"Se gli uomini non nutrono un ideale in un mondo migliore perdono qualcosa.
L'umanità non potrebbe funzionare senza le grandi speranze, le passioni assolute."
Eric J. Hobsbawm

giovedì 29 gennaio 2015

Imprenditore: faber suae quisque fortunae

di
Francesco Zanotti


Confrontiamo qualche titolo e dato.

Ieri il Sole 24 Ore
Il primo “Apple, utile record e primato vi vendite per gli iPhone”.
Cioè: c'è chi fa un sacco di soldi.

Ma in che contesto?
Leggiamo altri titoli.
Grecia:” Non possiamo pagare tutti i debiti. Tensione con la UE. E la borsa crolla (-3.7%).
Russia, rating spazzatura, capitali in fuga: è tempesta perfetta?
Conclusione: c’è chi fa soldi anche in un contesto negativo. La capacità progettuale e realizzativa se ne frega del contesto. Ed alla lunga crea un contesto positivo, come è accaduto anche a casa nostra ai tempi del miracolo economico italiano.

E in Italia che si pensa? Che si fa?
Si gioca sulla propria capacità progettuale e realizzativa?
Leggiamo un titolo e un articolo.
Il titolo, sempre dal Sole 24 Ore: “Confindustria: ripresa più forte del previsto grazie a cambi, Qe e petrolio”.
L’articolo, quello del Sole su FCA.
Il titolo (pag. 25): FCA chiude il 2014 in crescita. Ma guardando all'interno … I fattori positivi sono dichiarati essere, dalla stessa FCA: il dollaro forte che secondo il CFF di FCA gonfierà i ricavi di 5 miliardi e l’EBIT di 200 milioni.
Fattori negativi: i costi dei richiami di vetture negli USA … ovviamente perché costruite male.

Domanda finale: noi italiani siamo come quelli del miracolo economico che costruivano la loro fortuna? O questa capacità convinzione si è spostata altrove, proprio là dove si fanno soldi? E noi siamo in balia di un contesto che costruiscono altri?
Ai posteri l’ardua sentenza … Forse, però, è meglio che la risposta ce la diamo noi subito e torniamo a giocare su capacità progettuale e realizzativa. Già lo diceva, forse, Sallustio: homo est faber suae quisque fortunae.


sabato 24 gennaio 2015

Il Marchionne (strategicamente) rivelato!

di
Luciano Martinoli


Una decina di giorni fa a Detroit, in occasione del congresso di Automotive News, l'amministratore delegato di FCA ha fatto delle dichiarazioni semplici e allo stesso tempo importanti, riportate da un articolo del sole24ore, riguardo gli intenti strategici del gruppo.
Non è la prima volta che il dott. Marchionne si esprime in tal senso, ma stavolta è stato particolarmente esplicito e le sue parole hanno un significato più profondo in virtù della operazione di fusione con Chrysler che ha portato a compimento.
Per comprenderle dunque a pieno, dal punto di vista strategico, cosa significhi ciò che ha detto, lasciatemi prima proporre una "mappa" grazie alla quale sarà più chiaro interpretare il significato e la direzione impressa dal leader del gruppo a FCA.

mercoledì 21 gennaio 2015

Il pasticciaccio delle Banche Popolari

di
Francesco Zanotti


Un bell'articolo di fondo di Marco Onado sul Sole 24 Ore di oggi descrive con equilibrio pregi e difetti del decreto che impone il cambiamento della logica del voto capitario nelle grandi Popolari.
Dice che certamente il decreto aiuta il superamento di tutte le strumentalizzazioni del voto capitario. Ma propone una serie documentata di dubbi che vale la pena di leggere direttamente sul giornale proprio per apprezzarne la significatività.
In questo post vorrei rincarare la dose ed avanzare altri due “dubbi strategici” che  giustificano appieno il titolo di questo post.

Nella terza pagina dello stesso giornale Luca Davi evidenzia la conseguenza di questo decreto: ora partono le aggregazioni.
Ecco le aggregazioni, appunto. Già nell'articolo di Onado vi sono dubbi sui benefici che possono produrre i processi aggregativi.  Forse qualcuno ricorderà che alla fine del secolo scorso le dieci Banche Centrali più significative commissionarono un rapporto, il Rapporto Fergusson, dove si dichiarava, già allora ed apertamente, che non vi era alcuna evidenza empirica dei vantaggio dei processi di aggregazione. Mentre erano evidenti i rischi del “too big too fail”.
Condivido queste riserve, ma sostengo che oggi sono più rilevanti i rischi che non sono stati evidenziati e che definisco, appunto, “strategici”.

Quali sono?
I rischi sono che il management si concentrerà in operazioni societarie e si dimenticherà della improrogabile esigenza di una rilevante innovazione strategia ed organizzativa.

Innovazione strategica. E’ indispensabile riprogettare il ruolo della banca nello sviluppo dell’economia. La banca non può più limitarsi a fornire denaro e servizi che riguardano il denaro. Non può limitarsi a decidere se una impresa è buona o no.
La banca deve stimolare e saper valutare la progettualità imprenditoriale. Per fare questo deve acquisire conoscenze e metodologie di cui non dispone: le conoscenze e le metodologie di strategia d’impresa. Così facendo potrà, da un lato, avviare una nuova area di business (la consulenza strategico-imprenditoriale) e, dall'altro, potrà consolidare il suo stato patrimoniale aumentando la qualità del credito.
Detto diversamente: non ha più senso parlare di imprese buone (a cui prestare i soldi) e imprese “cattive” (a cui non darli). Le imprese attuali (tutte) devono cambiare radicalmente la loro identità strategica. Devono avere progetti su come fare questa rivoluzione. Allora il ruolo della banca non può che essere quello di fornire alle imprese le risorse cognitive per attuare questa rivoluzione.
In sintesi, il ruolo della banca non può che essere quello di far diventare buone le imprese nel futuro.
Evidenziata questa esigenza, ecco pensate a come reagisce il top management se gli si proponete di riflettere su questi temi. Vi dirà: sì, interessante (perché i top manager delle banche sono persone squisite), ma ora sono in altre faccende affaccendato. I processi di aggregazione appunto.
Potreste rispondere: ma che senso ha aggregare debolezze che se non si fa qualcosa diventeranno ancora più deboli? Ma la vostra obiezione ve la fareste da soli perché il top management è squisito sì, ma più di tanto non si lascia distrarre dalle sue priorità …

Innovazione organizzativa.
La banca (il management e gli azionisti) deve ricordarsi che la strategia efficace (quella che genera il conto economico) è data dai comportamenti delle persone, all'interno ed all'esterno.
Ora l’attuale cultura manageriale non offre né alcuna idea, né alcuno strumento per poter governare i comportamenti delle persone. La banca, accanto, insieme e sinergicamente ad una nuova cultura strategica, deve acquisire anche una nuova cultura organizzativa.
Evidenziata questa esigenza, tornate dal top manager di prima e ditegli che, mettendo insieme due organizzazioni, ne genera, ovviamente, una terza più grande. In essa il problema di non saper governare i comportamenti diventa, altrettanto ovviamente più grave.
Forse su questo tema non riuscite neanche a parlarci.

Concludendo, se le aggregazioni guidano l’agenda del top management delle banche, attendiamoci che l’innovazione che le banche sapranno fare sarà, al massimo, quella di cercare di trasformare la filiale in un supermercato. E le imprese saranno lasciate sole a ... fallire. Con evidenti effetti devastanti sulle grandi banche che nasceranno dai processi di aggregazione. A quel punto “grande banca” significherà solo grandi costi perché gli asset (crediti alle imprese) diminuiranno proporzionalmente a quanto le banche rifiuteranno di fornire alle imprese stesse conoscenze strategico organizzative per avviare le rivoluzione strategiche che permetterebbero loro di non fallire..

Se questo discorso ha valenze generali, esso è, però, particolarmente significativo per le Banche Popolari. Esse erano le migliori candidate ad avviare la rivoluzione strategica del sistema bancario.
Se le concentriamo sulle aggregazioni blocchiamo completamente le speranze di rivoluzione strategica (dalla finanza alla conoscenza) del sistema bancario.


Un bel pasticciaccio.

domenica 18 gennaio 2015

Si perde valore, ma si conserva proprietà e caste …

di
Francesco Zanotti


Il valore è sempre quello delle società dell’Indice FTSE MIB di Borsa Italiana.
Il messaggio dell’ultimo post era sulla necessità di aumentare le risorse cognitive nelle disponibilità dei manager perché possano generare Progetti di Sviluppo alti e forti come strumento per ricostruire il valore delle imprese.
Insisto e specifico, anche con un po’ di colore.
Guardate ai Business Plan delle imprese del FTSE MIB ed il Rating (giudizio) che ne abbiamo dato l’anno scorso. Non troverete Progetti di Sviluppo alti e forti. Troverete solo competenti e sensati budget fatti da strutture altamente professionali che cercano di far funzionare meglio il presente.
Il problema è che non si fa nulla per arrivare a generare Progetti di Sviluppo alti e forti (esplicitati in Business Plan).
Anzi, si ragiona sempre nell’ottica della conservazione di proprietà e caste manageriali.

Conservazione di proprietà.
Lo testimonia l’appello di oggi sul Sole24Ore sul “voto doppio e il quorum qualificato” proposto in prima pagina. Un dibattito sulla proprietà delle imprese che dimentica un piccolo dettaglio: stiamo andando verso la proprietà del nulla, come testimonia la perdita di valore di MPS. Poi … che importanza volete che abbia il cercare di rendere contendibile, di proteggere i diritti delle minoranze, di “decidere chi può decidere” rispetto a qualcosa che  non vale più nulla?

Arriviamo al “colore”, ma che, poi, è racconto di una cultura profonda.
Sul Corriere si riferisce di un telefonata (intercettata) di Scaroni a Ghizzoni. L’oggetto è Bernini (ex CFO di ENI) che ha dato le dimissioni per via delle tangenti SAIPEM. Tangenti che Scaroni ammette in un’altra telefonata a Passera, tra l’altro.
Quale è l’oggetto della telefonata di Scaroni a Ghizzoni? Trovare un posto degno a Bernini. Ora, al di là delle ragioni (ovviamente interessate per non farsi nemico Bernini, ma che non tocca a noi esplorare, ma alla Magistratura) per le quali Scaroni è così sollecito nei confronti di Bernini, la telefonata (vi suggerisco di leggere quanto riporta il Corriere di oggi a pag. 25) nasconde quel sottile piacere dell’onnipotenza, dell’appartenenza ad una casta che si chiama per nome, che tutto può e che passa il tempo a confermarsi casta.
Esercitare onnipotenza e appartenenza ad una casta rendono quasi impossibile pensare  queste persone trovino il  tempo di studiare (sì, di studiare) per acquisire quelle risorse cognitive che non hanno e che sono indispensabili per generare progetti di Sviluppo alti e forti che sono l’unica azione capace di ricostruire il valore delle imprese.

Ci pensino gli azionisti. E se vogliono una ulteriore conferma della distanza degli attuali Business Plan dall'essere progetti di sviluppo alti e forti, leggano il nostro Quarto Rapporto sui Rating del Business Plan degli indici FTSE MIB e Star di Borsa Italiana.

giovedì 15 gennaio 2015

Il dimezzamento del valore delle società dell’indice FTSE MIB: il paradosso di manager bravissimi e imprese nei guai

di
Francesco Zanotti


Un ulteriore dato è emerso in questi giorni sulla stampa a confermare che siamo nei guai: le imprese dell’indice FTSE MIB di Borsa Italiana nell'ultimo decennio hanno perso più del 50% del loro valore, con punte di più del 90% nel caso di Montepaschi.
La prima osservazione, “di pancia” che mi nasce spontanea è: ma vi ricordate la venerazione per molti dei manager che hanno guidato queste imprese da parte della stampa e soprattutto di consulenti bramosi di qualche brandello di lavoro senza mai accorgersi che qualcosa non andava?
Non possiamo che concludere che la capacità di giudizio di stampa e consulenti non era granché.

Ma credo che occorra andare al di là dei giudizi sulle persone.
Il problema non è se i manager sono bravi o no. Il problema è costituito dalle conoscenze e dalle metodologie gestionali che hanno usato. Sono state conoscenze e metodologie gestionali “primitive”. Lo si poteva sapere. Bastava guardare allo stato dell’arte delle conoscenze rilevanti per parlare di ambiente socio-politico, strategie, organizzazioni e uomini per verificare che la maggior parte e la più rilevante di queste conoscenze non venivano usate.
Forse il caso più eclatante è quello delle conoscenze e delle metodologie per definire e valutare strategie. Meglio: delle conoscenze e delle metodologie che servono per elaborare e valutare i Progetti Strategici (i così bistrattati Business Plan che sono oramai ridotti a prodotti burocratici o frutto di ritualità). Solo una percentuale residuale di queste conoscenze e metodologie sono state e vengono usate. Il risultato è che la qualità dei Business Plan (come dimostra la nostra indagine annuale sulla qualità dei Business Plan proprio delle società dell’indice FTSE MIB, oltre che quella dei Business Plan delle Società dell’indice Star) è scarsa. Ed è ovvio che a Progetti Strategici banali non possano corrispondere risultati rilevanti.

Forse è giusto aggiungere che i manager non hanno usato le conoscenze disponibili anche perché i consulenti non gliele hanno proposte. Se guardate alle proposte, ai sistemi di offerta, delle società di consulenza, scoprite in fretta tutte le conoscenze rilevanti che vengono trascurate.
Ma occorre sottolineare l’“anche”. Perché in qualche modo anche i manager dovevano accorgersi che stavano usando conoscenze e metodologie troppo banali per la complessità delle imprese che gestivano.

Ecco, ma così siamo arrivati ancora ad un giudizio sugli uomini, manager o consulenti che siano. No! Perché non sostengo che la colpa sia di manager inetti. Perchè in questo caso, la soluzione sarebbe banalmente quella di sostituirli con manager capaci.
Sostengo, invece, che non possono esistere manager che dispongono naturalmente dei talenti per guidare grandi organizzazioni. Le capacità per governare organizzazioni complesse non sono un dono di natura. La qualità del management dipende dalla qualità delle conoscenze e delle metodologie che usano. Poi, certo, vi sarà chi sarà più bravo ad usare le conoscenze di altri. Ma chi rifiuta la conoscenza o usa conoscenze banali, chiunque sia, non può che generare guai. E i guai sono davanti agli occhi di tutti.
Dovrebbero essere soprattutto davanti agli occhi degli azionisti che non possono accettare supinamente il dimezzamento del valore delle loro azioni credendo alla ideologia di una crisi che nessuno può contrastare. Se fosse così, questo significa che le capacità gestionali sono solo marginalmente rilevanti. E’ l’ambiente che determina il desiderio delle imprese. Se l’ambiente è benigno, allora, le aziende vanno bene, se è maligno le imprese vanno male.
Si dovrebbero ribellare a questa ideologia facendo ai manager che pagano due domande. 
La prima: ma come è che, invece, ci sono le imprese che vanno bene? 
La seconda. Ma se non hai spazio di azione e tutto dipende dal mondo esterno, perché ti pago così tanto?



domenica 11 gennaio 2015

Imprenditore non attendere

di
Francesco Zanotti



Sembra che il mestiere dell’imprenditore sia quello di attendere.
Attende di sapere cosa accade nelle elezioni greche, attende che la BCE si decida a comprare i titoli pubblici, attende le riforme Istituzionali. Attende … un nuova venuta, a suo uso e consumo del Messia?
Caro imprenditore la devi piantare di attendere. Ed è triste che occorra invitare un imprenditore a non attendere.
Non devi attendere perché, in genere, non accadono mai le cose che si attendono, ma solo quelle che si costruiscono. Non devi attendere perché tutte le cose che stai attendendo, anche se poi accadono davvero, alla tua impresa non porteranno alcun beneficio.
Le cose che produci i servizi che offri interessano sempre meno. Questa è la ragione della tua crisi. E anche se la BCE acquistasse tutti i titoli del debito pubblico di tutta Europa, anche se alle elezioni greche vincesse il più allineato ai desideri delle tecnocrazie (stupide) imperanti, sempre i tuoi prodotti e servizi continuerebbero ad interessare sempre meno.
Non attendere, ma deciditi a buttarti alle spalle il passato. E necessario che, invece di attendere, tu cominci a progettare una rivoluzione radicale nelle cose che produci e nei servizi che offri. Comincia subito! Quando avrai un progetto di futuro alto e forte, troverai anche le risorse finanziarie per realizzarlo. Capirai che è difficile che qualcuno finanzi un imprenditore che nel suo progetto di futuro ci scrive. “Io attendo”.


giovedì 8 gennaio 2015

Risorse e vite sprecate

di
Francesco Zanotti


Giovanni, l’operaio, si alza ogni mattina, si reca al lavoro consumando energia, trasforma con fatica e conflitto pezzi di Natura (materie prime sottratte alla Natura) in oggetti che nessuno vuole più comprare. Torna a casa la sera con una crescente angoscia dovuta alla, forse inconscia, ma pur tuttavia reale, percezione che la sua energia vitale è finita in un magazzino che diventa sempre più colmo di prodotti che da li non usciranno più. Natura snaturata in una artificialità fredda e infeconda con sudore e fatica.

Giovanni, l’imprenditore, si alza anche lui ogni mattina e cerca disperatamente risorse finanziarie per pagare il Giovanni operaio per il suo lavoro di trasformazione della Natura in freddi manufatti senza più utilizzatori.

Giovanni, il finanziere, si illude che gli altri due Giovanni producano valore e cerca modi sempre più sofisticati di rappresentare e scambiare questo valore, scoprendo sempre più spesso che questo valore è fittizio perché gli esplode in mano come una bolla di sapone.

Giovanni, il consumatore (che è anche operaio, imprenditore o finanziere), si aggira per negozi che gli sembrano sempre più ricchi solo di cianfrusaglie che lo emozionano sempre meno. Certo meno di una Natura non oppressa dall'artificialità banale della società industriale.

Non si può più continuare così.

Facciamo sedere i tre Giovanni intorno al tavolo, insieme, facciamogli progettare prodotti che siano opere d’arte, radicalmente nuovi che permettano loro, quando diverranno il Giovanni consumatore, (forse Giovani non sarà più un consumatore e i prodotti non saranno più gli oggetti freddi e duri che oggi è invitato a comprare) di tornare a vivere il momento dell’acquisto come una nuova esperienza vitale, immerso in Natura che non sarà più luogo di rapina e deposito di rifiuti.

Il Giovanni operaio andrà al lavoro convinto di costruire opere d’arte, occasioni di esperienze vitali. Il Giovanni imprenditore sarà colui che guiderà questo processo di riprogettazione del fare impresa. Il Giovanni finanziere non sarà più un illuso destinato, da quel fatidico giorno dei tulipani, a vedersi esplodere in faccia continuamente ed improvvisamente, quello che riteneva futuro.

E i figli di tutti i Giovanni vedranno i padri (ovviamente avrei potuto parlare equivalentemente di Giovanne e di madri) usciere di casa  sapendo che andranno a costruire il loro futuro. Orgogliosi dei loro padri.


martedì 6 gennaio 2015

Saldi e moda: segnali dalla realtà

di
Francesco Zanotti


Ho messo semplicemente insieme i contenuti degli articoli di pag. 19 del Corriere, pagina di cronaca, non di economia.
Ecco il risultato.
La moda si vende molto in saldo. Allora il Codacons chiede che si prolunghi il periodo dei saldi. Ma insorgono le imprese: non è possibile perché abbiamo bisogno di periodi di prezzi pieni.
Ma la domanda sorge spontanea: i prezzi pieni sono giustificati?
A leggere altri articoli della stessa pagina sembra di no! Il surplus di prezzo giustificato dall’artisticità dei capi è sempre meno apprezzato, riconosciuto. “Il vero affare? Scegliere capi senza tempo.” Titola un articolo sulla colonna destra della pagina in questione. Consigli di praticità vengono proposti dalle redazione in un’altra pagina …
Conclusione: i capi di vestiario stanno tornando ad un ruolo funzionale, ne è sempre meno riconosciuto il ruolo identitario. E’ importante la qualità sostanziale e non l’apparenza fantasmagorica. Questo significa che i conti economici dei produttori di moda cambieranno radicalmente nei prossimi anni: dovranno accettare riduzioni rilevanti di prezzo. Dovrà cambiare tutta la filosofia produttiva del settore: non viene prima lo stilista e i suoi eccessi, ma viene prima la capacità artigianale. E questo rimette tutto in discussione: dal ruolo commerciale delle “collezioni”, alle pratiche di outsourcing.
Ma è difficile che le grandi maison accettino questa rivoluzione che le porta dall’essere luoghi d’arte a luoghi di una sana artigianalità che fonda una solida bellezza.
Ed allora debiti e valori di borsa? Che ne pensano gli investitori?



lunedì 5 gennaio 2015

Per parlare del futuro: non guardate il conto economico!

di
Francesco Zanotti

Per parlare del futuro dell’impresa, per prevederlo, per finanziarlo, si guarda certamente allo stato patrimoniale, ma da esso ci si aspetta di capire solo la solidità del presente, il punto di partenza verso il futuro. Per comprendere come sarà questo futuro, si guarda il conto economico.
Bene, si tratta di un errore di prospettiva esiziale.
Le ragioni sono due.

La prima ragione è che dallo stato patrimoniale si può leggere anche il posizionamento strategico attuale dell’impresa.
Una parentesi sul concetto di posizionamento strategico. E’ la “variabile” che permette di capire quale sarà nel futuro la capacità di generare economics dell’impresa. Essa è la “somma”, il “combinato composto”, dell’attrattività del mercato e del posizionamento competitivo. Per generare economics occorre operare in un business ad altra attrattività ed avere in quel business una posizione competitiva forte. Meglio se non ci sono competitors.
Come lo stato patrimoniale permette di conoscere il posizionamento competitivo? Un primo esempio: se i crediti verso i clienti sono maggiori dei debiti verso i fornitori (cioè dovete finanziare il circolante), allora state operando in un settore industriale povero e non siete certo i più forti. E il futuro non sarà roseo Un secondo esempio: se il vostro patrimonio netto non è cassa, ma è “immobilizzato”, significa … la stessa cosa. E il futuro sarà burrascoso.

La seconda ragione è che dal conto economico si legge solo quello che non sarà più. Ed allora, che senso ha studiare quello che non sarà più quando si è interessati (chi fornisce risorse finanziarie, soprattutto) a capire cosa accadrà nel futuro?
Dettagliando, la crisi di oggi è una crisi di significato. I prodotti e i servizi di oggi che hanno perso significato e funzionalità. Più brutalmente: interessano sempre meno. E questo significa che se ne comprano sempre di meno e si vuole pagarli sempre di meno. La conclusione è che i conti economici attuali, per buoni che siano, sono, innanzitutto, destinati a peggiorare e a peggiorare la struttura dello stato patrimoniale.
Per risolvere questa situazione è necessario riprogettare i business dell’impresa. Business rivoluzionati genereranno conti economici strutturalmente diversi da quelli passati. Genereranno conti economici che non avranno alcuna parentela con i conti economici attuali: i ricavi arriveranno da altre parti, la struttura dei costi sarà diversa. Questo significa che l’analisi dei conti economici già accaduti è una attività di archeologia economica fine a se stessa.

Ma chi finanzia, più generalmente, si relaziona con una impresa e ha bisogno imprescindibilmente di capire come saranno i conti economici futuri.
Come fare? Chiedete di vedere non un Business Plan “burocratico”, ma un Business Plan che descriva come cambia la definizione del business e come cambia, conseguentemente, il posizionamento strategico. Solo così potrete avere una idea di come varierà il conto economico e potete progettare come interfacciarvi all'impresa.
Uno slogan conclusivo: non studiate il conto economico, ma lo stato patrimoniale e il posizionamento strategico.




giovedì 1 gennaio 2015

Una piattaforma cognitiva, professionale e finanziaria per lo sviluppo del Paese

di
Francesco Zanotti


Come i nostri lettori sanno, noi stiamo progettando e realizzando (le due azioni sono e devono essere contemporanee) una piattaforma cognitiva, professionale e finanziaria per lo sviluppo del nostro sistema Paese. Che dovrà avere immediatamente una dimensione internazionale.

Piattaforma cognitiva.
E’ strano che ci si dimentichi che le imprese, i mercati, le economie e le società siano costituite e costruite da uomini. Dico che ci si dimentica perché non si prende mai in considerazione il fatto che l’uomo è caratterizzato dalle risorse cognitive di cui dispone. Egli può vedere, capire e progettare quello che le sue risorse cognitive gli permettono. Se si considerasse questa specificità dell’uomo, si scoprire, immediatamente, che per progettare nuove “cose” è necessario aumentare la “potenza” delle risorse cognitive disponibili per tutti i progettatori del domani. Altrimenti continueremo ad assistere al deprimente tentativo di cercare di “vendere” (proporre, giustificare, migliorare) le “cose” del passato.
Ecco il senso della piattaforma cognitiva: fornire nuove risorse di conoscenza agli imprenditori per progettare e costruire un domani radicalmente diverso dall’oggi. In particolare: fornire ad imprenditori, manager e fornitori di risorse finanziarie quelle conoscenze e metodologie di strategia d’impresa di cui non dispongono.


Piattaforma professionale.
Queste risorse cognitive devono concretizzarsi in modelli e metodologie che devono essere utilizzate da una rete di professionisti sparsi sul territorio. Ecco la necessità di costruire una rete professionale che trovi il suo collante e stimolo nelle conoscenze, modelli e metodologie e non in convenienze o ottimizzazioni spicciole. Una rete professionale che sappia far generare alle imprese Progetti Strategici (Business Plan) alti e forti che siano ologrammi di un futuro progetto di Sviluppo del nostro Sistema Paese.

Piattaforma finanziaria.
Oggi gli investitori istituzionali si presentano “disarmati” ed in ordine sparso al mondo delle imprese. “Disarmati” perché sono alla ricerca di imprese che vanno bene oggi ipotizzando che andranno bene anche nel futuro. Lo dimostra l’attenzione al conto economico: si guarda a quello e si pensa che, se è buono oggi, lo sarà anche in futuro. Cioè si ipotizza che le imprese non dovranno fare grandi cambiamenti strategici. Perché, altrimenti, non avrebbe senso guardare al conto economico di oggi: i cambiamenti strategici sono proprio quelli che cambiano la struttura del conto economico. Ma le imprese che non faranno grandi cambiamenti strategici non sopravvivranno. Detto diversamente: i conti economici di oggi non potranno più essere realizzati nel futuro. Potranno e dovranno essere migliori, ma questo accadrà solo se saranno strutturalmente diversi.
Occorre, allora e innanzitutto, aiutare i finanzieri di tutti i tipi a leggere i Progetti Strategici delle imprese per capire quali saranno i loro conti economici futuri. Ed occorre coordinare i loro interventi perché oggi si presentano davvero in ordine sparso e un progetto Strategico alto e forte non potrà certo essere finanziato attraverso singoli “strumenti”.
Per aiutarli bisogna rendere loro disponibile una piattaforma cognitivo- professionale.

Evitando l’alibi delle PMI
E’ certamente vero che le PMI sono la struttura portante del nostro sistema economico. Ma esse hanno bisogno di una ecologia complessa intorno a loro. In questa ecologia complessa ci devono essere grandi imprese che fungono da Hub di sviluppo.
Allora la piattaforma cognitiva, professionale e finanziaria deve rivolgersi a tutte le tipologie di imprese, nei modi a ciascuna più adatti.

Lasciamo, quindi, nel passato la ideologie delle PMI come mercato per professionisti di seconda fascia. Occorre che la nostre PMI dispongano delle migliori conoscenze, dei migliori servizi e dei più qualificati partner finanziari. Quegli stessi di cui hanno bisogno le grandi imprese e che oggi neanche a loro sono disponibili.

Nell’anno iniziante la nostra azione avrà come obiettivo primario la costruzione e l’operatività della piattaforma cognitiva, professionale e finanziaria che abbiamo iniziato nell’anno appena trascorso.