prima ricerca, ci siamo concentrati sui documenti pubblicamente disponibili.
Lasciamo la descrizione del dettaglio dei risultati alla lettura dell’articolo.
Al di là dei numeri, però, quale è la scoperta più significativa che abbiamo fatto?
Ricordiamo che i minibond erano pensati per lo “sviluppo delle imprese”. Va da se che tale sviluppo avrebbe dovuto essere descritto in un “progetto”. Tecnicamente il progetto deve essere contenuto in un Business Plan coerente e completo. Coerente perché ogni parte non deve essere in contraddizione con altre e prevedere prima una descrizione strategica di come si vuole trasformare impresa e solo poi i risultati economico-finanziari che discendono dalla trafsormazion strategica dell'impresa. Completo perché deve coprire ogni aspetto del business, ovvero descrizione dei "mestieri" dell'azienda, posizionamento competitivo, attrattività del business, posizionamento strategico conseguente, eccetera. Allora la vera scoperta fatta, al di là dei risultati numerici, è il forte sospetto che queste aziende non solo non avevano un progetto, contenuto in un Business Plan, degno di questo nome ma neppure sono state, e sono, capaci di farlo.
La lettura dei documenti di ammissione e delle note integrative danno indicazioni, seppur vaghe, significative sulle strategie “sottostanti” che hanno ispirato le emissioni e i progetti che dovevano finanziare.
La prima sensazione è che il vero piano fosse un’esigenza di sopravvivenza.
I progetti poi, per lo più impliciti, sono ispirati a strategie banali senza avere chiaro il principale obiettivo dello sviluppo: l’aumento della generazione di cassa dell’impresa. Laddove qualcosa si è riuscito a capire, nella scarsità di elementi ricostruiti dalla lettura dei documenti e dall’interlocuzione con alcune emittenti, aleggiava l’incognita più pesante: ma a fare quel mestiere ci si guadagna o no?
E’ evidente che prima ancora della finanza ci sarebbe stato bisogno di fornire a queste imprese “conoscenza”: i modelli (primo fra tutti un modello avanzato di Business Plan) e le metodologie di quella disciplina che si definisce strategia d'impresa per poter stilare progetti alti e forti PRIMA di cercare finanza per realizzarli, non dopo.
Si evidenzia allora la necessità, per operazioni finanziarie sull’economia reale che abbiano “concreti” obiettivi di sviluppo, di avvalersi di una nuova e sconosciuta competenza professionale: quella dell’advisor strategico.
Non si tratta di allungare inutilmente la lista di professionisti che gravano sulle operazioni finanziarie, ma del “regista”, oggi assente, in grado da un lato di orientare e dare forma alle esigenze di sviluppo delle imprese e, dall’altro, trovare, nel caso, l’interlocutore più adeguato per sostenere tali progetti.
Detto più brutalmente il Business Plan deve esistere da tempo, opportunamente aggiornato, e a prescindere dalla finanza necessaria.
Oggi quello che sembra accadere invece, e la ricerca lo ha evidenziato benissimo, è che da un lato vi sono le richieste generiche (e spesso confuse) di credito dell’azienda, dall’altro una offerta spezzettata:c'è chi fornisce debito in diverse forme, capitale etc. Le prime non sono in grado di chiarire le loro richieste progettualmente, i secondi non sono in grado di stimolare tale progettualità e valutarla (non è il loro mestiere) e si affidano a criteri di prestazioni economiche storiche a “strategia costante”, più orientate allo specifico ed unicostrumento che vendono che alle esigenze dell'emittente.
Risultati positivi dall’incontro di questi due atteggiamenti possono emergere solo grazie al caso e, dunque, in misura molto ridotta, come la nostra indagine ampiamente dimostra.
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