"Se gli uomini non nutrono un ideale in un mondo migliore perdono qualcosa.
L'umanità non potrebbe funzionare senza le grandi speranze, le passioni assolute."
Eric J. Hobsbawm

domenica 28 febbraio 2016

"De’ remi facemmo ali" Ovvero: l’emergenza progettuale

di
Francesco Zanotti

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E’ il motto del Politecnico di Bari.
E descrive (Mariano Maugeri sul Sole 24 Ore di oggi) la realtà di una regione che è straordinaria nella “innovazione puntuale”. Sui singoli progetti: li sa immaginare e sa mobilitare risorse pubbliche e private per realizzarli.
Aerei biposto in fibra di carbonio che stanno nel baule di una macchina, acceleratori lineari di protoni per distruggere cellule tumorali, mani bioniche per mozzarelle e burrate e satelliti chiavi in mano.
Ma oggi servono, fa intendere Maugeri, progetti complessi. E qui casca l’asino. Manca una progettualità sistemica.
“E’ come se il pensiero meridiano (esperto in ibridizzazione) che la Puglia riesce a dispiegare nelle singole imprese si ottenebrasse quando si tratta di far marciare sistemi complessi”, scrive Maugeri.
Allora provo ad accennare ad un contributo.
L’insufficienza di progettualità complessa non vale solo per la puglia. Vale anche ad esempio per le grandi imprese che guidano questo paese.
Tipico è il caso delle banche: se si leggono i loro Business Plan si trovano solo banali tentativi di difendersi da un presente che osa mettere in atto la loro intoccabilità istituzionale.
Come i superare questa vera e proprio emergenza progettuale?
Fornendo alle classi dirigenti nuove risorse cognitive. Quando si costruisce un progetto Strategico (a qualunque livello: dalle imprese, al Paese) si usa il modello di progetto strategico di cui, inconsapevolmente si dispone. Quelli di cui dispongono le attuali classi dirigenti sono troppo poveri per riuscire a generare progetti complessi. Allora la soluzione è semplice: occorre fornire alle classi dirigenti nuovi modelli di Progetti Strategici, capaci di “far loro vedere” mondi nuovi e guidarli a progettarne di ulteriori.
Pe fare un esempio: il miracolo italiano è stato costruito su di un modello di società ideale che costituiva una sorta di prerequisito cognitivo già disponibile. Oggi la progettualità strategica deve ancora ricostruire questo pre-requisito cognitivo.


giovedì 25 febbraio 2016

A cosa servono gli imprenditori per gli economisti?

di
Luciano Martinoli



Seguendo i dibattiti sui media, per gli economisti l'imprenditore, a sorpresa, non ha nessun ruolo. Un esempio lampante di questa mia affermazione è l'articolo di oggi sul sole24ore di Fabrizio Galimberti .
Alla domanda su dove va l'economia italiana, tira in ballo politiche di supporto alla domanda, governo, debolezza corale, produzione industriale in calo fino ad arrivare a invocare i suggerimenti di  Keynes.
Se questi, ed altri, fossero presupposti indispensabili per lo sviluppo delle imprese, come si spiegano i successi della solita Apple, ma anche di Luxottica, Ferrero, Barilla, Prysmian, e tante altre aziende (anche se troppo poche) in Italia come nel mondo?

E' sempre più chiaro che è arrivato il momento di cambiare prospettiva, considerando l'inefficacia dell'attuale punto di vista degli economisti, e considerare l'economia non dall'alto dei trend o dei supporti e stimoli che possono venire da altri sistemi (politico, giuridico, sociale, ecc.) ma dal basso, dai singoli attori che determinano i destini dell'economia con i loro comportamenti: le aziende.

Aveva ragione Coase, premio nobel per l'economia nel 1991, quando pubblicò nel 2012 un articolo su Harvard Business Review dal titolo "Salviamo l'economia dagli economisti"!
Giustamente esordiva dicendo che "l'economia come presentata oggi nei testi e insegnata nelle scuole (e, aggiungo io, trattata nella stampa e nel dibattito pubblico) non ha molto a che fare
con la gestione del business e men che meno con l'imprenditorialità".
Come dargli torto?

Allora è il caso di tornare alle origini, come ricorda lo stesso Coase, e considerare l'economia fatta dalla somma dei "comportamenti strategici" delle singole aziende e, a tale scopo, dotarsi di opportuni strumenti di sollecitazione e di analisi.
E' evidentemente finito il tempo per le invocazioni retoriche di interventi "divini" e misteriosi 
(il ritorno della domanda, quasi un sequel cinematografico), la pratica di inutili e sterili danze della pioggia (interventi di governi, summit, stress test, ecc.) e la triste e sterile constatazione dell'inefficacia di tutto questo.
L'azienda deve tornare a produrre abbondante cassa perchè solo essa è il cuore e la forza dell'economia (generare la domanda, creare occupazione, consentire l'abbattimento della tassazione,ecc.). In assenza non ci sono stimoli che tengano.
Dunque non sono i rapporti dell'Istat o dell'Inps, i decreti leggi del Governo Renzi o Cameron, i quantitative easing di BCE o FED che possono cambiare le sorti dell'economia ma lo può fare esclusivamente la progettazione dell' attività d'impresa e l'analisi di tali progetti. 

mercoledì 24 febbraio 2016

Il caso Deutsche Bank

di
Francesco Zanotti

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Alessandro Graziano sul Sole 24 Ore di oggi, parla del “mistero sui livelli di capitale chiesti dalla Bce” a Deutsche Bank. In soldoni, la Bce tiene segreti che aumento di capitale richiederà alla banca.
Ovviamente il problema è grave e dà adito ai sospetti più gravi sulla solidità della Banca e disorienta gli investitori. Da da pensare anche al ruolo e all’influenza del Governo tedesco sulla Bce.
Ma a me sembra che si passi sotto silenzio un elemento ancora più grave. Oltre al problema di quanto capitale serve oggi a quella banca, il problema è sapere di quanto capitale avrà bisogno nel futuro. Detto un po’ brutalmente, continuerà a fabbricare perdite o comincerà a guadagnare?
Indicazioni al riguardo possono venire solo dal progetto Strategico esplicitato in un Business Plan. Esso dovrà raccontare come si vuole trasformare Deutsche Bank. Perché è ovvio che se continuerà a fare quello che fatto nel passato continuerà ad ottenere quello che ha ottenuto nel passato. Cioè perdite.
Ma Deutsche Bank non ha presentato nessun Business Plan. Così, ogni legittimo desiderio di capire se sta pensando a come smettere di fare perdite e come fare utili rimane irrealizzato.

Morale: ancora una volta non pensiamo al futuro. Continuiamo a camminare verso il futuro rivolti verso il passato. Anche gli investitori purtroppo che cercano sicurezze (inevitabilmente effimere) e non sanno cercare di capire cosa accadrà nel futuro.

domenica 21 febbraio 2016

Una crisi autocostruita per carenze progettuali

di
Francesco Zanotti

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Nel 1964 si chiamava “congiuntura”. Oggi si chiama crisi. Ma l’origine è sempre la stessa: un sistema di imprese che va morendo di conservazione.
Le crisi sono costruite dalle imprese che hanno avuto successo e in quel successo sono morte.
Come superare una crisi di conservazione?
Propongo due citazioni dal libro (che consiglio di leggere) di Giuseppe Berta “La via del Nord. Dal miracolo economico alla stagnazione.”
Comincio dal fondo, proprio la pagina conclusiva (pag. 269) del libro: “In un’atmosfera impastata di timore, di diffidenza e di sospetto verso il futuro traluce il rischio che le trasformazioni di cui il Nord, come l’Italia, va incontro eccedano largamente le capacità indispensabili per governarle.” E poi, poco più avanti nella stessa pagina “Richiederebbe (l’ansia dei cambiamenti che non si comprendono) piuttosto una progettualità assente da decenni dalla scena sociale del Nord.”
Ma le start-up innovative e le imprese rete? Purtroppo anche per loro: progettualità strategica debole.
Le start-up innovative propongono piccole innovazioni che aiutano piccoli pezzi della nostra esistenza … se vogliamo con tutte le forze conservarne lo stile complessivi. Ma lo vogliamo, o desideriamo un’altra e diversa vita?
Le imprese reti troppo spesso vengono intese come strumento di sopravvivenza di una impresa a “basso costo strategico”. Rimani pure come sei. Ci pensiamo noi manager di rete a farti costare meno la produzione, a venderla all’estero. Ma continua pure a fare quello che hai sempre fatto. Sperando che la Storia si fermi.
E’ necessaria una nuova stagione di progettualità strategica “in grande”. Per attivarla è necessario fornire alle classi dirigenti nuove conoscenze e metodologie di strategia d’impresa.


mercoledì 17 febbraio 2016

Le banche: diventare più grandi a tutti i costi?

di
Francesco Zanotti

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L’8 febbraio scorso avevo pubblicato una lettera aperta a Daniele Manca per sostenere che non era poi così certo che le aggregazioni bancarie fossero positive.
Il Dott. Manca aveva cortesemente risposto su questo blog.
Ora riprendo il tema a seguito di un articolo apparso sul The New York Times del 16 febbraio.
In questo articolo si propone l’opinione di Neel Kashkari nel suo primo discorso pubblico come Presidente della Federal Reserve Bank di Minneapolis.
Mr. Kashkari, che aveva servito come senior Tresaury Department official durante le Amministrazioni di Bush e Obama, dichiara esplicitamente che l’unico modo per evitare altre e future crisi sistemiche è quello di “spezzettare tutte le banche che hanno raggiunto la condizione di “Too big to fail”.
Mr. Kashkari paragona il problema a quello delle centrali nucleari: non si può correre nessun rischio in questi impianti. Lo stesso deve accadere per le banche: non possiamo correre alcun rischio che esse possano fallire.
Ovviamente il giornalista riporta opinioni anche contrarie a quella di Mr. Kashkari.

Nel mio precedente post ho proposto altre ragioni per contestare la nuova ondata di fusioni. E l’opinione autorevole di Mr.Kashkari conforta la mia tesi.

Ma l’obiettivo del post non è quello di dimostrare che ho ragione.
E’ quello di dire: guardare che lo spacciare per strada inevitabile, per rilanciare il nostro sistema bancario, una nuova ondata di fusioni è almeno, superficiale.
Il mio obiettivo è quello di avviare un necessario e serio dibattito perché credere che una nuova ondata di fusioni possa risolvere tutti i problemi delle banche rischia di creare un rilevante danno sociale.
Chi accetterà mai di affrontare un simile dibattito? La mia speranza è che la stampa libera e competente si faccia carico di avviare questo dibattito.


martedì 16 febbraio 2016

Non basta dire: investimenti!

di
Francesco Zanotti

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Ieri Mario Draghi ha riproposto il binomio: meno tasse, più investimenti. Credo sia un binomio, così come è stato esposto, nefasto. E spiego il perché.
Cominciamo dagli investimenti. Non è che gli investimenti siano negativi di per sé. Lo diventano quando li assolutizza. Intendo dire: il richiamo agli investimenti è negativo se non ci si chiede quali investimenti. Non vanno bene tutti. Ad esempio, vi sono investimenti che non fanno che aumentare debiti e, in seguito, sofferenze. Sono gli investimenti in capacità produttiva in imprese i cui prodotti interessano sempre meno. Andrebbe bene un investimento in capacità produttiva per imprese come la Ferrari. Ma, guarda caso, li fa con il contagocce.
Non sono andati bene gli investimenti “delocalizzativi” per imprese che hanno cercato una pura riduzione dei costi.
In sintesi, vanno bene certo gli investimenti, ma se hanno un senso strategico che non può essere quello di seguire le mode, come fanno la maggior parte delle imprese. Anche quelle grandi come le banche con la loro insensata mania di diventare grandi.

Arriviamo alle tasse. Anche qui, non è negativo in assoluto abbassare le tasse. Lo è quando diventa un assecondare le imprese nel considerare sempre più e soltanto i costi. Li si spinge ancora di più a considerare solo e soltanto i costi. E a cercare tutte le scappatoie per continuare a produrre cose che non interessano più.
Io credo che occorra aumentare il gettito fiscale, ma abbassare le aliquote. Per ottenere questa magia occorre che le imprese “guadagnino” molto di più. Domanda: lo Stato incassa di più seviziando imprese che non riescono a pagare gli stipendi o agendo perché esistano moltissime imprese “Ferrari o Apple like” che producono molti utili?
Ma cosa dovrebbe fare lo Stato per fare emergere imprese “Ferrari o Apple like”? La nostra proposta è apparsa in mille forme in questo blog.


sabato 13 febbraio 2016

Le sofferenze sembrano cercate apposta

di
Francesco Zanotti

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Si dice il peccato, ma non il peccatore. E il peccato è veramente grave.
Un Convegno, un alto dirigente, con autorevolezza sul tema, di una grande banca.
Alla domanda: ma quali sono le informazioni prospettiche che chiedete alle imprese? La risposta è stata (sintetizzo): “Noi non chiediamo Business Plan alle imprese perché non ce l’hanno. E non le spingiamo a farlo, altrimenti queste vanno dai concorrenti che non glielo chiedono.”.
Questa risposta significa che le banche concedono prestiti senza voler sapere che se ne fanno dei soldi, senza valutare se li useranno in un modo che farà loro aumentare la capacità di generare cassa. Si fidano sul fatto che le imprese che sono state brave nel passato lo saranno anche nel futuro.
Possibile contro obiezione: ma abbiamo i sistemi di Rating. Ok, allora guatdiamoci dentro. Primo: sono statisticamente sbagliati. E strategicamente banali, cioè insignificanti. Secondo: usano dati inevitabilmente vecchi. Storiella di qualche tempo fa. Un amico mio si vede richiedere un appuntamento da un “venditore” di un’altra grande banca che gli dice: “La sua azienda (una piccolissima società di consulenza) ha un rating molto positivo. Se apre un conto da noi le offriamo un fido di cassa senza garanzie di 10.000 Euro.”. Il mio amico sorride e bonariamente risponde: “Caro signore la ringrazio del giudizio positivo sul rating e anche dell’offerta. Ma sappia (ed ovviamente il venditore non poteva saperlo perché le banche guardano i dati di bilancio) che ho messo da qualche mese la mia aziendina in liquidazione.”.
Una storia più seria che abbiamo già raccontato qui, ma che ripetiamo perché fa bene il paio con quello che abbiamo detto. Riguarda la Banca dell’Etruria. Anni fa siamo andati dai vertici della banca e presentare il Rating che avevamo assegnato al loro Business Plan. Rating molto problematico che evidenziava la mancanza di una strategia nei confronti delle modalità di finanziamento delle imprese. Ci siamo anche permessi di fare proposte. La cortesia con cui siamo stati ricevuti è solo pari alla intensità del silenzio che ne è seguito.
Anche solo dopo queste poche righe: come si fa a non dire che le le banche se le cercano?



giovedì 11 febbraio 2016

Banche al tramonto?

Colonne d'Ercole

Oltre lo stretto di Gibilterra alla ricerca di "fondamentali"
dell'economia e della finanza migliori (o uguali?).

di
Luciano Martinoli



Da tutte le borse mondiali arrivano segnali di sfiducia, seppur altalenanti, verso le banche. E questo nonostante le prestazioni di alcuni campioni del settore, a parte alcune eccezioni, siano ottime; dalla nostrana Unicredit (1,7 miliardi di utili) alla Citigroup americana (17 miliardi di dollari di profitto l'anno scorso).
Perchè?

martedì 9 febbraio 2016

Lettera aperta a Ignazio Visco Giovedì 11 a Modena: e se fosse possibile un futuro radicalmente diverso per il sistema bancario?

di
Francesco Zanotti


Signor Governatore, 
accetterebbe di discutere intorno ad una visione radicalmente nuova del sistema bancario e del suo futuro?
Giovedì 11 febbraio all’Università di Modena presenteremo un libro (Per Comprendere Luhmann, edito da IPOC) che è fatto di due “pezzi”. Il primo è costituito dalla traduzione (fatta da Luciano e Lorenzo Martinoli) di un libro “divulgativo” del pensiero del grande sociologo tedesco Niklas Luhmann. Si tratta di “Radical Luhmann” del prof. Hans-George Moeller. La seconda parte è una mia appendice che racconta come il pensiero di Luhmann permetta di vedere in modo molto diverso la situazione attuale. E, poi, cosa è possibile aggiungere per trovare una nuova via di sviluppo.
Cosa c’entra il futuro del sistema bancario?
C’entra perché il pensiero di Luhmann e le nostre riflessioni ci portano ad individuare problemi e soluzioni radicalmente diversi da quelli che oggi vengono individuati e da quelle che vengono oggi proposte.
Il problema: le strategie delle banche sono sostanzialmente manageriali e non imprenditoriali. Sono orientate a far funzionare meglio il presente e non a progettare il futuro. Lo dimostra il modo in cui viene affrontato il problema delle sofferenze. Si sostiene che siano nate per colpa della crisi. Che il loro peso potrà essere eliminato potremo solo con aiuti esterni. Non si formeranno nel futuro solo se la crisi sarà risolta.
Noi proponiamo una tesi alternativa, proprio usando il pensiero di Luhmann e le nostre ulteriori riflessioni. Le sofferenze nascono dalla perdita di significato dei prodotti e servizi delle imprese. Interessano sempre meno. Si uscirà dalla crisi solo se le imprese attiveranno una nuova stagione di progettualità imprenditoriale. Per riuscirci devono usare conoscenze e metodologie di strategia d’impresa. Le banche devono, prima di tutto acquisire loro per prime queste conoscenze e metodologie e poi fornirle alle imprese. Le potranno usare anche per valorizzare il sottostante dei crediti deteriorati: le risorse materiali e immateriali delle imprese in crisi.
Che ne direbbe di discutere di questa tesi?



lunedì 8 febbraio 2016

Lettera aperta a Daniele Manca sul “consolidamento” del sistema bancario

di
Francesco Zanotti

Egregio Dottore,
leggo sempre con interesse i suoi articoli. In essi non solo leggo competenza, ma anche rigore etico. Ho letto anche il suo pregevole articolo sul CorriereEconomia di questa settimana sul consolidamento del sistema bancario.
Mi permetto di inviarle alcune idee “pesanti”, ma del tutto sottovalutate (direi: rilevanti, ma trascurate), che permettono di arrivare a conclusioni diverse dalle sue.

Inizio con due opinioni autorevoli.
La prima (più antica, ma lungimirante) è quella espressa nel Rapporto Ferguson, redatto per incarico dei Ministri delle finanze e i Governatori delle banche centrali del cosiddetto “Gruppo dei Dieci”. In esso si dimostrava che le evidenze empiriche riguardo all’aumento di efficienza operativa dovuto ai processi di concentrazione erano almeno incerte.
La seconda è quella espressa dal Prof. Onado. Egli, citando, sul Sole 24 Ore del 29 ottobre 2015, lo Europoean Systemic Risk Board, ha sostenuto che, in termini generali, “Proporre ulteriori fasi di espansione (delle dimensioni delle banche) in queste situazioni è degno del generale guerrafondaio del Dottor Stranamore.”.

Queste opinioni non sono solo autorevoli, ma scientificamente fondate.
Ricordiamo le origini della teoria secondo la quale un aumento dimensionale porta a maggiore efficienza e maggiore solidità. Essa è fondata sulla curva d’esperienza (semplificando, più produco una cosa, più la produco meglio ed a minor costo) che ha portato il BCG a individuare la quota di mercato come misura delle “forza competitiva” di una impresa (di una unità di business sarebbe meglio dire). 
La curva d’esperienza ha, però, senso solo in catene produttive fordiste. E in tutti i sistemi che possono ad esse essere assimilati.
In tutti gli altri casi vale tutto il contrario. Soprattutto vale il contrario in sistemi non meccanici come le organizzazioni. A mano a mano che si aumenta la grandezza di una organizzazione aumenta la sua fragilità e la sua inefficienza.
I riferimenti sono al pensiero di unità di business, ad esempio.

Ulteriore tema: le tecniche manageriali. Quelle attuali (anche le più avanzate e a maggior ragione, quelle di cui dispongono i manager bancari che, per forza di cose sono un sottoinsieme di quelle disponibili) sono giudicate dai Guru del management (Henry Mintzberg e Gary Hammel) assolutamente inadatte a gestire organizzazioni complesse. Questo significa che, anche se mettere insieme due banche portasse a solidità ed efficienza, occorrerebbe riuscire davvero a mettere insieme. E le attuali conoscenze e metodologie manageriali non permettono di raggiungere questo risultato.

Da ultimo. il mito della grandezza è tipico della società industriale. Esso sta mostrando in ogni dove i suoi limiti. E viene sostituito dal desiderio di costruire molto più naturali sistemi a rete. Il che vorrebbe dire che una rete di piccole banche potrebbe essere molto più solida di una struttura monolitica. Ricorderà certamente Arpanet, l’avo di internet. Gli americani per garantirsi che la loro rete di comunicazioni sopravvivesse ad un attacco nucleare russo avevano costruito un sistema di comunicazioni a rete che garantiva molte maggiori possibilità di sopravvivenza.
Mi permetto una conclusione: è necessario usare risorse cognitive diverse dalla attuali per capire il presente e costruire il futuro. Al di là di quello che ho provato a raccontare in questo post, ho provato anche ad usare nuove risorse cognitive per affrontare, da un punto di vista imprenditoriale, la sfida delle sofferenze. Chi è interessato a leggerlo lo scarichi da questolink.
Sperando in una sua risposta, voglia gradire i miei più cordiali saluti.

Francesco Zanotti