"Se gli uomini non nutrono un ideale in un mondo migliore perdono qualcosa.
L'umanità non potrebbe funzionare senza le grandi speranze, le passioni assolute."
Eric J. Hobsbawm

mercoledì 29 aprile 2015

Parole, parole soltanto parole ... inutili … o parole nuove?

di
Francesco Zanotti

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… usiamo sempre le stesse parole, ma sono significative?

Desideriamo la crescita, ma che cosa vogliamo che cresca?
Il PIL? Ma con il PIL non si mangia. Si mangia se aumenta la capacità di generare cassa delle imprese. Ma aumentando il PIL non aumenta anche questa capacità? Nell'economia attuale, no!

Cerchiamo stabilità. Ma che cosa vogliamo che si stabilizzi in un mondo che è strutturalmente in squilibrio? Vogliamo che si stabilizzi uno squilibrio? E’ un ossimoro.

Invitiamo alla competitività. Ma cercando competitività non si aumenta la capacità di generare cassa. Anzi la si deprime sempre di più. L’ho definito “effetto stadio”.

Ci sforziamo di fare riforme istituzionali. Ma quale è il legame tra le riforme istituzionali e la capacità di generare cassa delle imprese? E se c’è questo legame, in quanto tempo si esprime?

Invochiamo sostenibilità, ma l’attuale economia non è sostenibile. Anche perché la Nutura non è un sistema stabile, ma evolve.  E l’uomo con le sue attività genera questa evoluzione e sempre più lo farà nel futuro.

Vogliamo fare affluire risorse finanziarie alle imprese, ma chi le fornisce non ha criteri per decidere se verranno restituite o valorizzate. E chi chiede queste risorse pensa solo alla sopravvivenza nel brevissimo.

Se le parole che usiamo non sono significative, allora dobbiamo iniziare ad usarne di nuove per costruire nuove storie capaci di fare generare cassa alle imprese, garantire una occupazione di qualità, remunerare gli investitori, garantire le risorse per lo sviluppo del Sistema Paese, all'interno di un nuovo patto con la Natura.


Se seguite questo link troverete un documento che usa parole nuove per descrivere una nuova proposta di sviluppo.

lunedì 27 aprile 2015

Perché non facciamo sì che la Bad Bank sia meno “bad”?

di
Francesco Zanotti


Leggo su Affari & Finanza di Repubblica un fondo di Federico Fubini sulla “Bad Bank” prossima (e necessaria) ventura.
Innanzitutto dichiaro il mio sconcerto nel verificare che molti Stati (Germania di gran lunga un testa) hanno salvato le banche con i soldi dei contribuenti e senza fare pagare pegno ad azionisti e obbligazionisti quando era possibile farlo. Oggi la legislatura europea è più stringente e noi stiamo facendo una fatica a fare una Bad Bank che non chieda sacrifici ad azionisti e obbligazionisti.

Che pensare, poi? Io penso due cose. La seconda più importante della prima

La prima è che azionisti e obbligazionisti hanno la colpa di non aver chiesto alle Banche di definire Progetti Strategici alti e forti. Noi assegniamo da tre anni (questo sarà il quarto) un Rating ai Business Plan delle banche quotate al FTSE MIB e possiamo dire che si tratta di progetti di continuità che lasciano le banche in balia degli eventi esterni. Quindi il fatto che soprattutto gli azionisti non paghino nulla non è proprio così corretto. Certo dovrebbe pagare anche la CONSOB per omessa vigilanza. Che senso ha vigilare solo sui comportamenti del passato e disinteressarsi dei comportamenti del futuro?

La seconda cosa che penso (quella più importante perché è un proposta) è che occorrerebbe un progetto per far diventare meno “bad” la futura Bad Bank. Il progetto dovrebbe aiutare le imprese debitrici a dotarsi di Progetti di Sviluppo (Business Plan. I Business Plan devono diventare progetti di sviluppo e non solo budget) in modo da aumentare (ricostruire) la loro capacità di generare cassa per poter onorare i debiti. Se le imprese recuperano capacità di generare cassa, possono pagare stipendi e anche individui e famiglie riusciranno maggiormente ad onorare i loro debiti.
Se la Bad Bank non diventa meno bad lasceremo che i debitori finiscano nella mani di società di recupero crediti che hanno l’unico interesse di spremere i debitori con risultati a breve, ma danni sociali rilevanti subito dopo.
E’ possibile formulare un progetto che permetterebbe di aiutare le imprese a recuperare la loro capacità di generare cassa? Si! E non certo chiamando qualche presunto guru delle ristrutturazioni. Ma usando conoscenze e metodologie indispensabili, ma oggi sconosciute alle banche: le conoscenze e le metodologie di strategia d’impresa.



giovedì 23 aprile 2015

La competizione e le battaglie di prezzo

di
Francesco Zanotti

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La competitività è il valore supremo? Diventare più competitivi è la strategia regina?
Stupidaggini.

Nessuna battaglia competitiva può essere vinta.
Infatti, sia la teoria che l’esperienza dimostrano che ogni (eventuale) acquisizione di vantaggio competitivo è sempre meno intenso e durevole e finisce sempre di più in una competizione di prezzo. E le battaglie di prezzo sono le più cruente: garantiscono che proprio nessuno, tra coloro che vi partecipano, riusciranno a sopravvivervi.
La ricerca di un vantaggio competitivo stabile è come la ricerca della presunta bacchetta magica che ci si illude possa risolvere ogni guaio, il Santo Graal che tutti cercano, ma nessuno trova, di qualche Deus ex machina misericordioso.

La competizione, quindi, non va combattuta, ma eliminata ritornando ad immaginare e proclamare nuovi prodotti e servizi, ologrammi di una nuova società che sia progresso e futuro della società industriale.

Possiamo e dobbiamo aggiungere anche altre osservazioni.

La prima è che la ricerca della competitività finisce per diventare un discorso di alibi referenziale.
Intendo dire che si finisce per cercare di diminuire i costi (in vista di un vantaggio di prezzo) solo rispetto al proprio passato. E questo è il massimo del “non sense” perché si tratta di una azione che rende l’impresa più competitiva solo rispetto a se stessa, ma non rispetto ai concorrenti.
A dimostrazione di quanto un discorso autoreferenziale sia diffuso vi sono i processi di ristrutturazione del debito. Essi (palesemente) non funzionano proprio perché sono fondati su progetti di riduzione dei costi che cercano di far diventare l’impresa competitiva solo rispetto al suo passato.

Per concludere, le strategie di competitività sono anche cognitivamente bloccanti perché sono orientate a far funzionare meglio il presente.
Mortificano l’innovazione perché finalizzano anch'essa alla conservazione. Uccidono anche la speranza perché l’immergersi nella conservazione obnubila la vista: impedisce di “vedere” le potenzialità e le richieste di futuro.
Sono, allora, strategie di conservazione in un mondo che chiede alle imprese rivoluzioni strategiche.

Per noi la competizione sarebbe una trappola mortale
Supponiamo per un attimo che la crescita della competizione sia inevitabile perché non vi sono spazi per nuovi prodotti e servizi ad alta intensità esistenziale ed innovatività funzionale. Se così fosse, la crisi delle nostre imprese sarebbe irresolubile.

Infatti è vero che la crescente competizione “colpisce” tutti i paesi industriali allo stesso modo. Ma dal punto di vista del competere sugli attuali prodotti e servizi (giocare soltanto sulla innovazione tecnologica e sull'efficienza e l’efficacia organizzativa), un’importante parte delle nostre PMI (la struttura portante del nostro sistema economico e, quindi, sociale) non ha alcuna possibilità di superare la sua attuale debolezza competitiva in tempi ragionevoli.
In sintesi, il cercare di aumentare la competitività delle nostre imprese per affrontare la competizione significa cercare di combattere una battaglia nella quale, strutturalmente, non vi possono essere vincitori. E noi si parte svantaggiatissimi.

Detto a mo’ di slogan, se cerchiamo di risolvere la crisi diventando più competitivi, riusciremo solo a vincere una competizione al contrario: saremo i primi a perdere. Cioè saremo i primi a buttarci, da soli, nella brace più calda che c’è.


sabato 18 aprile 2015

Ragionamenti di conservazione: capitalizzazioni e debiti

di
Francesco Zanotti


Lettera aperta al Dott. Flavio Valeri Chief Country Officer Italy Deutsche Bank
commento all'intervista de ilSole24ore pubblicata 17 Aprile 2015

In apparenza il ragionamento non fa una piega: le imprese hanno troppo poco capitale per poter aumentare l’indebitamento. La soluzione, allora è quella di aumentare la loro dotazione di capitale.
Questo discorso non farà neanche una piega, ma all’interno di una visione assolutamente conservativa dell’economia.

Infatti, proviamo a tornare ai “basics”: che obiettivo ha una impresa?
E’ l’attore che deve produrre risorse per aumentare la qualità della vita delle persone e costruire strutture collettive efficaci ed efficienti.
Detto, meno sociologicamente: dicesi impresa quell’attore economico che produce utili. Ora, se produce utili diventa capace di auto generare anche capitale: basta che gli azionisti non se li portino via. Allora il problema del capitale per una impresa che produce utili, non si pone.

E se una impresa non produce utili? La soluzione di capitalizzarla perché possa sostenere un maggiore indebitamento è una sciocchezza. Invece di capitalizzarla, va rivoltata come un calzino perché li produca. Più professionalmente: occorre che l’impresa si doti di un Progetto Strategico, formalizzato in un Business Plan, alto e forte che preveda cambiamenti nella sua identità strategica tanto più profondi, quanto più la sua capacità di produrre utili è in crisi.
Allora l’area prioritaria d’intervento è quella di aiutare le imprese a immaginare progetti di sviluppo alti e forti.

Ma proviamo a guardare le cose dal punto di vista di una istituzione finanziaria che operi con strumenti di debito (una classica banca commerciale o investitore in titoli di debito) e che non voglia “impicciarsi” di “Progetti strategici, Business Plan e rivoluzioni strategiche”. Il ragionamento di una tale Istituzione Finanziaria che non voglia impicciarsi potrebbe essere: vado a cercare imprese ben capitalizzate e ad esse faccio debito. Ma non funziona: anche se le imprese sono ben capitalizzate, se non producono utili, la loro capitalizzazione è destinata ad esaurirsi. Allora il ragionamento potrebbe diventare: vado a finanziare imprese che sono capitalizzate e producono utili. Ma qui si cade in contraddizione. Infatti, se producono utili è probabile che non abbiano bisogno di indebitarsi. Detto con il linguaggio degli investitori: l’asset class costituita da imprese che sono capitalizzate, producono utili e cercano risorse a debito rischia che sia vuota.

La conclusione è che oggi una istituzione finanziaria, non può oggi non impicciarsi di “Progetti strategici, Business Plan e rivoluzioni strategiche”.
Fino ad ora abbiamo lasciato il discorso a livello tecnico, ma proviamo ad allargare la prospettiva. Le istituzioni finanziarie sembrano impegnate a far di tutto, anche i ragionamenti più arzigogolati, per non impicciarsi di “Progetti strategici, Business Plan e rivoluzioni strategiche”.
Ma, al la di ogni ragionamento tecnico (pur rilevante), queste istituzioni finanziarie pensano davvero che possa sostenersi una economia che non si orienti al futuro? Che rimanga sempre uguale a se stessa? Che la quantità di capitale disponibile oggi abbia una qualche influenza sulla capacità di restituzione nel futuro delle risorse finanziare prese a prestito? 
Pensano davvero che il problema del futuro non le tocchi?
La riposta a tutte queste domande è inevitabilmente. No!

Allora la conclusione è inevitabile: le istituzioni finanziarie debbono impicciarsi prioritariamente di “Progetti strategici, Business Plan e rivoluzioni strategiche”.
Perché dovranno fornire risorse a debito solo ad imprese che si doteranno di Business Plan alti e forti che descriveranno come le stesse imprese si trasformeranno per aumentare la loro capacità di generare utili.
Questo significa che le Istituzioni finanziarie dovranno, necessariamente, dotarsi di nuove risorse cognitive e metodologiche per essere capaci di valutare la qualità dei Business Plan. Le nuove risorse cognitive sono le conoscenze di strategia d’impresa che oggi non sono nella disponibilità delle Istituzioni finanziarie. Le nuove risorse metodologiche sono costituite da metodologie di Rating dei Business Plan che pure non sono nella loro disponibilità.
Necessariamente, ma non sufficientemente, però. Le stesse conoscenze e metodologie di strategia d’impresa sono necessari agli imprenditori per poter progettare Business Plan alti e forti. Chi può fornire loro queste risorse cognitive? 
Lo possono fare, conviene loro sommamente farlo, le istituzioni finanziarie che forniscono risorse e servizi finanziari alle imprese. Limitandosi a valutare Business Plan rischierebbe di non trovarne alti e forti.

Ci si obietterà che per le istituzioni finanziarie quella che proponiamo e consideriamo necessaria è una rivoluzione. … Certo! E che pensano le Istituzioni finanziarie che il loro settore sia l’unico che non deve attivare rivoluzioni strategiche? 

giovedì 16 aprile 2015

Auguri a Mediobanca

(e agli altri "attori di sistema" per il III millennio)
di
Luciano Martinoli


Mediobanca ha festeggiato i 70 anni della sua fondazione con un video. Una tappa importante della sua vita aziendale celebrata ricordando il significato della sua attività per il nostro paese. E di "significato" nella più ampia accezione del termine ha senso parlare, perchè quando nacque, in quegli anni, successivi al dopoguerra, la sua funzione economica aveva un significato proprio in quel contesto sociale.
Riprendo le parole iniziali del video:

C'è stato un momento in cui in Italia c'era tutto da ricostruire
il paese aveva un grande voglia di ripartire e guardare avanti
da questa volontà è nata Mediobanca

Dunque la "grande voglia di ripartire e guardare avanti" salta fuori solo quando c'è "tutto da ricostruire" perché distrutto?
Se non c'è una distruzione non c'è voglia di guardare avanti?

martedì 14 aprile 2015

Ma che ne sanno gli advisor …

di
Francesco Zanotti


I giornali riportano che le banche che devono “risistemarsi” stanno scegliendo gli advisor. E chi scelgono? Scelgono banche d’affari.
La mia domanda è: ma che ne sanno le banche d’affari?
Il problema delle banche è quello di disegnare Progetti Strategici (Business Plan) alti e forti che ridisegnino il ruolo sociale della banca concretizzandolo in un nuovo insieme di servizi.

Per riuscirci, servono conoscenze e metodologie di strategia d’impresa. Ma le banche d’affari non dispongono di queste conoscenze. Allora la risposta alla domanda “ma che ne sanno le banche d’affari” è: nulla! Attendiamoci una stagione di ristrutturazioni societarie nella più completa conservazione strategica. Mi spiace Italia.

venerdì 10 aprile 2015

Qual è il ruolo dell’imprenditore nel costruire sviluppo?

di
Francesco Zanotti


Intendiamo avviare una ricerca per comprendere quale può essere il ruolo economico, sociale e culturale dell’imprenditore nel fare uscire il nostro Paese dalla crisi.
Oggi troppi pensano sia di seconda battuta: viene dopo.
Infatti, innanzitutto, ritengono necessario che cambi il contesto complessivo. Cioè che si avvii la ripresa. Poi, pensano che tocchi allo Stato e alla finanza riformarsi per creare condizioni favorevoli all'azione imprenditoriale. Da ultimo, la palla passa agli imprenditori che, sostanzialmente, devono cercare di fare meglio il loro lavoro di sempre.

La nostra storia recente, però, insegna che le cose funzionano all'opposto. E’ l’azione degli imprenditori che ha generato le risorse tecnologiche, produttive e finanziarie perché si sviluppasse il nostro Paese e le sue istituzioni. Non ultimo il suo sistema di welfare.

Obiettivo della ricerca che proponiamo è quello di raccogliere le opinioni degli imprenditori al riguardo: desiderano, accettano il ruolo di protagonisti dello sviluppo non solo dell’economia, ma anche della società prossima ventura?

Le domande all'imprenditore
Le domande non sono da considerarsi “caselle da riempire”, ma sono finalizzate a stimolare le opinioni degli imprenditori.

giovedì 9 aprile 2015

Per una volta elogiamo le banche italiane

di
Francesco Zanotti


Post telegrafico.
Le banche tedesche, per essere salvate, non per realizzare loro progetti di sviluppo, sono costate allo Stato tedesco 247 Miliardi. All'Italia solo 4 di cui metà restituiti.
La somma di tutti i soldi che le nazioni Europee hanno sborsato per salvare le banche ammonta quasi ai Soldi (che non ci sono) del Piano Junker.

Le banche italiane sono di gran lunga le più virtuose d’Europa. Che poi non abbiano piani di futuro è altrettanto vero, ma almeno non si fanno mantenere. Bene. Ci impegneremo a dare loro una mano per dotarsi di Progetti di sviluppo alti e forti.

domenica 5 aprile 2015

Big Data: illusione e bufale

di
Francesco Zanotti


Ci si attendono mirabilie dai Big data.
Guido Barbujani sulla Domenica del Sole 24 Ore descrive questa speranza molto chiaramente, relazionando di una esperienza molto interessante: quella della DeCODE Gentics che ha sequenziato il DNA degli islandesi. L’obiettivo era, come scrive Barbujani: “leggiamo a più non posso DNA, qualcosa verrà fuori.”.
In realtà non è venuto fuori molto. Si è, ad esempio, scoperto una variante genetica che aumenta le probabilità di sviluppare il morbo di Alzheimer, ma, dice l’Autore, lo si sapeva già.
La conclusione dell’Autore è inevitabile “… per dare senso ai dati bisogna porsi  le domande giuste, escogitare strategie originali, immaginate soluzioni, modelli teorici".
Quello che è vero nel mondo biologico è vero, a maggior ragione, nel mondo dei sistemi umani, nell'organizzazione e nelle imprese. Sono i modelli che usiamo che danno senso ai dati.
Occorrono disporre di modelli ed approcci più sofisticati e non più dati.
Che è, da sempre, l’obiettivo della ricerca che è il fondamento della nostra proposta consulenziale.


giovedì 2 aprile 2015

Ti faccio il Business Plan??????

di
Francesco Zanotti

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Dovrebbero essere infiniti i punti interrogativi. Perché il proporre ad un imprenditore di fargli il Business Plan è quanto di più deleterio ci possa essere. Dobbiamo dire allora che il Business Plan non serve? Ovviamente no! E, quindi? Quindi concedetemi dieci righe per fare una proposta alternativa.
L’attività fondamentale e quotidiana di un imprenditore è la progettualità strategica. Ad ogni istante, di fronte ad ogni evento, l’imprenditore ripensa alla sua azienda nella sua complessività, Ne immagina il futuro e attiva le azioni che ritiene possano realizzare questo futuro. Se così è, la proposta “Ti faccio io il Business Plan” automaticamente comunica all'imprenditore che il fare il Business Plan non riguarda, non ha niente a che fare con la vera progettualità strategica che lui fa ogni giorno. Si comunica, invece, che il fare il Business Plan è un adempimento burocratico etero imposto. Ad esempio, imposto dalle banche. Ed ha il significato di tutti gli adempimenti burocratici: ci scrivo quello che mi dicono di scrivere. E che mi costi il meno possibile.
Gli investitori istituzionali non bancari (in debito e capitale) hanno netta la percezione della “artificialità” dei Business Plan attuali, tanto è vero che si fanno un loro Business Plan dell’impresa per decidere se finanziarla o meno. Ma anche così, non cavano un ragno dal buco perché sostituiscono a imperativi burocratici la visione di qualche esperto di settore che è tanto sganciata dalla progettualità imprenditoriale quanto una imposizione burocratica.

Allora la progettazione strategica va affidata al genio italico? Metà sì e metà no. Metà si perché il genio italico è storicamente eccellente. Metà no perché oggi il genio italico degli imprenditori sembra mediamente essersi impantanato. Altrimenti sarebbe da mo’ che si sarebbe scatenata la ripresa. Ed allora? Allora … poiché sono andato già al di là delle dieci righe promesse, la risposta sul prossimo post.