"Se gli uomini non nutrono un ideale in un mondo migliore perdono qualcosa.
L'umanità non potrebbe funzionare senza le grandi speranze, le passioni assolute."
Eric J. Hobsbawm

venerdì 29 marzo 2013

Dal PIL ai flussi di cassa


di
Francesco Zanotti


Tutti affermano che è necessario crescere. Ma che cosa è che deve crescere? La risposta “mainsteram” è molto semplice: il PIL.
E’ vero che c'è chi si concentra su variabili a più alta intensità sociale, come l’occupazione, ma, anche costoro, poi, finiscono col riconoscere che l’aumento dell’occupazione passa inevitabilmente da un aumento del PIL.

Purtroppo, se si guarda al PIL si rischia la retorica. E ’una variabile troppo generale, forse anche generica, certo rinunciataria.

Mi spiego.
Innanzitutto il PIL, tralasciando le considerazioni filosofiche (che, per altro, è possibile fare e che sono niente affatto banali, come  tutti sanno)  contiene tutto e il contrario di tutto: i consumi, la spesa pubblica, gli investimenti, il saldo commerciale.
Allora, un aumento del PIL, può essere generato, ad esempio, dall’aumento dei consumi e del saldo commerciale, ma anche dall’aumento della spesa pubblica. Credo, proprio che queste due modalità di crescita non abbiano proprio lo stesso impatto sulle possibilità di sviluppo dell’economia, delle imprese, dell’occupazione, della qualità della vita delle persone.
Ancora: un aumento del PIL è un risultato “medio”. Ma come tutti sanno, i macro risultati medi sono sempre del tipo “pollo di Trilussa”: sono la somma di successi e tragedie. E a noi tutti interessano successi diffusi e condivisi.
Da ultimo, il ragionare in termini di PIL, porta sempre a speranze di crescita molto lente e di piccola entità. E tutti noi sappiamo che abbiamo bisogno di una crescita alta e forte.

Che altra variabile usare. Invece del PIL?
Propongo di usare come variabile di riferimento i flussi di cassa delle imprese. Propongo di spostare l’obiettivo dal livello macroeconomico, al livello della singola impresa.
Usando questa variabile, l’obiettivo della crescita si traduce in obiettivo molto concreto ed operativo: un aumento rilevante ed in tempi breve dei flussi di cassa a livello di ogni singola impresa.

lunedì 25 marzo 2013

Marco Croci, un commento profondo sulla cultura cinese


Abbiamo ricevuto dal Dott. Marco Croci, che ringraziamo profondamente, un commento che per intensità, spunti di riflessione e approfondimento abbiamo deciso di pubblicare come post.

Il Dott. Marco Croci ha pubblicato nel 2011  il libro I Cinesi sono differenti nel quale racconta le esperienze vissute nei due anni trascorsi in Cina al fianco della compianta moglie, Maria Weber, che dal 2006 al 2008 è stata Direttore dell'Istituto Italiano di Cultura a Pechino.


Caro Cesare,
ho apprezzato molto il tuo articolo, lucido e sintetico come era logico aspettarsi da te. Grazie innanzitutto di avere portato alla mia conoscenza questi due libri (la mia ignoranza non ha limiti). Per quanto riguarda i temi evidenziati, condivido per intero l'analisi di Luttwack, anche se onestamente non sono all’altezza di poter valutare se le sue conclusioni sono corrette, e se le cose andranno a finire come lui sembra immaginare.

C’è una frase nel tuo articolo che rappresenta molto bene il fatto che la cultura cinese può essere interpretata in due modi opposti: <Se per Zhang Weiwei i mille stati in un’unica nazione (quelli da cui ha origine la Cina) sono un punto di forza su cui si basa la stabilità della Cina in quanto “presenta diversità culturali e etniche superiori a quelle della gran parte delle altre nazioni”, Luttwak sostiene che in realtà tutti quegli stati erano “operanti all'interno della stessa cornice di norme culturali, con obiettivi, priorità e valori simili: le relazioni erano intraculturali, facilitate e legate dall'uso di un'unica lingua, da una mentalità comune e da presupposti culturali condivisi”.>.  Avendo approfondito in molti modi la cultura cinese e avendo vissuto per due anni in Cina, concordo pienamente con Luttwack nel giudicare quelle relazioni come “intraculturali” e non come “interculturali”, vista la obiettiva scarsità di differenze culturali rilevanti e la mancanza di una significativa dialettica tra le parti.

Dissento dall’opinione espressa da Zhang Weiwei, che però non mi stupisce: gli intellettuali cinesi, anche i più colti e globalizzati, tendono ad essere culturalmente “miopi”. Considerano le culture altrui come discutibili varianti di una cultura “oggettivamente efficace” che naturalmente è quella cinese. Delle altre culture si dedicano a capire solo gli aspetti interpretabili in base ai parametri culturali cinesi tradizionali, mentre ne ignorano e ne fraintendendo gli aspetti che non capiscono, che sono spesso i più rilevanti.

Non avendo avuto sufficiente esperienza di "vere diversità culturali" e di "discontinuità storiche" (nè nelle vicende collettive degli ultimi 4000 anni, né nelle vicende personali dei singoli individui), gli intellettuali cinesi non riescono a capire che possano esistere culture realmente diverse dalla loro. Nel corso della sua storia, la Cina non ha sperimentato il manifestarsi di mutazioni culturali comparabili a quelle che hanno portato l'Occidente dalla cultura greca alla cultura romana, al Cristianesimo, al monachesimo medioevale e al Rinascimento. (Tra parentesi, quando penso al monachesimo Shaolin e persino alla maggior parte delle scuole Chan e Zen, mi viene da ridere per l’inconsistenza delle condizioni di base per un possibile confronto!). E poi, né Riforma né Controriforma, né Illuminismo né Encyclopedie, né scoperte scientifiche, né invenzioni industriali, né Rivoluzione Americana, né Rivoluzione Francese, né ... né ... e neppure le dimissioni di Papa Benedetto XVI, clamoroso esempio di “meta-apprendimento”.

L'etnia e la cultura Han hanno costruito il loro predominio in Asia sulla conquista e sulla eliminazione di tutte le altre etnie e le culture con cui gli Han sono venuti progressivamente in contatto nei millenni. Le hanno "assorbite" tramite una sistematica distruzione e ora i Cinesi sono Han al 92%, come se in Italia fossimo tutti Piemontesi al 92%, o Calabresi al 92%, o Umbri al 92%, e le altre culture locali fossero (come sono nella Cina attuale) degli episodi di folklore da vendere ai turisti gonzi.

Il tratto distintivo degli intellettuali cinesi è il loro essere nazionalisti, spesso in modo supponente. Che questo sia indizio di una reale auto-stima o che sia una reazione al sentirsi inferiori ad altre culture, non mi è dato capirlo. Ho notato che, nello sforzo di non dover ammettere l’esistenza di culture paragonabili alla cultura cinese, utilizzano il criterio della “durata nel tempo” per misurare la validità di una cultura: più antica è una cultura, più è valida, perché deve aver saputo superare le difficoltà restando se stessa. E così vincono sempre loro. Nella Cina attuale, la ricerca di siti archeologici sempre più antichi, per poter pre-datare il più possibile la nascita delle cultura cinese, è una vera e propria ossessione. Sperano di scavalcare gli Egizi.

Ti chiederai a questo punto (come me lo sono chiesto io) da che cosa deriva questo atteggiamento nei confronti del Tempo, questa ossessione della durata. 

mercoledì 20 marzo 2013

Il futuro della Cina e l'Italia come "Terra di mezzo".

Due punti di vista autorevoli, ma opposti:
Edward Luttwak e Zhang Weiwei

di 
Cesare Sacerdoti


La straordinaria crescita economica e le ottimistiche prospettive almeno nel breve-medio termine, fanno della Cina uno dei grandi player mondiali, la cui influenza è in costante ascesa sia dal punto di vista economico e finanziario, sia da quello politico.
Dal punto di vista economico, la Cina è oggi contemporaneamente una forte minaccia e una straordinaria opportunità per l’industria occidentale e per quella italiana in particolare: minaccia perché la sua concorrenza si fa sentire ormai in ogni settore industriale e non solo per il livello dei prezzi, ma anche per la qualità via via crescente dei prodotti che esporta (vedi ad esempio la recente assegnazione alla Huawei della gara in Svezia – patria di Ericcson - per la fornitura della rete di telefonia 4G). Opportunità, perché la middle class cinese conta oggi almeno 300 milioni di consumatori con un livello di spesa simile a quello occidentale (un terzo degli orologi svizzeri sono oggi venduti in Cina).
Ma quali sono le reali prospettive della Cina? Noi siamo abituati a guardare questo Paese dalle eccezionali dimensioni e con una popolazione che rappresenta 1/5 della popolazione mondiale, con occhi occidentali. In questa prospettiva, la Cina sembra dover collassare di fronte ai problemi di ordine sociale, politico e ambientale che via via dovrà necessariamente affrontare (un po’ come è accaduto in Italia dopo il boom economico, ma in scala 20 volte superiore). Ma la Cina è davvero un Paese “occidentalizzato” nei costumi e nei desideri della popolazione, per cui un regime molto forte come quello attuale diverrà un abito troppo stretto?
Provo in questo mio articolo a mettere a confronto due recenti testi che analizzano le prospettive cinesi: Il risveglio del drago di Edwad Luttwak (che riguarda in particolare le prospettive di influenza politica estera della Cina) e The China wave di Zhang Weiwei che si riferisce soprattutto alle prospettive politiche interne ed economiche.

giovedì 14 marzo 2013

CFO e HR: Una nuova alleanza nel processo di sviluppo strategico


di
Luciano Martinoli
Francesco Zanotti
f.zanotti@cse-crescendo.com


Si è tenuto l’altro ieri, presso il centro Tec di Bosch, il primo incontro congiunto Andaf (Associazione nazionale direttori amministrativi e finanziari) e Aidp (Associazione della direzione del personale) e  dal titolo “ Una nuova alleanza nel processo di sviluppo strategico”. Siamo stati invitati come relatori con un ruolo specifico: “fornitori” di risorse cognitive.
La ragione di questo “strano” invito è molto semplice.

lunedì 11 marzo 2013

L'equivoco sulla "dimensione sociale" delle aziende

di
Luciano Martinoli

Uno dei tanti equivoci, voluti o inconsapevoli, che girano intorno alle imprese riguarda la loro attività nella dimensione "sociale". La causa è anche un lessico povero: poche parole che, stiracchiate di qua e di là, alla fine corrono il rischio di descrivere il tutto e il suo contrario. Provo a fare un po' d'ordine sgombrando il campo inizialmente dal significato istituzionale che viene dato alla parola: buonismo caritatevole, come per farsi perdonare qualcosa di "brutto e sporco" fatto occupandosi del business as usual. Non voglio parlare di questo.
Per attività nelle dimensioni economiche intendo quello che le imprese fanno, come agiscono, come si relazionano con gli attori sociali, politici, istituzionali e culturali.
Le attività di un’impresa nei confronti di tutti questi attori, che la letteratura economica anglosassone definisce “stakeholder”, non sono uno sforzo aggiuntivo che, graziosamente (altruisticamente), si aggiunge all’attività di business. Sono invece relazioni indispensabili, costitutive, strutturanti l’attività di business e la società che questa attività di business ospita. Cercando di essere più scientifici: il fare business non significa solo impegnarsi in scambi economici con la società, ma anche in scambi di consenso, potere, regole, valori e conoscenze.

Tutti questi scambi sono inesorabilmente intrecciati, soprattutto se parliamo di una impresa complessa di grandi dimensioni.
Detto diversamente, non ha senso l’espressione “Responsabilità sociale nel fare business”. Il fare business è una attività “sociale” che influisce in tutte le dimensioni della vita sociale, che struttura la società. Cambiandola in meglio o cercando di conservarne le strutture fondanti. Fare business è fare socialità, fare politica, strutturare istituzioni, costruire culture.
Allora è ipocrita relegare la responsabilità sociale a qualche azione caritatevole, affidata a qualche funzione aziendale di supporto, oppure produrre Bilanci Sociali che finiscono per essere pure e semplici operazioni editoriali.
Per non lasciare il discorso nei sui termini generali mi calo nel concreto, usando alcuni recenti fatti di grandi aziende italiane: ENI, Finmeccanica, Terna, A2A.

giovedì 7 marzo 2013

Il potere deve esorcizzare la conoscenza. E, poi, arrivano i guai.


di
Francesco Zanotti



Ripensando al caso MPS, qualche riflessione inedita.
Vogliamo davvero eliminare scandali e corruzioni? Basta che i media, invece di incensare i potenti (o stroncarli sadicamente quando, poi, inevitabilmente cadono), chiamandoli “maghi”, superuomini e via iperbolizzando, li sfideranno e li misureranno sempre e solo per il loro atteggiamento verso la conoscenza.

Mi spiego con una storia della quale poi proporrò, come si usa fare con ogni storia, una morale.
Tanti anni fa io faccia a faccia con uno dei manager bancari oggi considerati eccellenti, ho misurato quanto la conoscenza faccia paura.
Piccola premessa per spiegarmi. L’impresa è “pezzo di realtà” come tutti gli altri. Gli uomini ci riflettono sopra e imparano a conoscerla per governarla sempre meglio. Allora, una banca è interessata a conoscere sempre meglio le imprese, ad avere una teoria sempre più potente sul “pezzo di realtà” impresa. Soprattutto è interessata (deve per forza, altrimenti con che criterio presta i soldi?) a conoscere i processi di sviluppo di una impresa per prevederne, ed eventualmente cambiarne, il futuro. La disciplina che si occupa di studiare l’impresa nel suo insieme è la “strategia d’impresa”. Allora i progressi nella strategia d’impresa dovrebbero essere l’interesse principale di un manager bancario. Che, poi, può usare queste conoscenze anche per prevedere e gestire quella impresa che egli dichiara essere la sua banca. Insomma, come accade ad ogni impresa fondata sulla tecnologia che è massimamente interessata agli sviluppi della tecnologia e, più, in generale della scienza.

Finita la premessa, comincio alla storia. Io davanti a questo banchiere (allora giovane in carriera, appunto, ecco il problema: in carriera) per dirgli: guarda che ho scoperto quali sono i processi di evoluzione di una impresa. Era una vera scoperta la mia? Beh è semplice verificarlo: si prende il corpus delle conoscenze di strategia d’impresa e lo si confronta con la mia scoperta. E si verifica se è veramente una scoperta e se costituisce un progresso rispetto ai temi “caldi”, cioè non risolti di quella disciplina.
Purtroppo egli non era in grado di fare questa verifica: non conosceva lo stato dell’arte della strategia d’impresa. E qui si scopre perché il potere deve esorcizzare la conoscenza. Non sapeva perché non poteva investire il suo tempo nella conoscenza. Doveva investire il suo tempo nel tessere la rete di relazioni che l’avrebbe portato ad aumentare il suo potere.
Parimenti, però, non poteva ammettere (neanche a se stesso) che non aveva tempo per la conoscenza. Ed allora si è impegnato in un feroce ed arrogante tentativo di contestare la mia scoperta.  La sua risposta ad una nuova conoscenza decisiva per la banca che ambiva a dirigere è stata: questa conoscenza non può esistere. “Perché non ho il tempo di occuparmene e perché, se esistesse, e si scoprisse che non la conosco, non avrebbe più senso la mia pretesa di eccellente diversità che è la mia arma fondamentale per prevalere sui miei rivali nella scalata della gerarchia.” Ovviamente questo suo tentativo di esorcizzare la conoscenza si è rilevato subito senza speranza: non avendo neanche i rudimenti delle conoscenze di strategia d’impresa, è stato facilissimo controbattere le sue contestazioni. Per fare un esempio, è come se l’uomo della strada cercasse di contestare la fisica quantistica ad un fisico. E che potrebbe dire?

A, mano a mano che la sua contestazione della mia scoperta è diventata sempre più ridicola, cresceva la sua ansia. Ed allora? Ha accettato (almeno) di dedicare qualche spazio del suo tempo ad imparare? No! Per superare il suo imbarazzo ha usato un colpo di genio, è stato “brillante” quanto sarebbe stato imbarazzante per ogni azionista o stakeholder  che l’avesse ascoltato ...

lunedì 4 marzo 2013

I contenuti di un Progetto Strategico


di
Francesco Zanotti



Un post tranquillo: professionale.
Parliamo spesso di Progetto Strategico. Ma quali dovrebbero essere i contenuti di un Progetto Strategico.

Il primo contenuto è quello della “Visione” che l’impresa ha dell’ambiente in cui si trova a vivere. Come vede l’ambiente economico, i suoi trend, le sue potenzialità?
Quale impatto hanno le evoluzioni dei mercati finanziari e del sistema bancario?
Quali impatti ed evoluzioni nelle dimensioni sociale, politica, istituzionale culturale della società?
Il farsi queste domande costringe l’impresa ad uscire dai suoi schemi di riferimento usuali.

Il secondo contenuto è quello della Missione. Ma quale è l’impegno che l’impresa si sente di prendere all'interno della visione che si è data della società?

Il binomio Visione/Missione è la esplicitazione del significato sociale dell’impresa.

Poi occorre diventare concreti. Cioè concretizzare questo significato sociale nelle “cose” che l’impresa propone.

Ed allora occorre definire esattamente i business nei quali l’impresa decide di impegnarsi. La definizione dei business (e dei loro rapporti) è affare delicato. Il cambiamento di uno solo dei parametri che servono a definire un business comporta il cambiamento della “prospettiva” strategica. Infatti cambia anche l’industry di riferimento.
Una volta definiti (scelti) esattamente i business nei quali l’impresa ha deciso di operare, è necessario esaminare la “qualità” strategica di questi business, individuare il posizionamento strategico di ogni unità di business. Esso è riferito a due variabili: il potenziale di redditività dell’industry e il posizionamento competitivo all'interno dell’industry. Insomma ci si chiede se quella unità di business opera in una industry che permette di ricavare fatturato, margine e cassa, oppure no! Poi ci si chiede se questa potenzialità di produrre economics sarà sfruttata dalla nostra impresa o dai suoi concorrenti.
Il posizionamento strategico è, insomma, la variabile che ci dice quali e quanti economics può produrre una impresa.
Come si vede, non basta parlare di posizionamento competitivo e di competitività. Infatti che senso ha cercare di essere più competitivi in un’industry dove le possibilità di guadagno sono  quasi nulle? L’aver ossessivamente concentrato l’attenzione sulla competitività è frutto del considerare stabile le attuali industry. E’ frutto della cultura della conservazione di cui dicevamo prima.

Occorre considerare anche una cosa: il posizionamento strategico ha una sua evoluzione autonoma. Intendo dire che, se l’impresa non decide di gestire (cambiare o conservare se interessante) il posizionamento strategico attuale, questo evolve autonomamente in una direzione “obbligata”: verso posizionamenti sempre più critici. Intendo dire: verso aumento della competizione e perdita di senso.

Il lavoro di definizione del business, dell’industry e del posizionamento strategico può essere ricorsivo. La sua ricorsività è il segno di una imprenditorialità in atto. Intendo dire che, se un posizionamento strategico non ci garantisce quella capacità di produrre economics che ci interessa, allora possiamo decidere di cambiarlo. E le strade che si presentano sono due. La prima è quella di migliorare il posizionamento competitivo. Ma si tratta di una strada che ha tentato meno senso quanto più il potenziale di redditività è basso. Che senso ha “leticare” per un mercato che, tanto, non rende?
La seconda via è “imprenditoriale”: ridisegno le unità di business e, conseguentemente le industry.
Dopo le intenzioni, l’individuazione dei desiderata, è necessario esplicitare i fatti. Quali cambiamenti organizzativi e quali piani d’azione sono necessari per gestire consapevolmente l’evoluzione del posizionamento strategico?
Da ultimo, occorre sintetizzare in numeri. Partendo dall'evoluzione prevista, cercata del posizionamento strategico, e tenendo conto degli investimenti necessari a gestire questa evoluzione, si costruisce una previsione dell’andamento degli economics nel futuro.