"Se gli uomini non nutrono un ideale in un mondo migliore perdono qualcosa.
L'umanità non potrebbe funzionare senza le grandi speranze, le passioni assolute."
Eric J. Hobsbawm

lunedì 29 agosto 2016

Terremoti anche nella finanza: il caso minibond

di
Luciano Martinoli


E' recente la notizia che in Germania su 164 emissioni minibond 34 non verranno mai onorati per il fallimento dell'azienda emittente. A questi vanno aggiunti otto casi di ristrutturazione del debito extragiudiziale e altri 13 casi di situazioni classificate come inadempienze probabili. In totale 55 default, o probabili tali, ovvero il 33% circa del totale. 

In Italia le cose vanno meglio visto che finora vi è stato solo un fallimento (Grafiche Mazzucchelli di cui commentammo la notizia in un precedente post) ma... per quanto tempo?
Infatti all'orizzonte si profila un nuovo default.

venerdì 26 agosto 2016

Strategia di impresa: che confusione!

di
Cesare Sacerdoti

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Nella newsletter del 9 agosto, McKinsey propone un articolo dal titolo molto promettente: “CEO Transition: the science of success”.
Sorvoliamo sull’abuso che si fa del termine scienza e dei sui derivati, scientifico. Scientificamente ecc. E’ un titolo, deve essere appealing, così come nella pubblicità.
Ma il problema sta proprio nel contenuto dell’articolo stesso e in quello a cui fa riferimento,"how new CEO can boost their odds of success” di M.Birshan, T. Meakin e K.Strovink: questi due articoli traggono spunto da una sostanziosa ricerca fatta da McKinsey sulle principali “azioni strategiche” intraprese da ben 600 CEO nei primi due anni dalla propria nomina.
La prima osservazione sta proprio nel metodo: valuate e classificate le azioni, da una parte e il rendimento delle rispettive aziende (in termini di TRS Total return to shareholders, o meglio, per meglio omogeneizzare i risultati, il delta del TRS rispetto alla media dell’industry di riferimento) dall’altra, se ne derivano comportamenti tipo che sembra diventino la “norma” di riferimento. E questo mi sembra essere un atteggiamento molto generalizzato nella nostra società. Parafrasando, o forse estendendo, una frase di Giuseppe Longo (Le conseguenze della filosofia) la statistica diviene normativa e sostituisce la scelta strategica.
Il secondo aspetto che mi ha colpito è cosa si intenda per “azione strategica”: gli autori individuano 8 o 9 tipologie; le elenco in ordine di frequenza: riorganizzazione (reshuffle, letteralmente rimpasto) del management, Merger or acquisition, programmi di riduzione dei costi, lancio di nuovi prodotti/servizi, espansione o contrazione geografica, riprogettazione dell’organizzazione, chiusura di business o prodotti, strategic review.
Non si può non notare che la strategic review è buon’ultima (azione intrapresa nel 14% dei casi in aziende sane e nel 31% in quelle meno floride).
Ma le altre “azioni” in realtà non sono che (o dovrebbero essere) azioni strumentali all’espletamento di una strategia: prima decido dove voglio portare la mia azienda, poi deciderò se una acquisizione o una riorganizzazione siano più o meno necessarie o utili allo scopo.
La terza domanda è se sia vero e opportuno che le decisioni siano prese da una sola persona, il neo-CEO: siamo ancora al mito di Prometeo e dell’uomo solo al comando? Eppure uno degli autori dei citati articoli,  in McKinsey Quaterly del Novembre 2014, dichiarava: “Effective organizations seem to be transforming strategy development into an ongoing process of ad hoc, topic-specific leadership conversations and budget-reallocation meetings conducted periodically throughout the year. Some organizations have even instituted a more broadly democratic process that pulls in company-wide participation through social-technology and game-based strategy development.” e continuava “companies that consider themselves ‘very effective developers of strategy’, and that enjoy higher profitability than their competitors, for example, are twice as likely to review strategy on an ongoing basis (as opposed to say annually or every three to five years) (v. Rethinking the role of the strategist  By Michael Birshan, Emma Gibbs, and Kurt Strovink)
E, sempre su McKinsey quarterly (May 2012), nell’articolo “The social side ofstrategy, Arne Gast e Michele Zanini sostenevano che “it’s immediately apparent how powerful it is when thousands of people are deeply engaged with a company’s strategy. Those employees not only understand the strategy better but are also more motivated to help execute it  effectively and more likely to spot emerging opportunities or threats that require quick  adjustments”.
Su questo tema anche noi abbiamo avuto esperienze estremamente interessanti: si veda in proposito l’articolo su Learning OrganizationDesigning a strategic plan through an emerging knowledge generation process: The ATM experience” di Francesco Zanotti

Temo allora che sulla strategia ci sia ancora molta confusione e che non vedremo vero sviluppo delle nostre società se il top management non si dota di nuove risorse cognitive in particolare sui temi di strategia di impresa.


Possibile che valgano di più stupide regole contabili dei morti?

di
Francesco Zanotti

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Prima parliamo della contabilità, ma poi si può anche andare oltre, se in qualche modo davvero teniamo alle vite umane.
Se una impresa finanzia a debito un capannone sa come scrivere tutto questo: aumentano i debiti ma aumenta anche patrimonio. Cioè: una azienda con un capannone vale più della stessa azienda senza capannone.
Per le regole contabili europee, invece no!
Le spese superflue della pubblica amministrazione sono contate come le spese per ricostruire o mettere in sicurezza i nostri borghi. Di più, per le regole contabili europee se, paradossalmente, arrivasse una catastrofe che distruggesse persone e cose di metà Italia sarebbe indifferente o anche meglio. Basterebbe che la restante parte dell’Italia spendesse meno del suo PIL e questo verrebbe considerato un miglioramento. Che Venezia sprofondi, Roma venga bombardata e Firenze travolta dall’Arno non ha nessuna importanza. La domanda che interessa alle regole contabili è: ma il pezzo di Italia che rimane riesce a non avere deficit? Se la risposta è sì,  allora va meglio così. Pura follia.
Ma andiamo oltre. Perché i 300 e passa Mld per sistemare i territori Italia non ce li mette la BCE? E ce li mette a titolo gratuito? Se proprio non si riesce a capire che è la stessa cosa, si potrebbe dire che organizza un prestito a tasso zero e senza obbligo di restituzione. Perché deve spendere decine di mld ogni mese per comprare titoli sfigati e non li regala per investimenti vitali?
Si lo so, avrei dovuto fare un discorso più tecnicamente preciso, ma la sostanza non cambierebbe. Domanda: perché non si cambiano regole stupide autodistruttive e non si stampano soldi per gli investimenti? Luminari dell’economia che usate le sofisticate equazioni dell’idrodinamica, provare a rispondere ... E usiamo pure le equazioni dell’idrodinamica per discutere … Basta che abbiate il coraggio di farlo ... 


giovedì 25 agosto 2016

Proteggiamo viti e bulloni?

di
Francesco Zanotti

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Intervista sul Sole 24 Ore sui produttori di viti e bulloni. Non faccio nomi perché il farlo è un modo efficacissimo per nascondere i contenuti in dinamiche polemiche.
Il ragionamento riguarda le misure di protezione che chiedono i produttori di viti e bulloni. Già il chiedere protezione è segno di debolezza. Ma vediamo le ragioni per cui si chiede protezione, cioè dazi, soprattutto contro i cinesi.
Cito la frase chiave che, purtroppo, mi sembra davvero senza senso “Certo è che la Cina sta minando la nostra capacità competitiva, che anche in un campo come viti e bulloneria, degli elementi di fissaggio, richiede qualità, altra precisione e innovazione.”
Perché senza senso? Perché, per definizione, non si può minare la capacità competitiva di un concorrente. Mica gli si distruggono gli stabilimenti o si sabotano le produzioni. Una frase che potrebbe avere senso è: le imprese cinesi hanno una capacità competitiva maggiore della nostra.
E in cosa consiste questa maggiore capacità competitiva? Se i clienti di questo mercato cercano qualità, altra precisione e innovazione significa che non basta il prezzo. E significa che le imprese cinesi sono più brave proprio in qualità, precisione e innovazione. Ed allora che senso ha cercare di tenerle fuori dal mercato? Vogliamo che i nostri utilizzatori di viti e bulloni siano costretti  ad accettare una minor qualità, precisione e innovatività?
Altro discorso sarebbe se si volesse impedire che scarsa qualità, imprecisione e scarsa innovazione fossero una tentazione irresistibile per gli utilizzatori di viti e bulloni.
Ma così dice l’intervistato non è perché i fattori competitivi sono qualità, precisione e innovazione.
E, poi, se gli utilizzatori di viti e bulloni preferissero il prezzo a qualità, precisione e innovazione significherebbe che sono in guai profondi perché a loro volta non saprebbero garantire ai loro clienti qualità, precisione e innovazione.
Se si vuole una economia di mercato occorre accettare di misurarsi su qualità, precisione e innovazione. E se non si riesce a costruire un differenziale verso i nostri concorrenti su questi parametri, allora sta proprio qui il problema.


lunedì 22 agosto 2016

Le radici profonde dei mali del sistema bancario italiano (e non solo)

di
Luciano Martinoli


Il New York Times del 18 agosto lo titola in maniera molto chiara: Le banche italiane continuano a prestare soldi ad aziende immobili (stagnant) mentre la pila dei debiti si accumula.
La notizia prende spunto dalla linea di credito concessa a Feltrinelli da Unicredit e Intesa per un totale di 50 milioni di euro (alle migliori condizioni di mercato). ricordando che l'azienda ha messo in fila tre anni di seguito di perdite per un totale di quasi 11 milioni di euro. Pare che lo stesso trattamento di favore sia stato riservato a Benetton. 

Da tempo indicavamo ripetutamente che il problema dei crediti deteriorati doveva essere affrontato a monte, altrimenti una volta smaltiti si sarebbe ripresentato. Ora se ne è accorto anche il prestigioso quotidiano americano che cita uno recente studio dal quale si evince che le principali banche italiane, "note per essere le più deboli dell'eurozona in termini di riserve di denaro" cita testualmente l'articolo, hanno incrementato i loro prestiti alle aziende più in difficoltà del paese. 

A rincarare la dose viene citato anche il Fondo Monetario Internazionale che stima la dimensione dell'ammontare dei cattivi prestiti italiani in 360 miliardi di euro, cioè circa un terzo del totale dell'eurozona, affermando che qualsiasi miglioramento della situazione debitoria sarà di breve durata.

La ricerca conclude che "al cuore del problema vi è un legame del credito bancario inerte ad aziende inerti che ha "tenuto il coperchio" sulla ripresa della economia italiana". Il fenomeno richiama alla mente il ciclo di prestiti zombie giapponese iniziato nel 1990, così chiamato perchè teneva in vita aziende che, in assenza del sostegno bancario, sarebbero morte (dunque senza capacità autonome di sopravvivenza; situazione che avevamo già evidenziato in un nostro post precedente).

Che dire di più se non ripetere ciò che da sempre sosteniamo (e che recentemente abbiamo riassunto in uno scenario di sviluppo del sistema bancario)?

Le banche, e non solo quelle italiane, devono imparare a capire se i loro soldi produrranno quei flussi di cassa che consentiranno sia di remunerare il loro servizio sia di sviluppare le aziende. E' lì che si annida il nodo gorghiano da sciogliere per risolvere tutti i loro problemi; npl, redditività, valutazione di borsa, esuberi personale, ecc.
Il loro business, di limitarsi a valutare merito di credito passivamente, è lo stesso del millennio scorso: obsoleto e dunque inadeguato al nuovo contesto economico, come d'altronde le loro prestazioni dimostrano. Esse devono passare a stimolare e giudicare in autonomia, non attraverso relazioni o agenzie di rating,  quella progettualità strategica che è l'unica strada per valutare il possibile sviluppo di chi prende i loro soldi (che poi, alla fine, sono pure i nostri). 

Parlare di altro, come colpevolmente si ostinano a fare la politica, il sistema bancario stesso e i media, è solo un modo per rimandare i veri problemi alla radice della nostra situazione economica e tenere il coperchio su questa vergognosa non volontà, o incapacità, di affrontarli. 


sabato 20 agosto 2016

Diminuire la spesa pubblica significa diminuire il PIL

di
Francesco Zanotti

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Sembra che per crescere sia necessario ridurre la spesa pubblica. La ragione è che vi sono risorse per gli investimenti.
Forse è vero, ma occorre ricordare che la spesa pubblica fa parte del PIL. Aumentare la spesa pubblica fa immediatamente diminuire il PIL. Al contrario, aumentare la spesa pubblica fa aumentare il PIL.
Oggi sul Sole 24 Ore Marco Fortis ricorda questa verità e confrontando gli aumenti di PIL dei Paesi che sono cresciuti più dell’Italia. Bene, il differenziale di incremento è dovuto solo ad un incremento della spesa pubblica e non dell’attività economica. Lo dico più esplicitamente: sono cresciuti di più solo perché hanno speso di più.
Riporto i dati di Fortis.
Se si considera l’aumento del PIL dal quarto trimestre del 2014 (fino ai dati più recenti disponibili: secondo trimestre 2016) e lo si depura dalla spesa pubblica, si ottiene che nel periodo considerato è accaduto questo: Spagna + 3,4%, Francia 1,53%, Austria +1,43%,  Olanda e Italia 1,37%, Germania 1,36%, Portogallo 1,22% .
Salvo la Spagna, poi siamo cresciuti come gli altri. Anche un pelo più della Germania.
Il problema è che, come ho cercato di spiegare nel 2014
la ripresa di questa economia è impossibile.
Per riavviare un nuovo cammino di sviluppo è necessario fare emergere una nuova economia ed una nuova società. E’ facile parlare di investimenti. Occorre dire in cosa. Se si investe per migliorare l’attuale economia e per farlo si abbassa la spesa pubblica, si deprime il PIL sul breve, e non si costruisce alcuno sviluppo sul lungo.
Come far emergere una nuova economia ed una nuova società? Come ripetiamo da lungo tempo, è necessario distribuire alle classi dirigenti nuove risorse cognitive.


giovedì 18 agosto 2016

Crescita zero e banche

di
Cesare Sacerdoti
c.sacerdoti@cse-crescendo.com

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In un’intervista pubblicata ieri su Linkiesta,http://www.linkiesta.it/it/article/2016/08/17/crescita-zero-falso-problema-il-guaio-dellitalia-sono-le-banche/31489/, l’economista Tommaso Monacelli afferma, tra l’altro,: “Nel quadro di strettissimi margini di flessibilità che il governo si vuole prendere, dare più soldi ai pensionati o ridurre dei costi del lavoro non farebbe nessuna differenza. Scelga a caso lei una delle misure, metta in un’urna tante palline e ne prenda una. Non farebbe alcuna differenza”.
Non si può che essere d’accordo: le soluzioni per uscire dalla crisi che ci vengono proposte dalle varie parti sociali non sono che un togliere da una parte per mettere dall’altra. E questo vale spesso anche nei piani di risanamento delle Società.
Ma così non si genera sviluppo complessivo: tutt’al più si migliora la condizione della parte beneficiata, ma a spese di qualcun altro.
L’unica soluzione, a nostro avviso, è quella di generare vero sviluppo, aiutando le imprese (in senso lato) a generare nuovi piani industriali, con nuovi prodotti-servizi che creino nuovi mercati, non ancora esplorati o almeno non così affollati per cui si debba entrare nella fatale logica della competitività.
Monacelli punta il dito contro le banche affermando che “L’inefficienza del mercato del credito sia un problema di 20-25 anni dell’Italiae, continua “Non è sorprendente che un sistema bancario così inefficiente, quando arriva una recessione forte, accumuli un problema di Non performing loans tanto grave. Il problema degli Npl italiani, che è la causa fondamentale del perché l’Italia va così male da sette-otto anni, non è dovuto tanto alla recessione forte, ma al fatto che la recessione forte ha colpito un sistema bancario già fortemente inefficiente.”
Ma, secondo noi, la soluzione non va trovata nella riforma della contrattazione del lavoro: anche in questo caso si tratterebbe di porre le basi di un vantaggio per qualcuno (le banche e come ricaduta il sistema industriale) a scapito di altri (i lavoratori).
Aiutiamo, invece, le banche a essere motore di sviluppo delle aziende clienti, mettendosi al loro fianco nella creazione di nuovi piani industriali e supportandole con nuovi modelli di Business Plan.
In questo senso noi abbiamo proposto “Un cammino di sviluppo imprenditoriale del sistema bancario” scaricabile da questi blog.
Solo così, riteniamo, si può uscire dalla crisi e generare un nuovo sviluppo del sistema Paese, senza penalizzare nessuna parte sociale


mercoledì 17 agosto 2016

Il prossimo Business Plan di MPS sarà bello?

di
Francesco Zanotti

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Oggi sul Corriere delle Sera in una pagina dedicata al bello dell’Italia è riportata una frase di Ercole Botta Paola “Se diamo un filo a quattro imprenditori italiani faranno 4 tessuti diversi; se lo diamo a quattro tedeschi faranno quattro tessuti uguali.”.
E se diamo a quattro banche (italiane) diverse tutte le potenzialità di sviluppo oggi evidenti per costruire un nuovo ruolo del fare banca? Fino ad oggi sono fuggite a gambe levate dalle nuove potenzialità di sviluppo. Che accadrà al Monte dei Paschi? Predisporrà un Business Plan dove racconterà come, invece di fuggire dalle potenzialità di sviluppo, ci si butterà a pesce? Vedremo e giudicheremo presto, visto che i giornali di oggi dicono che sarà pronto tra un mese. Per ora, a quanto riferisce il Sole 24 Ore, si tratta di un Business Plan tradizionalissimo: digitalizzazione, alleggerimento delle rete distributiva, focus sulle PMI e riduzione dei costi. Quale Banca non cerca di fare queste cose? Vedremo quale sarà la proposta strategica definitiva del Monte dei Paschi.
Propongo alcuni criteri per giudicare il suo Business Plan. 
Il primo: come cambierà il modello di Business (che noi preferiamo chiamare “definizione del Business”?). Vi sarà una descrizione precisa e strategicamente significativa della nuova Definizione del Business? 
Il secondo: come cambierà il posizionamento strategico (che non è il posizionamento competitivo) nei diversi settori industriali (cioè nei settori di riferimento di ogni unità di business, definiti appunti “settori industriali”) in cui opera la banca? 
Terzo: quali conoscenze utilizzerà per implementare il/i nuovi modelli di Business?  Si limiterà alle “stranezze” scientificamente infondate del change management o farà uso delle più avanzate conoscenze nelle neuroscienze, nella psicologia, nella sociologia, nell’antropologi? 
Quarto: quale sarà il ruolo politico-sociale della banca? Da ultimo, per tornare al tema della bellezza e della capacità di costruire quella “grande bellezza” che illumina i secoli, il Business Plan sarà così bello che tutti gli stakeholder lo terranno sul comodino accanto al letto per leggerne una pagina ogni sera?