Primo contributo
intervista
Sebastiano Renna
Premessa: sull'orlo del domani di Francesco Zanotti
Oggi viviamo in una società che deve diventare radicalmente diversa.
Diversa nei modi di produrre ricchezza, nel modo di intendere la qualità della
vita, nel modo di fare politica e costruire socialità. Nella visione del mondo
soprattutto!
Chi progetta e costruisce una nuova società?
Essa non nasce per progetto divino o, spontaneamente, grazie allo
svilupparsi caotico e casuale di processi emergenti. Essa nasce dall'azione comune e solidale di tutti gli attori che, appunto, costituiscono la società.
In particolare una nuova società nasce dall'azione delle imprese: esse
creano nuovi prodotti e nuovi sistemi di servizi che sono concretizzazioni
tangibili di un nuovo modo di vivere. Intorno a loro gli altri attori sociali
creano le condizioni perché l’impresa possa svolgere il proprio ruolo di
creazione del futuro. E completano questa creazione generando lo Stato ed
esplicitando la visione del mondo che questo nuovo modo di vivere rappresenta.
Se mi si permette di dire le cose in modo diverso, una società nasce per una
diffusa e solidale imprenditorialità economica, sociale, politica,
istituzionale e culturale. Nasce quasi dal fare arte sociale insieme.
Se si vogliono dire le cose in modo più scientifico, una nuova società
nasce da un processo di creazione sociale.
Solo un breve esempio: il formarsi della nuova società italiana nel
dopoguerra.
Essa è nata, appunto, da una diffusa e solidale imprenditorialità
economica, sociale, politica, istituzionale e culturale, stimolata dal
desiderio diffuso ed intenso di abbandonare una società passata che aveva
costruito macerie e di costruirne una nuova dove la parola valorialmente più
intensa era “benessere”. Detto più semplicemente: tutti si sono rimboccati le
maniche e le idee per vivere meglio.
Allora se è vero che è necessario costruire una nuova
società, che questa costruzione è solo e soltanto sociale, cioè con la
partecipazione attiva di tutti, e che le imprese sono gli attori sociali che
possono/devono guidare questo processo, allora responsabilità sociale
significa una cosa molto precisa.
Significa, da un lato, che le imprese hanno il dovere sociale di far
evolvere la loro identità proponendo nuovi sistemi d’offerta che rappresentano
un ologramma della nuova società. E, dall'altro, significa che la progettazione
di questo sistema d’offerta può essere fatto solo in stretta sinergia
con un sociale che è la vera fonte di innovazione e consenso.
Voglio dire che una impresa non si può rifiutare di diventare protagonista
del sociale non solo perché non sarebbe etico farlo, ma perché non è possibile
fare in altro modo se vuole perseguire davvero l’aumento del valore per gli
azionisti!
Detto diversamente, l’obiettivo etico e l’obiettivo del valore per gli
azionisti non sono contrapposti, non è necessario mediare tra di loro, ma sono
profondamente sinergici. Insistiamo: oggi il valore per gli azionisti è creato
solo da profonde innovazioni imprenditoriali e queste non possono che nascere
da una alleanza profonda con il sociale.
Se tutto questo è vero, allora, pensando alla CSR emergono spontaneamente
alcune domande chiave.
Intendiamo porle ad alcuni CSR manager, considerati leader per esperienza e
conoscenza, e provocare un dibattito sul senso e sul ruolo della CSR nello
sviluppo di una nuova generazione di imprese che sentono la responsabilità di
costruire una nuova società.
La prima persona a cui abbiamo pensato è Sebastiano Renna, CSR
Manager di SEA e, indiscutibilmente, da annoverare tra i protagonisti
riconosciuti dell’evoluzione della CSR.
Le sue risposte sono una vera e propria proposta di “manifesto” per
costruire una rivoluzione nella teoria e nella pratica della CSR.
Ringrazio il Dott. Renna per la sua disponibilità e il suo contributo che,
siamo certi, non rimarrà senza risposta.
Intervista a Sebastiano Renna
D: Perché la CSR è strategica?
Tutti affermano che la CSR è “strategica”. Come si declina questa
strategicità? Si dice che la CSR è un fattore di competitività. Ma, oramai, il
paradigma della competizione è stato giudicato inadeguato dagli esperti di
strategia, almeno dai primi anni 2000. Oggi viene criticato ferocemente anche
dalle riviste di opinione (es. Forbes). E l’obiettivo di acquisire un vantaggio
competitivo sostenibile viene giudicato sempre più irrealizzabile. Allora il
proporre la CSR come fattore di competitività rischia di essere solo una modalità
retorica per dire che la CSR è importante e chi la pratica ha diritto a stare
“alla destra del Grande Capo”.
R: Sebastiano Renna
Non bisogna fare ricorso a sofisticati ragionamenti o
sottili argomentazioni per dimostrare che la CSR è tutt’altro che strategica
nel sistema economico corrente. E’ piuttosto la foglia di fico di un modello manageriale
svuotato di senso e inadatto ad offrire metodi di lavoro adeguati alle
complessità dei nostri tempi. Potremmo forse dire che “la CSR dovrebbe essere
strategica”, nel senso che dovrebbe guidare i manager nella riformulazione
della loro visione del business e, di conseguenza, del modo in cui prendono le
relative decisioni. Ma anche in questo caso si tratta più di un mantra di cui
si riempiono la bocca accademici e consulenti desiderosi di ritagliarsi un
ruolo di lucrosa visibilità presso le aziende, che di una reale convinzione
perseguita con coerenza e nei fatti. Perché allora tutti parlano di CSR strategica?
Perché fa comodo.
Dopo una prima fase, negli anni ’90 e all'inizio del
secolo, in cui la CSR era apertamente praticata come un più evoluto strumento
di corporate image e di public affairs, è subentrata una “revisione critica”,
resasi necessaria per correggere le contraddizioni più laceranti, che vedevano
multinazionali e grandi aziende continuare a perpetrare bellamente indebite
“estrazioni di valore” dagli stakeholder (inquinamento, distorsioni della
concorrenza, frodi e inganni verso i consumatori, atteggiamento predatorio
verso i fornitori, elusioni fiscali, riduzioni ingiustificate degli organici,
ecc.) dietro il paravento delle sponsorizzazioni e delle liberalità.
La crisi dei subprime del 2008 ha smorzato gli eccessi,
ridotto i budget a disposizione dei CSR manager, spinto il grande baraccone
della business ethics a cercare un nuovo e più credibile assetto, dopo che era
emerso come i più munifici donors e sostenitori di buone cause erano anche
coloro che avevano le maggiori responsabilità nell’affaire dei derivati. Venne
quindi tenuto a battesimo il nuovo slogan: “non lo fo per piacere a Dio ma per
interesse mio”.
Le major della consulenza (McKinsey, BCG, Accenture, Pwc,
Kpmg) e dell’accademia (Harvard, MIT, Bocconi) inondano il settore di report,
paper, indagini, analisi la cui architrave concettuale è che la CSR migliora la
competitività ed è funzionale alla creazione di valore. I CSR manager restano
affascinati da questo “new deal” ed eleggono a loro testi sacri di riferimento
due studi harvardiani: “Strategy &
Society” di Porter e Kramer del 2006 e “The
Impact of a Corporate Culture of Sustainability on Corporate Behavior and
Performance” di Eccles, Ioannou e Serafeim del 2012. Ed è tutto un fiorire
di schemi, modelli e case histories pronti alluso per coloro che vogliono
lasciar intendere al mondo che sono partiti lancia in resta alla conquista dei
mercati con l’armatura della CSR. In realtà tutta questa ponderosa letteratura
non riesce a dimostrare niente, se non che in alcuni casi è riscontrabile una
correlazione tra adozione di strumenti di CSR e performances di borsa superiori
alla media, ma resta il dubbio che tale correlazione vada letta in senso
contrario a come viene spacciata: sono forse le aziende che ottengono migliori
risultati a mettere in campo un più ampio armamentario di CSR, non viceversa.
La verità è che la CSR ha certamente contribuito alla crescita di fatturati e
margini, ma soprattutto di coloro che su questa tesi ben confezionata ci hanno
costruito sopra ricche consulenze. Oggi, ad esempio, il trend topic degli
addetti ai lavori è costituito dal bilancio integrato. Tutti da anni affannati
a ricercare la formula magica per la “unique bottom line”, ma quello che sinora
si vede è nulla più che un espediente editoriale che rilega nello stesso volume
le pagine del bilancio d’esercizio e quelle del bilancio di sostenibilità. Il
problema è che non puoi rifare daccapo un edificio partendo dal tetto, ovvero
dalla rendicontazione. Raffinare le tecnicalità per raccontare in che modo il
tuo processo di generazione del valore economico abbia beneficiato dell’apporto
di determinate decisioni “CSR-oriented” non è possibile senza aver definito a
monte il modello di business che incorpora questa filosofia, i pilastri
strategici che la sorreggono e i driver del valore che vanno monitorati per
verificarne i risultati nel medio-lungo periodo. Ci sono ancora molte
incrostazioni di pensiero meccanicistico nell'approccio alla CSR. Si dedica la
massima concentrazione e la fetta principale delle risorse per mettere a punto
la cassetta degli attrezzi, nell'illusione che l’agognato salto di qualità
verso la CSR strategica sia un fatto di perfezionamento delle tecnicalità
piuttosto che di ripensamento radicale dei piani industriali.
La verità è che rendere la CSR realmente strategica per
una azienda è un lavoro drammaticamente lungo e complesso. Non procede per
linea retta ed è caratterizzato da frequenti stop & go. E’ un processo
tanto più vischioso quanto più si addentra nel cuore del decision making manageriale,
chiedendo all’azienda di investire parte delle proprie risorse e del tempo dei
suoi manager in attività che sembrano spesso spingerla in direzione contraria
rispetto alle sue intuitive esigenze primarie: invece di accorciare, allungano
l’iter delle decisioni; invece di semplificare, articolano ulteriormente il set
di variabili da considerare e monitorare; invece di mettere a portata di mano
celermente qualche soluzione aggiuntiva, estendono la lista delle problematiche
di cui occuparsi. Se la CSR non fa questo non è realmente un processo
strategico. Per questo sono davvero poche le realtà che possono dire di averlo
davvero avviato.