(...di cui non si parla mai nei convegni)
di
Luciano Martinoli
Al ritorno dall'ennesimo convegno sulla crisi, questa volta declinato intorno al ritorno delle attività manifatturiera nei paesi di origine, devo registrare ancora una volta l'incapacità di toccare il tema centrale: il deficit di imprenditorialità che ha colpito il nostro paese (e non solo). Si tratta di un fenomeno, la vera causa dello stato in cui versiamo, che ha la sua precisissima misura nella percentuale dei disoccupati e nell'ammontare delle sofferenze bancarie causate dai prestiti alle aziende.
Fare impresa significa progettare continuamente il proprio futuro e la risultanza di quanto tale progettazione sia efficace è nella produzione di abbondanti flussi di cassa. Laddove questi diminuiscono si è in presenza di un inequivocabile segnale di questo "deficit" e dell'urgenza di stimolare tale imprenditorialità al fine di tornare ad una migliore progettazione di futuro (con conseguente ritorno ai notevoli flussi di cassa).
Chiaro, no?
E invece no!. Infatti di che si parla nei convegni e, più in generale, nel dibattito mediatico?
Si parla, in ordine sparso, di:
- competitività del sistema paese misurata con vari parametri (ma in Angola,ad esempio, che ha una crescita del PIL superiore al nostro, vi è certezza del diritto?),
- di nuove tecnologie produttive (ma chi fa scarpe sfigate, queste saranno meno sfigate se verranno fatte con una stampante 3d?),
- di balzelli ingiusti ed onerosi (ma se venissero di colpo cancellati le aziende sarebbero in grado di raddoppiare il numero degli addetti?).
Prevale una vista "istituzionale" delle aziende da parte di tutti gli stakeholder: legislatore, stampa, sindacati, associazioni di categoria, ecc..
L'azienda come qualcosa che c'è, c'è sempre stata e deve continuare ad esistere anche se, come accade spesso oggi, in molti casi assorbe più ricchezza di quella che produce e, quel che è peggio, senza un piano chiaro, convincente e condiviso di come potrebbe tornare agli antichi fasti, o addirittura superarli.
Affrontare il tema dell'imprenditorialità è meno complicato di quanto si pensi, basterebbe chiedere di redigere Business Plan nei quali si leggano entusiasmanti progetti di futuro che rendano più che credibili i futuri flussi di cassa. E' la somma di questi che misura il "deficit" o il "surplus" di imprenditorialità di un paese.
Dunque non siamo di fronte ad un contesto avverso, un destino cattivo che si accanisce senza motivo contro di noi.
Stiamo semplicemente sperimentando la necessità di avvalerci di linguaggi potenti (quelli evoluti della strategia d'impresa) che esprimano compiutamente o la voglia di futuro che giace nei cuori di tanti imprenditori italiani, e che non riescono ad rappresentarla con chiarezza, oppure svelino l'insensatezza di tante imprese che farebbero meglio a chiudere quanto prima invece di continuare a bruciare risorse di tutti senza speranza di risollevarsi (e lasciando ai posteri oneri maggiori degli attuali).
E se fosse questo secondo aspetto che frena tutti, in maniera incosciente, nell'affrontare pubblicamente il tema dell'imprenditorialità e del suo attuale deficit?
Perfettamente d'accordo. Una, modesta, testimonianza: per un decennio ho analizzato bilanci non dico truffaldini ma sicuramente fantasiosi con prassi consolidate come cessioni infragruppo che creano fatturato in una società ma nell'altra è abilmente eluso il costo (i lesing acquisiti ad esempio non passano per l'economico) e cio' ha due tragicomiche conseguenze: tasse reali su utili fittizzi e banche che si turano occhi e orecchie perchè comunque il cliente - fino a ora ! - ha sempre pagato. Collegi sindacali scandalosi e praticamente impunibili...ecc.ecc. - Forse è il caso di rivedere la disciplina del falso in bilancio e il sistema di certificazione, altrimenti, come capita adesso, il mondo del credito non si fida piu' di nessuno e penalizza tutti invece di respingere solo chi non ha piu' merito creditizio e capacità imprenditoriale.
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