"Se gli uomini non nutrono un ideale in un mondo migliore perdono qualcosa.
L'umanità non potrebbe funzionare senza le grandi speranze, le passioni assolute."
Eric J. Hobsbawm

lunedì 29 aprile 2013

Saccomanni e la mortadella


di
Francesco Zanotti


Nelle sue prime dichiarazioni il neo Ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni ha esposto la necessità di un nuovo patto tra “Banche, Imprese e Consumatori”.
Non va bene? In termini generali, certo che va bene. Ma, in concreto, quella frase rende evidente un abisso incolmabile tra gli obiettivi dichiarati e la possibilità di realizzarli. Rende evidente l’origine profonda della crisi che stiamo vivendo.
E qui entra in gioco la mortadella.
Infatti, è possibile consumare la mortadella, ma non i frigoriferi. Questi si usano e si cerca di farli durare il più possibile. Non si consumano tablet e smartphone. Non si consumano, e si spera anche di non utilizzarli, i servizi di copertura assicurativa.
Mi si dirà: ma dai, non fare il pignolo! Che sarà mai una parola impropria?
Credo che in questo caso sia molto. Fino ad essere rivelatrice, come ho detto, delle radici profonde della crisi che ci attanaglia.
Parlare di consumatori significa avere ancora in testa il modello di sviluppo proprio della società industriale. La società è fatta da persone che hanno gli stessi bisogni igienici. Il sistema industriale deve soddisfare questi bisogni con prodotti che, per soddisfare i bisogni igienici, devono essere consumati. Il sistema di servizi deve supportare il sistema industriale.
Questa visione della società porta inevitabilmente a mercati competitivi, dove la variabile fondamentale è il prezzo. Infatti i se bisogni igienici sono uguali per tutti, anche le tecnologie per soddisfarli sono univocamente determinate. E piano piano diventano nella disponibilità di tutti. Allora la competizione è inevitabile e la variabile competitiva diventa piano piano solo il prezzo. In una competizione di prezzo la capacità di produrre cassa delle imprese (la loro capacità di pagare stipendi e fornitori) cala inevitabilmente. Se la capacità di produrre cassa delle imprese diminuisce non è possibile alcun patto “sano” tra banche, imprese e le “persone” che sono, contemporaneamente chi acquista e chi produrre.

In realtà nella società attuale i bisogni igienici sono soddisfatti. Questo significa, da un lato, che il sistema che produce i beni che servono a soddisfarli ha perso il suo significato esistenziale e ne ha mantenuto solo uno funzionale. Detto diversamente, l’acquisto non è più una modalità di autorealizzazione profonda, ma solo un modo per disporre di cose che servono. Le esigenze di autorealizzazione delle persone sono molto più complesse. E sono ben lungi dall'essere uguali per tutti.
Mi si può obiettare che i bisogni igienici sono ancora molto vivi in molte parti del mondo. Ma questo non fa che peggiorare le cose. Perché stimola la nascita di molte più imprese di quelle che servirebbero per soddisfare i bisogni igienici. Questo aumenta ulteriormente la competizione, ma genera anche guai “sistemici”. Infatti, la tipologia di prodotti e le modalità di produzione non sono più compatibili con le risorse complessive del Pianeta.

Allora la sfida con cui dobbiamo confrontarci è quella di trovare un nuovo sistema di prodotti e servizi che soddisfi le nuove esigenze di autorealizzazione, che soddisfi diversamente i bisogni igienici e che sia fondato su di un nuovo patto con la Natura.
Per vincere questa sfida non possiamo certo continuare ad usare la parola “consumo” che rappresenta così intimamente il vecchio sistema di prodotti e servizi.

Ma … sto sostenendo, forse, che siano di fronte ad una crisi che si supera attraverso un cambiamento di linguaggio? Anche. Più generalmente, siamo di fronte ad una crisi che potrà essere superata solo cambiando il sistema di risorse cognitive che sta al fondo della società industriale. La parola “consumo” è solo la punta di un iceberg che è indispensabile svelare. Per farlo sciogliere al sole di nuove e radicalmente diverse risorse cognitive.

giovedì 25 aprile 2013

La schiavitù delle statistiche


di
Cesare Sacerdoti


Disoccupati, l'aumento è senza fine. Istat: dal 1977 sono 1,5 milioni in più, titola repubblica.it di oggi 
L’Istat: in 35 anni oltre un milione e 400 mila disoccupati in più, titola ilsole24ore.com
e sullo stesso tono anche altre testate nazionali riprendono la ricostruzione da parte di Istat delle serie storiche dei principali aggregati del mondo del lavoro in Italia dal 1997 a oggi. Lo stesso Istat nel Statistiche report scaricabile dal sito http://www.istat.it/it/archivio/88827 focalizza nei grafici l’andamento della disoccupazione.
Il dato è, in ogni caso, molto preoccupante, ma va letto con attenzione. Istat infatti sottolinea (e le testate sopra citate, riportano nel corso dei rispettivi articoli) che “tra il 1977 e il 2012 il numero medio annuo di occupati è passato da 19 milioni 511 mila a 22 milioni 899 mila” , con un aumento, quindi, di più di 3,3 milioni di lavoratori attivi.
Il  misunderstanding sta nel valore della parola “disoccupazione”: prendo da Wikipedia: “La disoccupazione è la condizione di mancanza di un lavoro per una persona in età da lavoro (da 16 a 60 anni) che lo cerchi attivamente, sia perché ha perso il lavoro che svolgeva (disoccupato in senso stretto), sia perché è in cerca della prima occupazione (inoccupato)”: il disoccupato è colui che è iscritto alle liste di disoccupazione, non colui che non ha un lavoro.
Allora la situazione reale è che, malgrado la crisi, malgrado la perdita o la forte contrazione di interi settori industriali (chimica, farmaceutica, elettronica, auto, siderurgia ecc.) e malgrado l’introduzione dell’informatica nelle aziende (nel 1977 non era ancora diffuso nemmeno il fax!), in Italia si hanno oggi 3,3 milioni di posti di lavoro in più rispetto a 30 anni fa.
Ma nel frattempo si sono affacciati al mondo del lavoro milioni di “nuovi” lavoratori: in primis le donne, il cui tasso di occupazione è passato  (sempre da dati Istat) dal 33% al 48%  (pur sempre lontano dalla media europea e dagli obiettivi di Lisbona): vuol dire che è cresciuto del 50%!
E poi la popolazione italiana è cresciuta da 55,8 milioni di persone nel 1977 a 60,6 milioni nel 2012! 5 milioni di persone in più! E’ vero dovremmo confrontare i dati delle sole persone in età lavorativa e, con l’invecchiamento della popolazione, i 5 milioni si riducono significativamente, ma in ogni caso è decisamente superiore a quella del 1977.
Da quanto sopra traggo alcune considerazioni.

Siamo troppo schiavi di statistiche che ci vengono presentate sotto chiavi di lettura predeterminate (in altri momenti storici la stessa fonte sarebbe stata citata con un “creati 3,3 milioni di posti di lavoro!”) e siamo schiavi di termini utilizzati in modo inappropriato (in questo caso “disoccupazione”).

L’Italia è stata in grado in questi anni di creare posti di lavoro, molti (anche se non abbastanza) ben più dei sopra citati 3,3 milioni che sono solo il risultato netto tra posti creati e posti persi. Dobbiamo riprendere a generare imprenditorialità, in settori nuovi, probabilmente diversi da quelli tradizionali. E dobbiamo favorire la creazione di imprese capaci di affacciarsi ai mercati esteri. Per fare questo dobbiamo diffondere nuove conoscenze; dobbiamo, tutti, a partire dalle Istituzioni e dalle banche favorire la nascita di nuovi progetti che si reggano su piani strategici credibili, forti anche quando visionari.

La popolazione italiana continuerà ad aumentare; i giovani, le donne hanno il diritto di avere la possibilità di lavorare; i meno giovani vedono allontanarsi l’età della pensione e, nel contempo, hanno spesso energie, interesse, competenze per dare un proprio contributo allo sviluppo delle aziende e quindi del Paese. Tutti quegli interventi legislativi volti a favorire una categoria rispetto ad un’altra, ancorchè attualmente discriminata, non potranno dare risposte esaustive, ma rischiano di creare nuovi conflitti sociali.
E, infine, cerchiamo di ridare fiducia agli italiani, con qualche segnale positivo, pur nella consapevolezza della gravità della situazione.

lunedì 22 aprile 2013

Competizione auto costruita …ricercando competitività


di
Francesco Zanotti

Se e quando l’imprenditore ha successo, cioè riesce a portare a buon fine un processo di creazione sociale, si scatena un circolo virtuoso. Arrivano gli imitatori che, almeno all'inizio lo aiutano ad aumentare la qualità e la quantità dell’offerta. L’apparire degli imitatori è, dunque, sia un segno di successo che un fattore di sviluppo perché aiuta ad allargare il mercato che l’impresa ha creato. E’ solo questa alleanza informale tra imprese potenzialmente concorrenti che genera lo sviluppo di nuovi settori industriali.

Oggi tutti sembrano considerare il “punto di vista” della competizione con afflato quasi mistico: come se fosse l’unico punto di vista possibile da cui guardare al mercato. Come se la competizione fosse la caratteristica intrinseca fondamentale del mercato.
La competizione, invece, è negli occhi e nella mente. E’ costruita guardando con gli occhi della competizione. Non è nel mercato, è negli occhi di coloro che guardano al mercato. Con gli occhi pieni di competizione si riesce a immiserire ogni mercato in un gioco competitivo.
Il costruire competizione è un crescendo rossiniano di guai che si sviluppa in cinque episodi.

I Episodio
Una competizione di QUALITA’
Come ho già descritto, il risultato di un processo di creazione imprenditoriale di successo è la creazione di un nuovo mercato (con profondo significato antropologico) e lo strutturarsi di uno scambio economico ben definito, positivo e visibile tra l’impresa e questo mercato. Allora accade inevitabilmente che in quel mercato cerchino di introdursi gli imitatori, emergono i concorrenti.
Come può reagire l’imprenditore? Potrebbe non smettere mai di cercare i segni del tempo futuro per rivoluzionare continuamente il mercato. Per costruire continuamente nuovi universi antropologici. Ma è molto difficile che lo possa fare. Ha usato e saturato tutte le sue risorse cognitive ed emozionali nel costruire una nuova impresa, il suo mercato di riferimento e la speranza di futuro che rappresentano. Tanto che oramai vede il mondo solo attraverso quella impresa. Occorrerebbe che fosse aiutato da fornitori di nuove risorse cognitive che possano permettere a lui di tornare a cercare i segni del tempo futuro, di innamorarsi di essi e farsi coinvolgere in una nuova storia d’amore con il futuro. Ma, intorno a sé trova solo razionalizzatori, ottimizzatori. Ed egli sa benissimo che razionalizzando ed ottimizzando non si costruisce alcuna storia d’amore.
Se le sue risorse cognitive ed emozionali non sono più in grado di fargli vedere i segni del tempo futuro, di ricominciare il processo di creazione sociale che permette di costruire nuovi universi antropologici, allora non gli rimane che accettare la sfida degli imitatori. Dopo tutto è lui che ha costruito impresa, mercato, significato: può lasciarsi spaventare da nuovi arrivati che giudica inevitabilmente senza arte né parte?

Si scatena, allora, inevitabilmente, una guerra competitiva tra l’imprenditore e i suoi imitatori. L’imprenditore è convinto di vincerla e questa convinzione cambia l’oggetto dei suoi desideri: non è più la passione per la creazione, ma la perversa libidine della lotta. Si dimentica cosa significa essere innamorato di una proposta di futuro da regalare al mondo. E ci si immerge nella battaglia competitiva con la convinzione di vincerla. Come tutti coloro che scatenano guerre. Poi, forse, qualcuno sembra riuscire a prevalere e riesce anche a chiamare questo prevalere “vittoria”, a patto di non guardarsi indietro a vedere le distruzioni che è costata questa vittoria: la distruzione di potenzialità di futuro. Ma è una illusione effimera. Presto ogni vincitore si accorge che non ha vinto una guerra, ma solo una battaglia. Ed ha creato le condizioni perché la battaglia successiva sia ancora più cruenta.

La prima battaglia si sviluppa sul terreno della qualità.
Poiché l’imprenditore non vuole più rischiare (non riesce più a immaginare possibile) nel variare l’universo antropologico del prodotto, allora non ci si può che confrontare con i concorrenti sulle prestazioni di questo prodotto che vengono riassunte con il termine “qualità”.
Se ci si confronta sulla qualità, innanzitutto, l’attenzione primaria si concentra sui concorrenti. Ma questo significa che le imprese perdono, tutte insieme, piano piano, quasi senza accorgersene, il contatto con il mercato. Un teorico dei sistemi direbbe che la relazione di un sistema di imprese che compete con il cliente (con la società) diventa di tipo “accoppiamento strutturale”. I clienti rimangono sullo sfondo della competizione tra imprese. I clienti diventano solo il riferimento sempre più teorico per la qualità dei prodotti.
Più concretamente, se la qualità è il frutto della interazione tra concorrenti, il tipo di qualità che si va formando è del tutto autoriferito. E’ facile fare esempi: tutti i prodotti tecnologicamente complessi si trasformano sotto lo stimolo del confronto competitivo. Sviluppano prestazioni che le imprese giudicano rilevanti, ma i consumatori molto meno. Tutti sanno ad esempio che delle mille funzioni di tutti i tipi di apparati elettronici ne vengono usate solo poche. Una incapacità dei consumatori di comprendere ed usare la tecnologia? O, forse più verosimilmente, disinteresse per una evoluzione di prestazioni che a loro non interessano?
Mentre i concorrenti leticano all'interno di un universo antropologico, questo universo cambia. I segni del tempo futuro evolvono e i clienti diventano sempre meno interessati all'universo antropologico complessivo rappresentato dal prodotto.
Universo antropologico sempre più lontano e prestazioni sempre più incomprensibili significano disaffezione, calo del desiderio di acquisto.
Il risultato netto della battaglia di qualità è una contrazione del mercato e un aumento di rilevanza della variabile “prezzo”. Anche i vincitori non possono dire di avere vinto.

II Episodio
Una competizione di EFFICIENZA
Le imprese che escono (apparentemente) vincitrici dalla battaglia di qualità hanno un differenziale di qualità con gli sconfitti (che, peraltro, escono dal mercato), ma non tra di loro.
Per differenziarsi agli occhi del cliente non rimane che ridurre il prezzo più dei concorrenti. Per riuscirci, occorre diventare più efficienti di loro. Inizia, allora, una battaglia di efficienza, combattuta a colpi di reengineering che costringe l’attenzione dell’impresa sempre più all'interno.
Nella fase imprenditoriale l’esterno era il cliente che era un alleato per costruire un mercato. L’interno era una organizzazione, da formare, che era anch'essa un alleato. Poi, nella fase di competizione di qualità l’esterno è diventato, soprattutto, concorrenti da combattere. Ora anche l’organizzazione si trasforma, se non in un nemico da combattere, in una macchina da rendere sempre più efficiente. I lavoratori passano dall'essere partner organizzativi al diventare “attrezzi” di produzione.

Dobbiamo riconoscere che quella ricerca di efficienza, che sembra oggi una strategia inevitabile, aumenta in realtà la chiusura del sistema.
Questo significa che il tipo di efficienza che si ottiene non è certamente funzionale né al confronto competitivo, né tanto meno, al miglior servizio ai clienti. Rappresenta l’equilibrio tra gli attori interni del sistema.

III Episodio
La competizione di RAPPRESENTAZIONE
Se la battaglia della qualità omogeneizza la qualità tra i concorrenti, la successiva battaglia di efficienza non può che omogeneizzare anche l’efficienza. Ovviamente non stiamo parlando di una efficienza assoluta, ma di una efficienza che dipende dal percorso attraverso il quale viene raggiunta.
Se la qualità e l’efficienza sono state “stabilizzate”, la ulteriore inevitabile competizione tra i vincitori della battaglia della qualità e dell’efficienza si gioca sulle capacità di fornire una differenziazione del prodotto generata dalla comunicazione.
Lo scatenarsi di questo tipo di competizione in un settore industriale è il segnale più chiaro che i sistemi d’offerta e le modalità operative sono sostanzialmente indifferenziati tra i concorrenti che in esso operano.

IV Episodio
La competizione di prezzo
Naturalmente per la comunicazione accade quanto è accaduto per qualità ed efficienza. Vi sono certamente “vincitori” della battaglia di comunicazione: quelli che sono riusciti a gridare più forte. Ma, alla fine, anche i migliori urlatori, hanno la gola secca.
Alla fine della fase di rappresentazione, i concorrenti “vincitori” si trovano ad avere la stessa forza relativamente alle armi competitive fondamentali (qualità del sistema d’offerta, efficienza organizzativa, capacità di comunicazione).
Cosa accade allora?
Che si innesca una battaglia di prezzo che non è più sostenuta da recuperi di efficienza, ma avviene a scapito della redditività. Una battaglia di prezzo che nessuno riesce più a controllare.
Ne ho già accennato, ma voglio ribadirlo… Non dimentichiamo che mentre all'interno di un settore industriale si combatte, il mondo se ne va per i fatti suoi. Più esplicitamente, ogni battaglia sul prezzo si scatena in un mercato in contrazione perché i clienti sono sempre più indifferenti all'oggetto della battaglia.

V Episodio
L’ambiente come arma competitiva
Mettiamoci nei panni dell’imprenditore quando si trova dentro una competizione di prezzo che continua a diventare sempre più feroce: un profondo senso d’impotenza satura la sua mente e il suo cuore. Gli sembra che tutte le leve che sono nelle sue mani abbiano perso di efficacia. Non gli rimane che chiedere aiuto. E un aiuto può essere finalizzato solo alla sopravvivenza, ma non a costruire “magnifiche sorti e progressive”. Un futuro migliore è demandato ad eventi mitici, come la “ripresa”, che troppo spesso viene vista come speranza di ritorno al passato.
Alla fine non rimane che chiedere aiuto al Governo perché, sostanzialmente, aiuti una impresa che non ce la fa da sola: renda più efficiente il Sistema Paese. Ma poi anche: protegga dalla competizione, “sgridi” le banche perché non fanno credito …

Il risultato complessivo: un Blocco imprenditoriale che genera crisi
Tentando di proporre una sintesi della storia di evoluzione di un’impresa nel mercato che ha creato e, quindi, della sua capacità di produrre valore, propongo l’immagine del blocco imprenditoriale.
La vita di un’impresa nasce da un’innovazione imprenditoriale che poi, piano piano, si spegne perché viene meno la capacità (la voglia) dell’imprenditore di immaginare e costruire nuovi mondi. Nasce e cresce, quindi, la competizione che chiude l’impresa in confini sempre più angusti di senso (cognitivi ed emozionali) e di risultati (fatturato, margine operativo e cassa).

Se un imprenditore si auto chiude in questa prigione cognitiva è ovvio che gli sembri davvero sempre più difficile creare nuovi mondi.

Ma l’emergere di un blocco imprenditoriale non è una inevitabilità fatale. Ogni storia di competizione è costruita dai pensieri e dalle emozioni degli uomini.

E noi aggiungiamo: la competizione non è una storia per uomini liberi, forti e generosi. E’ la favola che tranquillizza chi non è capace di grandi sogni di grandi azioni. E’ l’universo dei costruttori di crisi.
Vogliamo lasciare in eredità uno scenario di battaglie competitive o un mondo “imprenditoriale” dove si è ricominciato a costruire Rinascimenti?
Noi siamo per i Rinascimenti …

martedì 16 aprile 2013

Il problema del credito alle imprese: paura della conoscenza?


di
Francesco Zanotti


Al di là di visioni complottistiche (che certamente non hanno fondamento), al di là di moral suasions del tipo “acquistate debito pubblico” (che, invece, ne hanno un po’di più), al di là dei problemi di capitalizzazione e di regolazione (che contano e disturbano), rimane, però, la volontà di tutti i banchieri di far affluire tutto il credito che serve alle “imprese sane”.
Dove sta allora il problema? Le banche possono superare suggerimenti interessati e regolamenti e fare affluire liquidità alle “imprese sane”.
Ecco, il problema sta proprio in questa espressione: le “imprese sane”. Si scopre in cosa consiste il problema chiedendosi: le banche sono in grado di capire quali sono le imprese sane e quelle no? Ancora prima: ma cosa significa impresa sana?
Andiamo con ordine: cosa significa una impresa sana? Sostanzialmente una impresa che è sempre andata bene. Cioè: una impresa che è sempre riuscita a rispettare i sui impegni con le banche.
Ma il problema non è il passato. Occorrerebbe considerare “sane” le imprese che riusciranno a rispettare i loro impegni nel futuro. Questo vale, soprattutto, per una grande massa di imprese che stanno diventando “malate” (eufemismo) e che si cerca di guarire con operazioni di ristrutturazione del debito.
Ma le banche sanno valutare quale sarà la capacità di produrre cassa (perché è solo producendo cassa che si rispettano gli impegni con le banche) futura delle imprese?
La risposta, purtroppo è: no.
Ed è no perché le banche non utilizzano i modelli e gli strumenti di strategia d’impresa che servirebbero per capire quale è e come evolverà il posizionamento strategico (quello che determina la capacità di produrre cassa) delle imprese.
Se usassero questi modelli e strumenti potrebbero, non solo, individuare molto meglio le imprese “sane” (magari scoprendo che, producendo cassa hanno bisogno di capitali di sviluppo e non credito commerciale), ma anche aiutare le imprese malate non a cercare disperatamente di ridurre costi incomprimibili e tagliare investimenti, ma a disegnare progetti di sviluppo capaci di variare positivamente il loro posizionamento strategico.
Potrebbero costruire un portafoglio strategico delle imprese clienti per capire come varieranno le sofferenze complessive e potrebbero intervenire …
Allora una domanda si impone: visto che esistono le conoscenze (modelli e strumenti di strategia d’impresa) per costruire veramente una alleanza di sviluppo tra banche ed imprese perché non vengono usate dalle banche, soprattutto in una contingenza drammatica come quella in cui stiamo vivendo?


venerdì 12 aprile 2013

Rating del Progetto Strategico di Ansaldo STS


di 
Riccardo Profumo
 r.profumo@cse-crescendo.com



In occasione della STAR Conference organizzata a Milano da Borsa Italiana lo scorso 26 marzo, Ansaldo STS ha presentato alla comunità finanziaria il nuovo Progetto Strategico  2015.
Abbiamo sviluppato una metodologia di Rating Progettuale del Progetto Strategico che prevede l’analisi di due macro-variabili: la Completezza del Progetto Strategico e la Probabilità che il Progetto si realizzi.
Le due variabili sono riassunte in una Matrice di sintesi del Progetto Strategico.
Abbiamo analizzato il documento presentato dal Management di Ansaldo (Investor meeting 2013 – key elements of Ansaldo STS strategy).
Il Rating è dato dal posizionamento sulla matrice in figura. 


In breve dettaglio, per quanto riguarda la completezza del Progetto Strategico, possiamo dire, che:
·     La Vision e la Mission si limitano alle dimensioni economiche e finanziarie. Mancano ad esempio la visione delle dimensioni sociali e ambientali, da cui Ansaldo STS non può prescindere per la definizione della mission.
·     Risultano sufficientemente declinate le strategie di business, gli elementi di attrattività delle industry e il piano d’azione per l’implementazione della strategia.
·     Il Posizionamento Strategico di Ansaldo STS non è individuato sia in termini attuali, sia evolutivi. La sua analisi consentirebbe anche di sostanziare con migliore efficacia le previsioni economico-finanziarie che vengono proposte dalla Società.
·     Non è possibile valutare la Probabilità di Realizzazione. Non sono stati esplicitati i processi di sviluppo, di implementazione e  di controllo del Progetto Strategico.

L’Osservatorio dei Business Plan - www.osservatoriobusinessplan.it - mantiene costantemente monitorata la pubblicazione dei Progetti Strategici delle Società quotate appartenenti all'indice FTSE-MIB della Borsa Italiana con l’obiettivo di analizzare approfonditamente e criticamente la completezza della strategia aziendale comunicata e il livello di partecipazione degli stakeholder al processo di sviluppo della stessa.

Il sito presenta anche i Rating Progettuali dei Progetti Strategici delle principali società quotate di Borsa Italiana.
Al seguente link potete accedere ad una short version del Rating Progettuale del Progetto Strategico di Ansaldo STS. http://www.osservatoriobusinessplan.it/doc/doctab/b2b/ansaldo.pdf


lunedì 8 aprile 2013

Helicopter money... ma il problema sta da un'altra parte!


di
Luciano Martinoli

La notizia è apparsa sul sole24ore di venerdì 5 Aprile. L’idea è semplice: stampare 14 miliardi di sterline, equivalente più o meno all’IVA della vendita al dettaglio del 2012 nel Regno Unito, sistemarle su elicotteri militari, lanciarli fra i negozi delle high street, come vengono chiamate le strade principali delle città inglesi.
“Coloro che le trovano hanno un solo obbligo: spenderle rapidamente in beni e servizi” cita l'articolo. 
La proposta di Adair Turner, l’economista ideatore, ha acceso, come era prevedibile, un vasto dibattito. Trovo però che sia una nuova conferma della miopia, forse, più gravemente, di una incapacità di riconoscerla e porre rimedio, che non è nuova soprattutto dall’isola che ha dato i natali alla società industriale (vedere il caso della regina Elisabetta II di qualche anno fa).
Il motivo di questa mia posizione è proprio nell’affermazione finale, fondamenta di tutte le soluzioni degli economisti, che danno per scontato che la gente abbia comunque voglia di acquistare e, se non lo fa, è per mancanza di denaro. Detto in altri termini: perché la gente dovrebbe spendere rapidamente in “questi” beni e servizi?
Lasciatemi fare una considerazione e, solo apparentemente, partire da lontano.

mercoledì 3 aprile 2013

Il futuro della Cina: il parere del Cav. Mario Boselli, Presidente della Camera Nazionale della Moda Italiana.



Il Cav. Mario Boselli, presidente della Camera Nazionale della Moda Italiana e membro della Fondazione Italia-Cina, ci ha inviato il suo autorevole commento in merito al post Il futuro della Cina e l'Italia come terra di mezzo.

Ringraziamo il Presidente Boselli per aver condiviso il suo prezioso parere con noi e con tutti i nostri lettori. 

Il mio parere riguardo alla visione del futuro della Cina è quello di essere senza esitazione d’accordo con Zhang Weiwei. Visito Hong Kong e la Cina da molti anni, esattamente dal 1978 e ho potuto seguire il percorso di questo grande paese che al di là di non poche contraddizioni ha però proseguito un percorso di sviluppo e progresso che è andato accentuandosi negli ultimi anni, ciò soprattutto per quanto riguarda gli aspetti qualitativi in tutti i campi.
Io non sono un tuttologo ma conosco abbastanza bene il mondo Moda e la sua filiera (tessile- abbigliamento – pelletteria – calzatura) e gli altri comparti legati alla Persona, arredamento e cibo (vini compresi), ora se esaminiamo quest’area nel senso più ampio dell’evoluzione dello stile di vita ritengo di poter affermare che lo sviluppo della Cina è stato fin qui continuo e progressivo e che vi sono i presupposti perché ciò possa ulteriormente progredire.
Una delle ragioni di questo mio modo di vedere deriva dalla scelta delle autorità cinesi di favorire l’inurbamento di circa 400 milioni di persone che dalle campagne dovrebbero trasferirsi in città. Non si parla però di città di grandi dimensioni, ma di città cosiddette minori (si fa per dire), che contano uno/due milioni di abitanti . Tale fenomeno favorirà l’incremento dei consumi, in quanto questi contadini diventando cittadini cominceranno a consumare anche prodotti di abbigliamento/moda.
Un’ulteriore riflessione: Il primo fenomeno dell’incremento dei consumi di prodotti d’abbigliamento avviene da parte dei cinesi nei confronti di prodotti delle aziende cinesi, tali prodotti costituiscono la base quantitativamente più importante dei consumi.
La parte alta della piramide, quella più stretta, è composta dai consumi dei migliori brand del Made in Italy, quantitativamente limitati. Il consumo di tali prodotti si svilupperà più lentamente anche in queste nuove città. Ma la bella sorpresa per la moda italiana dovrebbe essere costituita dalla fascia intermedia di consumatori che desiderano acquistare prodotti di un livello superiore rispetto a quelli cinesi, senza però potersi permettere gli elevati prezzi dei brand top.
Riguardo allo stile di vita occidentalizzato ritengo che la Cina sia un esempio perfettamente rappresentativo di coerenza, perché si identifica col nostro stile di vita e per certi aspetti con la nostra cultura. Per intenderci la Cina è agli antipodi dell’India, ove barriere culturali, sociali, religiose limitano l’adozione di modelli di consumo occidentali .
Infine non ritengo oggettivamente che un regime molto forte come quello attuale possa divenire un “abito troppo stretto” perché probabilmente il continuo arricchimento della popolazione dovrebbe consentire di metabolizzare le eventuali tensioni. 
Milano, 2 aprile 2013