di
Francesco Zanotti
Egregio dottor Gentili,
le chiedo dolcemente, ma fermamente
di confrontarsi, pubblicamente sul nostro blog, con una tesi opposta l quella
da Lei esposta sul Sole24Ore di oggi (23 agosto 2013). Mi sono permesso di
usare l’avverbio “fermamente” perché non si tratta di una tesi che nasce da
qualche farneticazione notturna o auto rappresentativa. Nasce dall'insieme delle conoscenze di strategia d’impresa
oggi disponibili e dal contributo di conoscenze
sistemiche (ad esempio, la teoria quantistica dei campi). Oltre che da mille altre conoscenze.
La sua tesi è “ ... quella
dell’economia italiana è una crisi di competitività e produttività sistemica”.
La mia tesi, invece, è che
siamo di fronte, a livello economico, a una crisi di senso strategico delle
nostre imprese. Essa, poi, è un
ologramma di una crisi di senso complessivo della società industriale.
Se è vera la mia tesi,
allora, la ricerca di competitività e produttività sono strategie contro producenti.
Così come è controproducente a livello politico-istituzionale ogni strategia di
riforme. Rappresentano, infatti, l’estremo tentativo di far sopravvivere sempre
lo stesso senso. Sono strategie di conservazione, quando servono strategie di
rivoluzione.
Vado a illustrare la mia
tesi.
Comincio con cercare di dare
una interpretazione alle parole “competitività” e “produttività”. Secondo le
più tradizionali conoscenze di strategia d’impresa (si vedano i lavori
conosciutissimi di M. Porter) diventare più competitivi significa fare meglio
dei concorrenti. Sostanzialmente in termini di prestazioni del prodotto o di
costo. Essere più produttivi significa fare più prodotti con le stesse risorse.
Per poterli far pagar meno.
Per molte imprese italiane è
difficilissimo proporre prodotti con prestazioni significativamente diverse da
quelle dei concorrenti. Rimane loro il competere sul prezzo.
Ora, innanzitutto, una
competizione di prezzo non la si può vincere (mi scusi l’anacoluto, ma qualche
volta è efficace, Manzoni insegna), ma finisce sempre con la morte di tutti i
concorrenti. Oppure con una sopravvivenza artificiale garantita dai debiti o
dai sussidi.
Ma, poi, se competere
significa fare meglio dei concorrenti (sulla qualità o sul prezzo), allora
significa anche conservare. Sperare di riuscire a vendere gli stessi prodotti
(si potrebbe proficuamente, allargare il discorso ai servizi), anche se con
qualche restyling tecnologico e di immagine, significa “conservare”. Darsi l’obiettivo
di preservare l’economia attuale.
E che male ci sarebbe? Come ho
detto, il problema è che l’economia attuale sta perdendo di senso. E, proprio,
per questo, essa è, inevitabilmente, destinata a ridimensionarsi, se non di
peggio.
Ma cosa significa crisi di
senso?
Diamo una occhiata alle
imprese di successo (la misura del successo è la capacità di produrre cassa).
Che tipo di prodotti vendono? Consideriamo l’esempio dell’industry dell’auto.
E’ stata una impresa di successo la FIAT ai tempi della 500. Lo è oggi la
Ferrari. Facevano (la FIAT), fanno (la Ferrari) solo prodotti migliori di
quelli dei concorrenti? No! Vendevano non solo prestazioni, ma antropologie. Di
significato complessivo (la FIAT), relativamente a nicchie sociali (la
Ferrari), ma sempre sostanzialmente nuove antropologie.
Oggi troppe imprese
continuano a riproporre l’antropologia della società industriale che non è più
ricercata nelle società avanzate, sta dimostrando tutte le sue lacune negli
altri modelli sociali (veda l’articolo sullo stesso Sole24Ore di oggi di Michael
Spencer), non è più compatibile (l’assorbimento di risorse e di energia delle
modalità produttive e distributive) con la Natura.
Allora la soluzione non può
davvero stare in competitività o, peggio, produttività (che senso ha, se
parliamo di produttività di impresa che si fanno con le stesse risorse più
prodotti che poi non si vendono?).
E dove sta la soluzione? In
una nuova intensità progettuale che riesca ad immaginare nuovi prodotti e nuove
modalità di produzione che rappresentano nuove antropologie. Solo per fare
qualche esempio, nelle società avanzate l’autorealizzazione personale avviene
sempre meno attraverso l’acquisto dei prodotti tipici di una società
industriale. E’ vero che sono pochi i prodotti antropologicamente nuovi, ma se si
pensa ai prodotti tecnologici, ai prodotti proposti dal commercio equo e
solidale o ai prodotti a Km 0, si trovano esempi significativi. Per quanto
riguarda i sistemi di produzione e distribuzione, se si pensa alle potenzialità
delle stampanti 3D unite alle possibilità di produzione locale di energia, non
si fa difficoltà ad immaginare cosa questo voglia dire per le attuali strutture
produttive centralizzate, per le infrastrutture, per le modalità di trasporto.
Ora, una nuova capacità
progettuale non la si genera con esortazioni retoriche, ma fornendo alle classi
manageriali ed imprenditoriali nuove risorse cognitive. Sono contrario alle
rottamazioni. Non basta cambiare classe dirigente, né sostituire una classe dirigente
matura con una giovane. La differenza sta nella ricchezza delle risorse
cognitive di cui dispongono.
Il problema (e la sfida) è, allora,
quella di fornire nuove risorse cognitive alle attuali classi dirigenti e per
formare le classi dirigenti prossime venture.
Quali risorse cognitive? Ad
esempio, le conoscenze e delle metodologie di strategia d’impresa più avanzate (che
non sono le conoscenze e le metodologie che analizzano e progettano competizione)
che sono completamente sconosciute.
Vuole un esempio? Le mando
un articolo apparso su M&F che parla del Rating che abbiamo assegnato ai
Business Plan della società degli indici FTSE Mib e STAR di Borsa Italiana. Vedrà
che non si tratta di Piani di rivoluzione, ma di budget di continuità. Come se
queste imprese fossero istituzioni. Ma il problema non sta nella incapacità o
nella non volontà di chi le dirige. Ma nel fatto che si trascura il ruolo delle
risorse cognitive. Si usano modelli di business plan (cioè linguaggi
progettuali) poveri. E il risultato non può che essere povero. Parlavo all'inizio di “mille altre conoscenze”. Ad esempio ritengo rilevante la presa di coscienza
della “rivoluzione” proposta dalla svolta linguistica che si è avuta nella
filosofia e che corrobora la nostra convinzione di puntare sulle risorse
cognitive, che del concetto di linguaggio ci sembrano una proficua
generalizzazione.
In attesa di una Sua
risposta che pubblicherei su questo stesso Blog,
Suo
Francesco Zanotti